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IMMOBILIARE MINETTI: STAREBBE TRATTANDO LE DIMISSIONI IN CAMBIO DI CASE A LOS ANGELES E SULLA RIVIERA ROMAGNOLA

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

SECONDO “L’ESPRESSO” L’ACCORDO TRA BERLUSCONI E IL PADRE DI NICOLE CHE NE GESTISCE GLI AFFARI SAREBBE SU UNA BASE TRA I 5 E I 10 MILIONI DI EURO

Baci da Los Angeles.
Baci iperbolici, schioccati da labbra modello Zodiac gonfiate dall’allegro chirurgo.
Mentre gli strapagati consiglieri della Regione Lombardia si riunivano in stanche riunioni di mezza estate, la collega Nicole Minetti bazzicava la metropoli californiana in compagnia del padre Antonio.
Fresca tappa della calda estate della vestale del culto di Bunga Bunga, sotto processo a Milano per sfruttamento della prostituzione nella villa dell’ex premier Silvio Berlusconi, e che l’ha detto e ripetuto: «Non mi dimetto, non mi dimetto adesso, non mi dimetto su ordine di nessuno».
Intendendo il segretario del Pdl Angelino Alfano, il coordinatore lombardo Mario Mantovani, figure politicamente influenti come Daniela Santanchè, e una fetta crescente di opinione pubblica irritata dalla disinvoltura di questa 27enne senza freni.
Perchè a Los Angeles? Perchè col padre?
Ufficialmente, per qualche giorno di vacanza e per un casting.
Televisivo o cinematografico.
Difficile orientarsi, quando un giorno le attribuiscono la voglia di girare un film porno (ma lei smentisce), un altro lascia correre la voce di un interessamento a lei, interprete di se stessa, da parte di Oliver Stone per un film sul declino di Berlusconi.
L’indiscrezione, invece, che “l’Espresso” ha raccolto nei corridoi di viale Monza, sede lombarda di un partito dilaniato da cordate rivali, ha a che fare con il do ut des, il negoziato informale in corso tra l’ambiziosissima soubrettina romagnola (9 mila euro netti al mese da consigliere regionale; imposta nel listino del presidente Formigoni creato con l’aiuto di firme fasulle).
Per lasciare lo scranno in Regione entro ottobre, prima che scatti il diritto al vitalizio, come da lei dichiarato a “Vanity Fair” (perchè non le possano «rinfacciare in eterno il privilegio»), chiede garanzie a Berlusconi in persona, bypassando la struttura del partito, cosa che incattivisce il sempre misurato segretario Alfano.
Secondo le indiscrezioni si parla di diversi milioni di euro, tra i cinque e i dieci, frazionati in un anno, una parte in immobili a Los Angeles e una parte sulla Riviera romagnola, attraverso papà  Minetti.
Un regalone d’addio e di silenzio.
Una coda alla lunga fila di versamenti del Cavaliere, tramite il ragionier Spinelli, dal famoso conto del Montepaschi alle olgettine, prima per le loro voglie di shopping poi per le loro spese legali.
Illazioni interessate? O un esito verosimile?
Certo è che le manovre immobiliari lasciano meno tracce dei trasferimenti bancari; che il padre Antonio da tempo fa da amministratore alla figlia; che lo stesso padre, da manager della Expansion Consulting, società  di eventi, congressi e promozioni di Rimini, ma registrata a San Marino, s’intende di artifizi contabili e fiscali; e che proprio a Los Angeles Minetti senior ha avuto un importante cliente, il gruppo Herbalife International, estetica e salute.
Se poi si aggiunge che gli piace il mattone, e s’interessa a Milano Marittima, località  gettonata da bulli e pupe, calciatori e tv, il tutto non suona così peregrino.
Da un lato, in questo inizio agosto, c’è lei, l’esibizionistica Nicole.
Che stupì tutti nel gennaio 2011, quando arrivò in consiglio regionale, incurante delle notizie sulle serate Bunga Bunga e il suo ruolo nell’harem delle olgettine, con labbra e seno vistosamente implementati dalla chimica.
Per un po’ si sottomise alle forme istituzionali, con mises poco vistose e scarpe basse.
Ma quest’estate è riesplosa con foto paparazzate tra Versilia e Costa Smeralda in cui sfoggia bikini avventurosi e seni bronzei da dea della fertilità .
E poco prima, in via Montenapoleone, a Milano, aveva esibito una maglietta-sberleffo, con la scritta «Senza t-shirt sono ancora meglio».
Sull’ultimo numero di “Chi”, poi, il rotocalco della Real Casa di Berlusconia, risplende in copertina in posa sessualmente aggressiva, e all’interno in un primo piano sconcertante, in cui una bella ragazza di 27 anni appare quasi deformata da un taglio d’occhi cambogiano e quelle iperlabbra da fumetto porno.
Il tutto non giova alla sua popolarità  (il cittadino medio si chiede: e questo carnevale con le tasse mie?), ma tiene sulla corda il Cavaliere inguaiato dal caso Ruby, ormai squalificato nei Paesi dell’area anglosassone e protestante, dove su sesso e politica c’è meno tolleranza che alle nostre latitudini catto-ipocrite.
E anche se Nicole parla un ottimo inglese, frutto della madre Georgina, la yellow press britannica la tratta come una maà®tresse di lusso.
Dall’altro ci sono gli uomini e le donne del partito.
Gli irritati e i vanitosi.
Tra gli irritati, tanti capataz del Pdl, da Alfano in giù, passando per l’area ex An e quel che resta dei cattolici.
Alfano è furente per aver dato per certe le dimissioni di Nicole da consigliera il 16 luglio, ricevendo da lei un’alzata di spalle e una visita privata ad Arcore prontamente divulgata («Il presidente le mie dimissioni non le ha mai chieste»).
I vanitosi sono i sedicenti tutor di Nicole, che ostentano di averla introdotta alle sacre cose della politica.
Come Clotilde Strada, a cui la Minetti aveva confidato di esser stufa di polemiche, e di volersene andare. Clotilde Strada è l’ex segretaria del Milan che fece carriera nel partito lombardo ai tempi di Paolo Romani, e poi con le sue dichiarazioni sulle strane firme del listino Formigoni ha inguaiato il segretario regionale Guido Podestà .
Sicchè il nuovo responsabile di viale Monza, Mantovani, ha voluto occupare uffici nuovi, nell’ala destra, per non mischiarsi al giro minettiano di Strada e Serafini.
Giancarlo Serafini, altro vanitoso. Senatore del Pdl, sperava di sostituire lui il Podestà  in disgrazia.
Serafini conosce Berlusconi dai tempi della Edilnord, quand’era responsabile della Uil edili, e si è subito detto a favore della candidatura Minetti nel listino bloccato, fiutando i vantaggi, e offrendosi come tutor tra gli scogli della politica consiliare.
Lo scottato Serafini fa capire ai suoi di essere lui il vero ispiratore, anzi il mediatore nella trattativa tra lei e il Cavaliere. Fanfaronate?
Il Cavaliere è assediato da chi vanta e millanta. Amaro conto per le sue esuberanze, e indizio di fine regime, quando s’avanzano le terze file e i riscossori di crediti, veri e presunti.
Emilio Fede, per esempio, che con la Minetti ha condiviso la chiamata in tribunale per favoreggiamento nel caso Ruby, sostiene di essere stato lui, prima di altri, a consigliare a Nicole di dimettersi, una sera al ristorante Giannino di Milano: «Per giocare d’anticipo, come atto di dignità  personale e per risolvere il problema politico», racconta a “l’Espresso”, «ben prima che la attaccassero, cosa che è puntualmente avvenuta».
L’ha rivista di recente, dice l’ex direttore del Tg4, dal comune parrucchiere Coppola sopra la Rinascente: «Ma non abbiamo parlato di trattative o altro».
Si capisce: da coimputati, un poco di prudenza, in questa storia di imprudenze.

Enrico Arosi,
(da “L’Espresso”)

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ILVA, INTERCETTAZIONI CHOC: “DOBBIAMO PAGARE TUTTA LA STAMPA”

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

COME SI MUOVEVA LA DIRIGENZA DELL’ILVA… I PM: “COSI’ L’AZIENDA HA TENTATO DI ALTERARE I DATI DEL’INQUINAMENTO AMBIENTALE”

Un dirigente dice a un altro: «La stampa dobbiamo pagarla tutta».
I pm si presentano con un faldone di intercettazioni. Che compromettono pesantemente le posizioni degli indagati, lo staff dell’Ilva di patron Emilio Riva.
Che dimostrano l’inquinamento probatorio, e cioè il tentativo di alterazione dei dati sulla emissione dei veleni prodotti dallo stabilimento.
Ci sono intercettazioni in cui l’Ilva chiede conto al direttore dell’Arpa, Giorgio Assennato, dei risultati di una campagna di rilevamenti.
Questo avviene nel giorno in cui l’Ilva si presenta al Riesame (con il suo nuovo presidente Bruno Ferrante) perchè vuole contestare le conclusioni a cui è giunta l’accusa.
L’udienza fiume iniziata alle 9 del mattino in un clima surreale, con il Tribunale completamente isolato dalle forze dell’ordine, e un corteo “solidale” con gli imputati bloccato dallo stesso presidente Ferrante che non intende più «manovrare» i suoi dipendenti, e si è conclusa alle 9 di sera.
I giudici hanno tempo fino al 9 agosto prima di decidere sulla scarcerazione degli indagati e sul dissequestro degli impianti.
Udienza drammatica di un’inchiesta giudiziaria dagli esiti imprevedibili, perchè il Riesame potrebbe confermare il sequestro degli impianti e far accelerare le procedure di spegnimento degli impianti, rompendo così quell’«armonia» costruita tra Bari e Roma di attiva convergenza tra governo, regione, azienda ed enti locali.
Nel giorno in cui Palazzo Chigi nomina un commissario per bonificare Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa rischia la chiusura se la proprietà  non rispetterà  le prescrizioni stabilite dal gip Todisco.
«Non ci dormo la notte al pensiero che 20.000 persone rischiano di non lavorare più». Francesco Sebastio, procuratore di Taranto, in una pausa del Riesame, risponde alle domande dei giornalisti.
Mentre un legale degli imputati commenta amaro: «Dopo sei ore di discussione, le posizioni sono cristallizzate. Non si fanno passi avanti».
I legali dell’Ilva si presentano con le memorie e controperizie da depositare: «Lo stabilimento Ilva di Taranto esercisce nel pieno e indiscusso rispetto di una legittima Autorizzazione integrata ambientale, emessa dalla competente pubblica amministrazione nell’agosto 2011. Anche le contestazioni elevate in passato non hanno mai individuato presunti sfondamenti dei limiti di emissione. Dal 1998 al 2011 lo Stabilimento Ilva di Taranto ha investito, solo in tecnologie finalizzate alla tutela dell’ambiente e della salute, circa un miliardo e centouno milioni e 299 mila euro, pari al 24% degli investimenti totali. Le polveri? I livelli di Taranto sono considerevolmente inferiori a quelli medi annui registrati nelle aree urbane del Nord Italia, e anche a Firenze o Roma».
Insomma, una radicale contrapposizione rispetto ai dati emersi dall’incidente probatorio, i cui esiti, dice il procuratore Sebastio, sono ormai «una prova del processo».
Naturalmente il «processo» avviene nell’aula del Tribunale del Riesame.
E le affermazioni di accusa e difesa raccolte nei corridoi del Tribunale ne sono una fedele rappresentazione.
Sebastio sostiene che la ricostruzione della memoria dell’accusa fatta ai giudici dal pm Buccoliero è molto netta: «L’Ilva sostiene di aver rispettato i parametri indicati dall’Aia, dall’Autorizzazione integrata ambientale. In realtà  l’Aia fa riferimento alle emissioni convogliate, cioè quelle che escono dal camino E 312. Ma noi invece abbiamo dimostrato che il problema è rappresentato dalle emissioni diffuse (parchi minerari) e fuggitive. In un anno i controlli effettuati sono stati soltanto tre e preavvisati. Occorrono campionamenti continui. Dove sono stati scaricati i sacchi di diossina presi e caricati a spalle?».
Il procuratore aggiunto Pietro Argentino aveva presentato un’istanza per spostare a metà  settembre la decisione sul sequestro dello stabilimento.
Istanza respinta dal Riesame per gli evidenti «rilevanti interessi socio economici» che impongono una decisione immediata.
L’accusa si è rivolta ai giudici del Riesame con un quesito: «A Genova è sorto lo stesso problema di Taranto. Tra il 2002 e il 2005 l’area a caldo è stata sequestrata (ottenendo le conferme del Riesame e della Cassazione) ed è stata trasformata in area a freddo. Perchè non si può fare la stessa cosa a Taranto?».
La nuova Ilva di Bruno Ferrante è ottimista.
Anche se quelle intercettazioni telefoniche depositate ieri mattina sono compromettenti, l’importante è guardare al futuro, voltare pagina.
Che ha deciso di ritirarsi da tutti i contenziosi sollevati, e con la presenza del suo presidente Ferrante nell’aula del Riesame conferma la volontà  di difendersi «nel processo e non dal processo».

Guido Ruotolo
(da “La Stampa”)

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COSI’ LAVITOLA RICATTAVA BERLUSCONI: “TORNO E TI SPACCO IL CULO”

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

“GIOCHIAMO LA PARTITA A BRISCOLA CON IL NANO MAGGIORE”… LA RICHIESTA DI 5 MILIONI DI EURO PER IL SUO SILENZIO

“Torno e ti spacco il culo”, scrive Valter Lavitola a Berlusconi sotto il biglietto di ritorno per l’Italia mostrato all’avvocato Gennaro Fredella.
“Dobbiamo parlare con il nano maggiore — gli fa eco Carmelo Pintabona — una volta che lui è fuori dobbiamo sederci a tavola per giocare una briscola, ed è una briscola che perde di sicuro”.
Una briscola da cinque milioni di euro, il prezzo dell’estorsione costata ieri un nuovo ordine di custodia cautelare per l’ex direttore de l’Avanti!, già  detenuto.
Con la stessa accusa è finito in carcere Carmelo Pintabona, faccendiere siciliano con interessi in Argentina legato all’Mpa di Raffaele Lombardo, latore delle richieste estorsive.
Nell’indagine sono coinvolti anche l’avvocato Alessandro Sammarco, pronto a volare in Argentina da Lavitola per interrogarlo nell’interesse di Berlusconi (indagato per induzione alle dichiarazioni mendaci), l’avvocato di Lavitola Eleonora Moiraghi e un amico siciliano di Pintabona, Francesco Altomare.
Grazie alle testimonianze della sorella di Lavitola, Maria che ha riferito parole della compagna del fratello, Neire Cassia Pepe Gomez, e numerose intercettazioni telefoniche (tra cui una telefonata-confessione di Pintabona) i pm napoletani Henry Woodcook e Vincenzo Piscitelli hanno ricostruito tutte le tappe della richiesta di cinque milioni di euro partita con una lettera battuta al computer nella casa di Lavitola a Panama, e poi inviata ad una casella di posta elettronica della quale entrambi possedevano la password.
I due magistrati sono piombati a Palermo per l’arresto di Pintabona e in mattinata hanno incontrato il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, con il quale hanno avuto uno scambio di informazioni utili alle rispettive inchieste, entrambe per estorsione nei confronti dell’ex premier.
Convocato il 26 luglio scorso, Berlusconi ha disertato anche l’appuntamento napoletano.
La sorella Maria e le richieste di soldi
È Maria Lavitola a rivelare ai pm un incontro nel novembre scorso a Roma, alla fermata della metro Anagnina, con Neire Cassia Pepe Gomez, appena giunta dal Sudamerica.
“Con Neire andammo nello studio dell’avvocato Fredella, che mi disse che mio fratello Valter aveva spedito una mail o un fax all’on. Berlusconi con il quale mostrava un biglietto aereo di ritorno in Italia con sotto scritto: “Torno e ti spacco il culo”.
Fredella non è d’accordo, considera il suo cliente ‘pazzo’ e rivela a sua volta a Maria Lavitola di avere incontrato l’avvocato di Berlusconi, Alessandro Sammarco.
I problemi del legale
“Mi disse che era andato nello studio della sua collega Nicla Moiraghi credendo di incontrare un investigatore privato, ma invece trovò Sammarco — rivela Maria Lavitola — il quale gli disse che si sarebbe recato egli stesso in Argentina per incontrare Valter ed esporgli i termini dell’accordo che prevedeva, tra l’altro, la garanzia per mio fratello di un’adeguata difesa. Gli disse poi che la possibilità  di offrire la salvezza a Valter, perchè la salvezza di Valter era la salvezza del suo cliente”.
Italiani d’Argentina
Sammarco appare determinato a partire e in effetti vengono spesi seimila euro per acquistare due biglietti Roma-Buenos Aires per il legale di Berlusconi e l’avvocato Moiraghi.
La somma arriva in contanti, e per i pm è il tentativo di non lasciare tracce visibili del viaggio. Ma i due legali di Lavitola considerano l’interrogatorio di Sammarco ‘inopportuno ‘ e sconsigliano il loro cliente, invece entusiasta, ad affrontarlo.
“Lavitola si mostrò molto contrariato — dice Fredella — ma pretese di incontrarsi almeno con la Moiraghi”. Che, infatti, partì. Sola.
Il riscontro messo a verbale
Interrogato dai pm Fredella ha confermato sostanzialmente l’episodio, negando però di avere ascoltato quest’ultima frase. Che Alessandro Sammarco nega avere pronunciato: “È vero — dice — ho incontrato Fredella, ma era doveroso farlo dovendo sentire un suo cliente. I biglietti sono stati pagati da un’agenzia su incarico del mio cliente, non so nulla del pagamento, ma tenderei a escludere contanti. non ho mai parlato di salvezza di Lavitola, l’unica ad interessarmi è quella di Berlusconi”.
Il faccendiere dei due mondi
Carmelo Pintabona? “Un mio amico carissimo”, detta a verbale Lavitola, che poi prosegue nel goffo tentativo di sminuirne il ruolo di “latore dell’estorsione”.
Amico, prestanome, sponsor e soprattutto socio “negli affari del pesce”, Pintabona assiste a Panama alla scrittura della lettera a Berlusconi, gli presta centomila euro, gli compra persino il biglietto di ritorno in Italia e poi “confessa” al telefono al suo amico Francesco Altomare: “Mi aveva chiesto di intermediare con il presidente” (Berlusconi, ndr), che lui chiama “nano maggiore”.
Pintabona arriva a pochi passi da Berlusconi (non si capisce se a palazzo Grazioli o ad Arcore), ma è fermato dalla polizia, che lo avverte:“Non lo sa che è reato incontrare un latitante?”.
E nell’attesa della scarcerazione dell’amico Valter progetta la costruzione di 400 mila case in Argentina con l’appoggio della Presidente del paese sudamericano e coltiva sogni megalomani: “Io sto aspettando che Valter esca tranquillo, e quando lui uscirà , io mi siederò con Putin, con Lula, Condoleezza Rice, mi siederò con persone che questi manco se lo sognano. Valter (ndr) mi ha scritto una lettera, non a me, l’ha mandata a Caselli (Esteban, senatore eletto nel Pdl in Argentina, (ndr) e mi ha mandato molti saluti anche per altre persone…a Carmelo gli voglio tantissimo, tanto bene, me lo ha detto lui, tu mi hai salvato la vita, come ti ripago?”.
Il mercenario gentiluomo
Un Lavitola molto diverso da come lo ha descritto la sua compagna Neire Gomez nell’incontro con la sorella Maria alla fermata della Metro Anagnina.“Era tornata in Italia in segreto e mi disse che Valter stava sclerando, perchè assumeva con frequenza psicofarmaci. Lo aveva sentito poco prima e le aveva detto che era in Argentina dove stava eseguendo lavori come mercenario, lavori che gli stessi argentini rifiutavano di eseguire perchè pericolosi. La Neire — continua Maria — mi disse che temeva per la propria vita perchè in passato aveva lavorato con il fratello per conto dei servizi segreti. Mi disse che per Valter la vita umana non valeva nulla e questo lo aveva dimostrato in tante circostanze anche se non si era mai spinto a commettere omicidi personalmente ma ne aveva commissionati”.

Marco Lillo e Giuseppe Lo Bianco
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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VOLANO I PIATTI NELL’IDV, DONADI CHIEDE SUBITO IL CONGRESSO: “DI PIETRO SCODINZOLA DIETRO A GRILLO”

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

LO STORICO COLONNELLO DELL’EX PM: “CI ABBIAMO MESSO ANNI A TRASFORMARE L’ITALIA DEI VALORI DA MOVIMENTO DI PROTESTA A PARTITO DI GOVERNO, NON SI PUO’ ORA TRADIRE LA NOSTRA STORIA”

“Tonino sta mandando tutto al macero”: parola di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dell’Italia dei Valori.
Il deputato, intervistato dal Corriere della Sera non risparmia critiche all’apertura di Antonio Di Pietro al Movimento 5 Stelle.
Una scelta autodistruttiva secondo una parte del partito, che porta a un sostanziale passo indietro: ”Ci abbiamo messo anni a creare tutto questo. A trasformare l’Idv da movimento di protesta a partito di governo”.
Per Donadi, Di Pietro ormai “preferisce scodinzolare dietro Beppe Grillo, copiarne persino il linguaggio e gli atteggiamenti offensivi”, così come avvenuto per il video sui leader-zombie pubblicato sul sito del partito pochi giorni fa.
I primi segnali di avvicinamento “palese” ai 5 Stelle si erano avuti a fine luglio, quando Di Pietro aveva rivelato ai cronisti di Montecitorio di voler lavorare a una lista di “non-allineati“ per il post-Monti.
“Dopo la riforma elettorale — è stata l’analisi del leader Idv — i partiti della maggioranza cercheranno in ogni modo di ghettizzare chi non si allinea alle loro posizioni, a cominciare da noi e dal Movimento Cinque Stelle”.
I partiti di maggioranza, aggiunge, “fanno bene a temerci, perchè saremo noi il futuro partito di maggioranza. E sappiano pure che troveremo sempre il modo per sfuggire alle loro furbizie”.
Un “noi” che ha mostrato chiaramente in quale direzione si muoverà  Di Pietro; una direzione che non piace a Donadi: ”Penso che non sia giusto tradire così la nostra storia”.
Scissione dietro l’angolo?
“Mi rifiuto anche solo di prendere in considerazione questa ipotesi”.
Ma il malumore interno al partito è crescente: il leader dell’Idv dà  ormai per scontato un’alleanza tra i partiti del centro-sinistra, ma senza di lui, in vista delle elezioni politiche.
Per questo si è candidato a premier, in aperta sfida a Pierluigi Bersani, che replica: “Porte chiuse a Di Pietro? No, è lui che ha scelto un’altra strada. Noi non siamo settari”.
Secondo il capogruppo alla Camera dell’Idv, se “Di Pietro fosse sceso in campo per le primarie, sarebbe stata un’ottima notizia; la prova che staremmo ancora lavorando con Bersani e Vendola nel centrosinistra. Invece no, candidandosi a premier ha fatto l’ennesima scelta di rottura”.
Intanto Pd e Sel si sono già  mossi: durante l’incontro a Roma di due giorni fa, il duo Bersani — Vendola ha aperto all’Udc di Casini, estromettendo Di Pietro: “Il propagandismo esasperato di Di Pietro lo sta portando alla deriva”, ha dichiarato il presidente della Puglia.
Ma per Donadi la colpa del mancato accordo con l’Udc non è dei centristi: “In questo momento mi sembra paradossale prendersela con Casini”.
Lo sfogo del capogruppo alla Camera dell’Idv è stato messo nero su bianco: ci saranno conseguenze all’interno del partito?
Il diretto interessato, per ora, lo esclude ma ha chiesto con forza a Di Pietro di convocare i vertici del gruppo, prima della riunione di Vasto di settembre.
E se qualcuno gli chiedesse di dimettersi da capogruppo?
“Non ci sono diventato con un sorteggio, ma mi hanno scelto i colleghi. E la loro scelta è revocabile”.
Tuttavia, se “dimettermi da capogruppo fosse il prezzo da pagare per convincere Di Pietro ad anticipare la riunione dell’esecutivo o a convocare il congresso sono pronto a pagarlo. Anche subito”, annuncia Donadi.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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PRIMARIE DEL CENTROSINISTRA: CORRONO IN TANTI, NESSUNO SA COME

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

BERSANI, RENZI, VENDOLA, BOERI: CRESCONO GLI ASPIRANTI PREMIER DEL FRONTE PROGRESSISTA, MA PER ORA NON CI SONO NE’ REGOLE NE’ DATE PER LE CONSULTAZIONI… E IL PD RISCHIA IL FLOP COME A MILANO, GENOVA E PALERMO

Primarie di coalizione, la squadra c’è, ma la quadra no.
E il nascente Polo della speranza dovrà  presto fare i conti con le regole della corsa. Dalle retrovie spuntano ipotesi di sbarramento per neutralizzare i rischi di inquinamento del voto e di improvvidi sorpassi sulla reale rappresentatività  nella coalizione.
Si parla di primarie col filtro, aperte o chiuse, a doppio turno con ballottaggio.
Nel campo del centrosinistra i titolari ufficiali da ieri sono tutti piazzati: con la maglia tricolore del Pd Bersani sta in difesa, Renzi e Boeri in posizione di attacco, Nichi Vendola corre sulla fascia sinistra con la casacca rossa di Sel e Bruno Tabacci fisso al centro coi calzoncini blu dell’Api.
Tutti pronti a correre e tirare.
I 4,5 MILIONI DI VOTI DI PRODI: DIFFICILE BISSARLI.
Ma alla grande partita dei progressisti per il candidato premier del 2013 manca tutto il resto: non ci sono le regole del gioco, non c’è l’arbitro e neppure il fischio d’inizio (“entro l’anno”, è l’impegno).
Sarà  un tavolo tecnico della coalizione a metterle nero su bianco.
Nel frattempo, giusto per tenersi allenati e prendersi le misure prima della pausa estiva, i titolari si tirano gran pallonate tra loro, con Vendola che dice di “non essere preoccupato da Renzi”, Boeri che accusa Bersani di non avere il quid proprio come Alfano e così via.
Ed è solo l’antipasto.
Perchè è nel gorgo delle regole e delle date che se ne vedranno delle belle.
Dagli spalti c’è chi tifa e chi gufa, chi medita e chi teme imboscate. I bookmaker non si sbilanciano sull’esito e a bordo campo qualcuno scrolla la testa: no, stavolta non ci sarà  il bagno di folla che consacrò Prodi nel 2005 con 4,5 milioni di voti.
Al di là  degli annunci enfatici di queste ore — tutti scritti su carte di intenti — il tema è che il passo avanti di ieri del Pd e la candidatura ufficiale di Vendola non dicono molto di più su quanto sono lontane e quanto saranno autentiche le primarie del centrosinistra.
Il sospetto è che per ora si parli del nulla, esternazioni come test anticipati sulla popolarità  dei singoli o strumentali a muovere equilibri su tutt’altre questioni, come la legge elettorale e le alleanze.
Che le regole siano in alto mare lo confermano gli “uomini delle primarie”.
Non i candidati, ma i fedelissimi di Nichi Vendola e Pierlugi Bersani che i due leader hanno deputato da tempo il compito di scrivere regolamenti, mediare posizioni e organizzare il confronto che porterà  all’investitura finale del leader maximo.
Alcune domande scomode le evadono rimbalzandole a fondo campo “è tutto da decidere, ne discuteremo in coalizione”.
Ma intanto emergono con chiarezza i temi ineludibili della dispersione e dell’inquinamento del voto.
Il Pd infatti deve arginare in qualche modo il rischio di subire l’opa della sinistra radicale minoritaria come a Milano, Genova e Palermo.
Potrebbe ripetersi a livello nazionale visto che Bersani pesca nell’elettorato fedele all’ortodossia Pd, Renzi nel sottobosco dei giovani che stanno a sinistra guardando a destra, Boeri si porta via un pezzo dell’elettorato milanese che conta e quel ceto medio professionale che apprezza gli outsider della politica.
Poi arriva un Vendola a prendere i voti della sinistra progressista e nostalgica e a far saltare il banco.
Sarebbe un terremoto per i democratici: il Pd che lancia le primarie per rafforzare la leadership del segretario e ne esce mortificato, battuto da un candidato che invoca i matrimoni gay quando il partito tutto rischiava di implodere solo a parlare di regolarizzazione delle coppie di fatto.
E ora questi rischi toccherà  pure metterli sul tavolo, pesarli, conterli. Comunque discuterli.
I TECNICI PENSANO A QUORUM E BALLOTTAGGI
Ancora una volta, la mediazione spetterà  ai professionisti delle primarie.
Nico Stumpo è responsabile nazionale dell’organizzazione del Pd e non nega il rischio che la conta dei voti premi altri candidati: “Bersani — dice — ha deciso di non nascondersi dietro lo statuto che pure lo designava a premier e di andare alla conta dei voti con altri candidati. Siamo convinti che questo coraggio gli sarà  riconosciuto. Poi i problemi del rischio delle truppe cammellate, dell’inquinamento del voto e tutto il resto devono essere discussi nel quadro delle regole di coalizione per non essere travolti da questa modalità . Ma non c’è una soluzione tecnica e politica pronta per l’uso”.
E infatti ci sono in campo diverse ipotesi.
Ne parla ad esempio il senatore Filippo Ceccanti che ha scritto le regole per le primarie del Pd del 2007. “Ci sono alcuni problemi evidenti sul tavolo. Il primo è che ci deve essere un quorum significativo, soprattutto per una candidatura a premier. Collegato a questo il tema della rappresentanza, cioè che chi vince non passi solo perchè ha un elettorato più militante, ma perchè è effettivamente più rappresentativo della coalizione. Rischi che sono alti con le primarie a turno unico e che si riducono con un ballottaggio a doppio turno. Anche la competizione interna al Pd non andrebbe a scapito del risultato perchè al ballottaggio passerebbero due candidati del partito o uno solo in concorrenza con un outsider”.
Nelle stesse ore questi stessi ragionamenti li fa anche l’omologo professionista delle primarie di Sel, il braccio destro di Vendola in Puglia, Nicola Fratoianni.
Segue Nichi dal 2004 e ne ha organizzato le primarie trionfali. “Queste cose non le abbiamo discusse in nessuna sede e saranno ovviamente oggetto di confronto.
Il tema dell’inquinamento mi pare pretestuoso, salta fuori ad ogni tornata di primarie. Ma ricordo bene, perchè c’ero, che se ne parlò anche nelle primarie del 2010 per la Regione Puglia.
Casini era fortemente interessato che ha vincerle fosse Boccia e si dichiarava pronto a sottoscrivere un’alleanza col centrosinistra qualora avesse vinto.
Neppure in quel caso la mobilitazione di voti extra coalizione hanno poi pesato sul risultato e Vendola stravinse.
Ora il Pd mutua l’ipotesi francese del doppio turno ma il terreno delle regole è il primo in cui si confronta l’intenzione di creare una coalizione.
Poi ci saranno i programmi e l’analisi dei punti di convergenza che possano rendere solida costruzione delle forze progressiste di questo Paese”.
Vendola rischia un rinvio a giudizio, è candidabile?
Sarebbe un problema?
I primaristi del Pd non commentano (“il partito ha le sue regole su questo, altri faranno in base specifiche sensibilità ”) e Fratoianni ricorda che il presidente della Puglia è già  stato assolto nel 2010 per una vicenda simile (nomina di favore a un primario).
Tra un mese le regole saranno il tema.
La speranza del nuovo Polo deve prima passare di qui.

Thomas Mackinson
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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FINANZIAMENTI PER 300 MILIARDI DI EURO: I 101 MODI PER CHIEDERE SOLDI A BRUXELLES

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

UNA CARRELLATA DEI FONDI A PIOGGIA ELARGITI DALLA UE PER I PIU’ SVARIATI PROGETTI

Nei palazzi comunitari non si parla solo di rigore.
Nel periodo che va dal 2007 al 2013 sono stati stanziati miliardi di contributi.
Sei milioni di euro a disposizione per combattere l’uso illegale di Internet, 9,5 milioni per aggredire la criminalità  finanziaria, 5,5 per contrastare “l’estremismo violento”.
Ma ci sono anche fondi per aprire un ristorante in Romania o per un progetto di inserimento al lavoro in Cambogia.
Qualcuno si chiede se ce ne sia bisogno. Dipende dai risultati
Puoi ottenere un contributo per svolgere un sondaggio d’opinione sull’economia in Islanda o per promuovere un’attività  culturale in Palestina, per aprire un ristorante in Romania o, spostandosi decisamente più a Est, per finanziare “progetti di inserimento al lavoro” in Cambogia.
È vasta la geografia del finanziamento europeo.
È una mappa che segna migliaia di canali di spesa che da Bruxelles raggiungono vecchi e nuovi Paesi dell’Unione, fino agli Stati terzi che, per ragioni sociali o economiche, sono ritenuti meritevoli di sostegno.
È una carta scolpita nell’oro, che racconta anche di un gigantesco business, quello che ruota attorno all’enorme mole di fondi strutturali a disposizione per il periodo 2007-2013: 308,3 miliardi di euro, di cui quasi 60 per i programmi italiani.
I beneficiari non sono solo enti pubblici: oltre che alle articolazioni statali, a Regioni, Province e Comuni, ogni giorno la caccia ai fondi dell’Ue è aperta a singoli privati, associazioni, agenzie o organizzazioni non governative.
E l’analisi dei bandi pubblicati direttamente da Bruxelles o dagli enti territoriali, dei prestiti come dei contributi a fondo perduto, si fa beffe dell’immagine, diffusa di questi tempi di crisi, di un’Europa avara che chiede solo sacrifici.
L’Unione, in realtà , finanzia le iniziative più disparate. Non dissipando l’ombra dello spreco.
Noi abbiamo messo in fila qualche decina di modi per chiedere i soldi all’Ue: ed è un viaggio che riserva sorprese.
LA CORSA AI BANDI
Una valanga di fondi in studi, progetti, indagini e seminari.
Fra i bandi aperti o chiusi di recente, gestiti direttamente da Bruxelles, ce n’è uno sostenuto da una dotazione di mezzo milione di euro per realizzare “uno o più” sondaggi d’opinione fra i consumatori sullo stato dell’economia in Islanda e Serbia, candidati a entrare nell’Ue.
Il 50 per cento è a carico del bilancio dell’Unione e possono partecipare società  di ogni angolo d’Europa.
Un progetto che sviluppi gli scambi culturali e l’integrazione con la Palestina vale dai 50 ai 100 mila euro, mentre la presentazione di proposte per favorire l’inserimento al lavoro in Cambogia è incoraggiata con un budget di 3,9 milioni di euro.
Per carità : probabilmente ogni cittadino europeo è orgoglioso di sostenere con le proprie tasse la società  civile in Bosnia (i costi dei progetti sono coperti al 90 per cento) o la diffusione dell’istruzione superiore in Africa e nei Caraibi (da 250 a 500 mila euro per ogni iniziativa finanziata).
E forse non sono mal spesi i 600 mila euro per la sensibilizzazione dei diritti sessuali e riproduttivi nel Burundi. Forse, chissà . E
chissà  se è congrua la cifra di 2,6 milioni di euro per finanziare le iniziative a favore dei disabili in Turchia.
Di certo, un recente rapporto dell’Open society foundation punta il dito sul cattivo uso dei fondi per questo settore, specialmente da parte degli Stati dell’Europa centrale e orientale “che continuano a costruire o rinnovare istituti di degenza invece che investire nello sviluppo di comunità  alternative”.
Il nodo, in ogni caso, è quello della concretezza delle iniziative.
Nel mare magnum delle sovvenzioni ai progetti sui grandi temi, che non hanno efficacia diretta ma “preparano o integrano azioni della commissione europea”, ci sono sei milioni di euro a disposizione per combattere l’uso illegale di Internet, 9,5 milioni per aggredire la criminalità  finanziaria, 5,5 per contrastare “l’estremismo violento”, i 2,6 milioni di euro stanziati per iniziative che smuovano le coscienze nei riguardi della pena di morte e della tortura.
Sia chiaro: tutte finalità  nobili. Ma dipende dai risultati, che gli stessi addetti ai lavori definiscono non sempre quantificabili in questo campo.
Di certo, al confronto di queste cifre, i 110 mila euro per scrivere il documento attuativo della direttiva sugli zoo sembrano bruscolini. Ma in tempi di vacche magre fanno discutere anche quelli.
Chi vuole, può presentare la propria proposta a Bruxelles.
E chi lo ritiene può cimentarsi in un progetto contro il fenomeno delle partite truccate, che ben conosciamo in Italia e che dà  diritto a un contributo sino al 60 per cento dei costi.
Pochi sanno che l’Europa, nel campo del turismo, finanzia pacchetti di viaggio transnazionali, premiando in particolare modo le agenzie con bonus da 210 mila euro per ciascuna, e sostiene con 150 mila euro ciascuno i progetti che aiutino la mitica “destagionalizzazione” dei flussi. Anche l’Europa partecipa al finanziamento pubblico dei partiti: a loro riservati, nel bilancio dell’Ue ci sono, per il 2013, 21,8 milioni di euro.
Cui devono aggiungersi 12 milioni per le fondazioni: l’europarlamento garantisce l’85 per cento delle spese di funzionamento. Tutto ciò, per le iniziative a regia di Bruxelles.
Ma cosa accade quando i fondi vengono erogati a livello locale?
Come vengono gestiti e, soprattutto, come viene organizzata la spesa?
LA RETE
Una ragnatela di finanziamenti intessuta da Stato e Regioni che spesso non parlano tra loro.
Si va dal milione e mezzo a disposizione per chi vuole realizzare allevamenti ittici in Campania al contributo da tremila euro che spetta ai militari che vogliono frequentare corsi di formazione in Toscana.
È un capitale, quello dirottato sulla formazione professionale: in diverse regioni un giovane che vuole diventare pasticcere, esperto in fotovoltaico o operatore turistico (le qualifiche più ricercate) ha diritto a un contributo annuo da 600 euro mentre un credito da 1.800 euro spetta a chi voglia frequentare corsi di russo o di cinese.
La formazione è un pilastro fondamentale delle strategie di crescita benedette dall’Europa: ma in questi anni si sono moltiplicate le inchieste sull’uso che le Regioni fanno di questi fondi.
E di come gli stessi siano stati destinati, specie al Sud, a sostenere enti diventati stipendifici: solo in Sicilia nel settore lavorano 8 mila dipendenti.
Mentre la percentuale degli allievi che trovano un lavoro “coerente”, al termine dei corsi, non supera il 10 per cento.
Nella lista una miriade di incentivi al welfare che si vanno arricchendo di anno in anno.
L’ultima tendenza, mettiamola così, è quella dell’assunzione del quasi pensionato: mentre infuria il dibattito sugli esodati, la Regione Toscana prevede un finanziamento da 3 mila a 3.600 euro per gli imprenditori che mettono in organico persone cui mancano meno di 5 anni all’età  pensionabile.
Agevolazione simile a quella prevista per gli agricoltori della Campania. Com’è andata, la storia dei fondi europei per il Sud è storia nota: finanziamenti dispersi in una miriade di microprogetti e spesa bloccata su percentuali risibili.
Basti pensare che alla fine di maggio, quando mancava un anno e mezzo alla fine del programma, Regioni, Province e Comuni avevano speso solo il 25 per cento dei 60 miliardi a disposizione.
Quarantacinque rischiano di tornare a Bruxelles, insomma. Mentre è sempre più intensa l’attività  dell’Olaf, l’organismo comunitario anti-frodi, ma anche di svariate Procure che indagano sui meccanismi di utilizzo dei soldi dell’Europa: a Palermo, caso tragico e paradossale, si tenta di far luce su sovrafatturazioni che sarebbero servite per destinare parte delle risorse europee per i grandi eventi al finanziamento di appartamenti e escort per i politici.
Ma in che modo una simile pioggia di fondi determina disparità  e azioni contraddittorie?
LE CONTRADDIZIONI
Una risposta arriva dai fittissimi programmi regionali che riguardano agricoltura e pesca.
In Germania ci sono 16 programmi e altrettanti diversi contributi (da 135 a 314 euro per ettaro) per la stessa misura di conversione al biologico.
Tutte le regioni francesi, in questo campo, offrono un sostegno alla riconversione dei terreni ma solo 9 al loro mantenimento.
E ancora: la realizzazione di un allevamento di api vale 28,4 euro per alveare in Andalusia e 25 in Austria.
Diversi programmi, scrive Alexandra Pohl in un dossier sui fondi dello sviluppo rurale patrocinato dall’Ue, “penalizzano l’agricoltura biologica a causa di finanziamenti più bassi per la stessa misura”: restando in Germania, la regione di Hessen concede 45 euro ad ettaro per la pratica del “sovescio” (l’interramento delle colture) fatta da aziende biologiche, ben 70 per quelle tradizionali.
In Puglia può accadere che si finanzi coi fondi Ue l’impianto di girasoli e un paio di anni dopo si decida di concedere incentivi per estirparli, quei girasoli: “Un assurdo, che non si verificherebbe con un coordinamento a livello centrale”, dice Fausto Durante, responsabile Europa della Cgil. Lo stesso sindacato, in un rapporto sulla pesca, punta il dito su altre contraddizioni: l’Ue concede contributi per tutelare le risorse ittiche, come i 5 mila euro per i piccoli pescatori che vogliono ridurre i mesi di attività , e allo stesso tempo propone sovvenzioni per l’ammodernamento delle barche e l’acquisto di nuove attrezzature per la pesca.
E c’è di più: “Nel nostro settore tutto è affidato alle Regioni, ma il mare è un bene comune – dice Giovanni Basciano dell’Agc Pesca – il risultato è che si danno soldi per rottamare le barche e nel Lazio magari si parta subito a diminuire la flotta e in Campania questo avvenga diversi anni dopo. Così però non si ottiene una vera salvaguardia del pescato”.
Lo spreco non risparmia un settore importante come quello della botanica: anche la salvaguardia delle piante rare merita un aiuto da Bruxelles.
Ma quando, come è accaduto in Sicilia, vengono spesi 150 mila euro per pagare un consulente chiamato a coordinare un progetto che tuteli la Zerkova – specie diffusa sui monti Iblei – è inevitabile che nascano i sospetti e le polemiche.
Quelle che hanno portato un assessore regionale ad ammettere che si stava commettendo una “leggerezza”. E ad annullare il provvedimento.
Ma che impatto hanno avuto le politiche di sostegno specie nelle aree meno sviluppate?
Quali obiettivi sono stati raggiunti?
IMPATTO ZERO
Dal 1999 al 2005 il Pil di ogni singolo cittadino dei territori dell'”obiettivo 1″ (le zone più arretrate) è cresciuto del 3%.
Ma la situazione cambia da regione a regione: il Sud Italia, ad esempio, non ha conseguito benefici apprezzabili, fermandosi allo 0,6%. Cinque volte di meno.
E le regioni che si erano affrancate dal livello di povertà , traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, ci sono ripiombate. Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l’83%, sei anni dopo era al 75%.
La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007.
Numeri che confermano lo “scempio” di risorse Ue: “Uno dei paradossi della spesa dei fondi Ue – dice Alessandro Laterza, vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno – è l’eccessiva frammentazione: le singole Regioni predispongono interventi di natura locale che vanno ad accavallarsi, in maniera irrazionale, con altri che hanno un interesse nazionale, anche nel campo delle infrastrutture. Senza una regia coordinata, il rischio è quello della polverizzazione, che è l’esatto contrario della concentrazione che ci chiede la Commissione europea”.

Antonio Fraschilla e Emanuele Lauria
(da “La Repubblica“)

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IN CORSO LA CAMPAGNA ACQUISTI ANTITAGLI DELLE PROVINCE

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

OFFERTE AI COMUNI DI CONFINE PER EVITARE LA SCOMPARSA… TRAPANI OFFRE UN ASSESSORATO A MENFI… TERNI VUOLE PRENDERE SPOLETO O FOLIGNO DA PERUGIA

«L’obiettivo non è salvare Terni o il soldato Ryan che poi sarei io. Qui bisogna ridisegnare l’Umbria in chiave moderna».
Il soldato Ryan ha la faccia tranquilla di Feliciano Polli, presidente della provincia di Terni.
Non combatte contro l’occupazione nazista ma contro la spending review , il decreto che per risparmiare ancora qualcosa dovrebbe tagliare le Province più piccole, quelle con meno di 350 mila abitanti e meno di 2.500 chilometri di superfice.
Perchè dovrebbe , perchè il condizionale?
Chi le difende dice che proprio qui, nelle Province, c’è la parte più attiva del Paese. E infatti il soldato Ryan e i suoi commilitoni, cioè gli altri colleghi a rischio estinzione, hanno già  dato inizio alle grandi manovre per sfuggire alle forbici del governo.
Il piano è strappare qualche Comune alle Province vicine, una manciata di abitanti e di chilometri quadrati, quanto basta per arrivare sopra l’asticella fissata dal governo.
E proprio i ternani sono i più agguerriti
Non sono riusciti a far passare in Parlamento quella «regola del due», almeno due Province in ogni regione, che li avrebbe salvati senza tante storie.
Ed eccoli tornare alla carica con una campagna acquisti per strappare a Perugia tutta la linea di confine.
Poco male se il sindaco di Spoleto, il comune di frontiera più grande, non ne vuole sapere. Il fronte si può sempre sfondare da un’altra parte, lungo la Valnerina o verso Città  della Pieve, magari per puntare dritto su Foligno.
Il piano più raffinato, però, è quello di Benevento.
Qui si punta ad esempio Cervinara, che appartiene ad Avellino, e San Polito Sannitico, nel territorio di Caserta.
Ma c’è un problema in più. Avellino e Caserta sono di un pelo sopra la soglia di sopravvivenza. E allora per cedere abitanti e chilometri a Benevento dovrebbero prima incassare un pacchetto corrispondente da Napoli.
Una partita complicata, un incrocio fra il Risiko e il domino.
«Ci vorrebbe un’intelligenza regionale – dice Aniello Cimitile, che della provincia di Benevento è il presidente – capace di partorire un progetto di lunga durata».
Ma il parto è (politicamente) difficile. Quella di Benevento è l’unica amministrazione di sinistra in una regione tutta in mano al centrodestra.
Va bene che a Roma c’è la «strana maggioranza» Pd Pdl ma non sarà  facile mettere tutti d’accordo per salvare quello che (sempre politicamente) resta un nemico.
«In effetti – ammette Cimitile – qualche rischio c’è. Ma senza Benevento ci perde la Campania intera, mettiamo da parte le vecchie rivalità ». In caso c’è il piano B.
Proprio da Benevento è partito un appello firmato da 28 province per impugnare la spending review davanti alla Corte costituzionale.
Un’ipotesi che convince anche un leghista doc come Leonardo Muraro.
La «sua» Treviso rischia di sparire per un soffio, mancano appena 23 chilometri.
E lui guarda a Venezia che diventerà  città  metropolitana assorbendo di fatto tutti i Comuni della provincia: «In quello scatolone – dice Muraro – non ci vuole stare nessuno. E allora io, da sincero autonomista, sono pronto ad accogliere a braccia aperte chi vuole venire da noi».
Si parla di un trasloco di Marcon. «Pochi giorni fa ho incontrato i rappresentanti di quattro comuni interessati a questa ipotesi.
I nomi? Per carità , poi si blocca tutto». Nessun segreto, invece, sull’invasione progettata a Latina.
Il presidente Armando Cusani punta sulle romane Anzio e Nettuno, più altri tre centri da strappare a Frosinone: «Così arriveremmo a 2.506 chilometri quadrati ma forse anche Velletri potrebbe annettersi».
Niente in confronto al presidente di Trapani, Mimmo Turano.
Ha lanciato la sua opa su Menfi, in provincia di Agrigento, promettendo un posto da assessore a qualcuno che sia nato lì, magari il sindaco che ha parlato di «proposta seria».
Non è solo folklore, però.
E lo dimostra la linea scelta ad Arezzo.
Qui la provincia contesta il piano del governo perchè si basa sul censimento di undici anni fa.
Allora l’Istat aveva contato meno di 350 mila abitanti mentre i dati del 2012 in mano alla prefettura dicono che adesso quella soglia è stata superata. Ma le ultime modiche al decreto hanno trasformato questa disfida statistica in una battaglia di retroguardia. Per le Province non si parla più di «soppressione e accorpamento» ma di «riordino». Le province piccole, cioè, non verranno più cancellate in modo automatico ma toccherà  alle Regioni ridisegnare tutti i confini.
Traslochi e migrazioni saranno possibili visto che si terrà  conto delle «iniziative comunali volte a modificare le circoscrizioni provinciali esistenti».
Insomma le campagne acquisti di questi giorni potrebbero essere accolte nelle proposte che le regioni dovranno presentare al governo entro tre mesi.
Si diceva che su 100 province ne sarebbe rimasta la metà . Ma alla fine i soldati Ryan portati in salvo potrebbero essere molti di più.

Lorenzo Salvia

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A PARMA IL PROGETTO INCENERITORE VA AVANTI, PIZZAROTTI DORME

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

BLOCCARNE LA COSTRUZIONE ERA STATA UNA DELLE PRINCIPALI PROMESSE DELLA PIATTAFORMA ELETTORALE DEI CINQUESTELLE… LA SOCIETA’ STA CERCANDO DI COSTRUIRE IL FORNO ENTRO DICEMBRE PER NON PERDERE 40 MILIONI DI EURO DI INCENTIVI DEL DECRETO ROMANI… IL CONSULENTE DEL COMUNE DEVE ANCORA INVIARE LE PROPRIE DEDUZIONI

Dicembre 2012 e poi l’inceneritore di Parma comincerà  a bruciare.
È una corsa contro il tempo quella della giunta di Federico Pizzarotti, che entro quella data dovrà  trovare una soluzione per bloccare l’impianto che è quasi terminato alle porte della città .
Per tracciare una via d’uscita dalla realizzazione del forno, come promesso in campagna elettorale, i Cinque stelle hanno ingaggiato come consulente esterno per un totale di spesa di 16mila euro l’ingegnere di fama nazionale Paolo Rabitti, che ha già  alle spalle esperienze simili come consulente di procure e amministrazioni.
Il tecnico avrà  il compito di fare chiarezza sul cantiere di Ugozzolo e sulla documentazione relativa al termovalorizzatore, per poi presentare una relazione entro dicembre 2012.
Ma a quel punto potrebbe già  essere troppo tardi.
Nonostante l’estate, nel cantiere vicino all’A1 lavorano freneticamente oltre 200 operai. L’impianto prende forma giorno dopo giorno, nonostante il divieto del Comune dei turni di notte, arrivato a metà  luglio per motivi acustici, ma che negli effetti ha in parte rallentato la corsa alla conclusione dell’opera in grado di smaltire 130 mila tonnellate di rifiuti all’anno.
Iren ha tutto l’interesse di completare il forno entro il 2012, perchè in quel caso potrebbe accedere a circa 40 milioni di euro di incentivi statali previsti dal decreto Romani del marzo 2011 legato alla produzione di energia elettrica da impianti alimentati da fonti rinnovabili. Ma c’è di più.
Secondo fonti vicine a Iren, l’intenzione, una volta collaudato il forno, è quella di venderlo a privati che lo utilizzerebbero come inceneritore di rifiuti industriali, per coprire i debiti della società  che ammonterebbero a circa 3 miliardi.
Se così fosse, teme l’associazione Gestione corretta rifiuti, che aveva sostenuto la candidatura di Pizzarotti a sindaco proprio in base alla promessa di bloccare il forno, “una società  privata, a cui Iren pensa di vendere l’impianto, agirebbe in totale autonomia rispetto agli enti locali e una volta acceso l’impianto avrebbe mano libera su che cosa fare entrare nella fornace”.
Critico anche l’assessore all’Ambiente Gabriele Folli, che ancora una volta punta il dito contro i fautori del progetto: “Una possibilità  che dice molto su come è stata pensata l’opera — commenta — Doveva servire alla risoluzione del problema dei rifiuti per il territorio, e invece potrebbe essere utilizzata per scopi di lucro da privati. Stessa cosa per le tariffe: è già  stato dimostrato che, a differenza di quanto si diceva in passato, i cittadini con l’inceneritore risparmieranno solo pochi euro”.
Di certo c’è solo che intanto i lavori proseguono e i rapporti tra Iren e Comune di Parma non sono dei più distesi.
La multiutility ha chiesto al Tar un risarcimento di 28 milioni di euro di danni per lo stop di alcuni mesi al cantiere stabilito la scorsa estata dall’ex sindaco Pietro Vignali, cancellato poi dal ricorso al Consiglio di Stato.
E negli incontri che ci sono stati negli ultimi tempi, non sarebbe stato ancora mostrato il piano economico-finanziario sull’impianto, chiesto in qualità  di azionista dal Comune di Parma.
“Noi stiamo cercando di mantenere un dialogo aperto, per trovare una soluzione condivisa da cui anche Iren potrebbe trarre giovamento — continua Folli — ma dall’altra parte non c’è una grande disponibilità ”.
Al momento al vaglio dei legali e dei consulenti del Comune ci sono tutti gli aspetti della vicenda inceneritore, che nel giro di pochi anni ha collezionato dodici esposti e un’istanza di sequestro. “Un lavoro che richiede tempo, e che non compete solo a noi — chiarisce l’assessore — si attendono anche pronunciamenti dalla Procura sul caso”. Un’operazione complessa e articolata: ci sono le carte e i contratti d’appalto con Iren, che prevedono la penale di 180 milioni di euro a carico del Comune di Parma in caso di recesso.
E sul futuro di Ugozzolo gravano anche due procedure di infrazione aperte dalla Commissione europea: per l’affidamento diretto della gestione dell’impianto senza gara ad evidenza pubblica e per il costo dichiarato, che per l’Ue ammonterebbe a un valore di circa 315 milioni di euro e non di 193 milioni, come affermato dalla società  di servizi.
Il richiamo dall’Europa riguarderebbe inoltre l’assenza di controllo da parte dei Comuni sulla gestione di Iren, che essendo una società  quotata in Borsa è in mano al potere degli azionisti che non hanno nulla a che fare con i servizi forniti dalla multiutility.
Tutte questioni che ora saranno materia di studio di Rabitti e della squadra di Pizzarotti, mentre il Comune prosegue le prove di dialogo con i vertici di Iren.
L’obiettivo del Movimento 5 stelle rimane quello di bloccare l’accensione dell’impianto, come da promessa in campagna elettorale.
Tra qualche mese si saprà  se Pizzarotti e i suoi riusciranno a portarlo a termine.

Silvia Bia
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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PIÙ DI COSÃŒ NON SI PUÃ’ PRODURRE: HA FALLITO UN MODELLO DI SVILUPPO, LA CORSA FOLLE E’ ARRIVATA AL CAPOLINEA

Agosto 4th, 2012 Riccardo Fucile

LIBERISTI E MARXISTI UNITI NELLA DISFATTA: FIGLI DELLA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE, SONO LE DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA… “INDUSTRIA E TECNOLOGIA AVREBBERO DOVUTO RENDERE FELICI TUTTI GLI UOMINI (SECONDO MARX) O LA MAGGIOR PARTE DI ESSI (SECONDO I LIBERISTI), MA L’UTOPIA E’ FALLITA… OGGI NON OCCORRE “CRESCERE”, MA “DECRESCERE” PER NON ESSERE PIU’ SCHIAVI DELLA DITTATURA ANONIMA DEI MERCATI

La finanza non è la causa della crisi che sta travolgendo il mondo occidentale, ne è solo l’aspetto più evidente contro cui è comodo e facile scagliarsi per evitare di dirsi la verità .
Perchè la crisi autentica è quella della cosiddetta ‘economia reale’, cioè di un modello di sviluppo basato sul meccanismo produzione-consumo (oggi addirittura ribaltatosi in un ‘consumare per produrre’) e sull’illusione delle crescite esponenziali che, come ho detto altre volte, esistono in matematica ma non in natura.
La locomotiva chiamata Rivoluzione Industriale, partita dall’Inghilterra a metà  del Settecento, ha percorso a velocità  sempre crescente, che con la maturazione della globalizzazione (che mosse i suoi primi passi proprio allora, essendo i due fenomeni strettamente collegati) è diventata folle, due secoli e mezzo, ma ora è arrivata al suo limite.
Non si può più crescere.
Non si può produrre di più di quanto abbiamo già  prodotto.
Prendiamo, a mo’ di esempio, l’automobile. A chi si può vendere oggi un’automobile? A dei mercati marginali.
Certo la si può vendere anche in India e in Cina, ma con una crescita a due cifre anche questi Paesi (che nel frattempo stanno saturando definitivamente i nostri mercati) arriveranno presto ai limiti cui siamo giunti noi.
Certo si possono inventare ancora nuove tecnologie e loro applicazioni soprattutto nel campo del virtuale, ma dopo il computer, il cellulare, Internet, l’iPhone, l’iPad che altro ancora?
Come c’è una bolla immobiliare c’è, su scala planetaria, una superbolla produttiva.
Sbaglia però chi predica, come mi pare facciano, sia pur con molte differenze, i firmatari del famoso Appello contro ‘il pensiero unico’, una riconversione al marxismo.
Figli della Rivoluzione Industriale liberismo e marxismo sono in realtà  facce della stessa medaglia: l’industrialismo appunto, che è il vero nocciolo della questione e che nessuno mette in discussione.
Sono entrambi modernisti, illuministi, ottimisti, economicisti, produttivisti, hanno entrambi il mito del lavoro (che per Marx è ‘l’essenza del valore’ — non per nulla Stakanov è un eroe dell’Unione Sovietica — e per i liberisti quel fattore che, combinandosi col capitale, dà  il famoso ‘plusvalore’), tutti e due pensano che industria e tecnologia produrranno una tal cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o, più realisticamente, la maggior parte di essi (i liberisti).
Questa utopia bifronte ha fallito.
Perchè ha alle sue radici gli stessi ‘idola’: industrialismo, produzione, consumo, crescita, sviluppo.
I firmatari dell’Appello stanno quindi totalmente dentro il ‘pensiero unico’ che è quello di chi ritiene, a destra come a sinistra, che lo Sviluppo, in un modo o nell’altro, sia irrinunciabile.
Chi ne sta fuori sono coloro che ritengono che invece di crescere sia necessario decrescere (produrre di meno, consumare di meno) sia pur in modo graduale, limitato e ragionato per ritrovare non solo una stabilità  economica, che non ci renda schiavi della dittatura anonima dei ‘mercati’, ma una vita più semplice e più umana, senza stress, depressione, nevrosi, anomia, tumori psicosomatici, cardiopatie che, com’è noto, sono tutte malattie della Modernità .
Sono quindi gli Antimodernisti i veri antagonisti del ‘pensiero unico’ ed è ai loro danni che si consuma un ‘furto di informazione’ perchè sono costantemente ignorati, altro che i signori Gallino, Lunghini, Tronti, Asor Rosa e persino Guido Viale promosso a economista.

Massimo Fini
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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