Agosto 31st, 2012 Riccardo Fucile
QUEI CENTOMILA IN DIVISA CHE DOPO IL TURNO DI NOTTE DIVENTANO CUOCHI E OPERAI…”NOI AGENTI SOTTOPAGATI: UNO SU TRE COSTRETTO AL DOPPIO LAVORO”
Finanzieri che fanno i camerieri, vigili del fuoco che mettono infissi, poliziotti
elettricisti e pizzaioli.
Agenti massaggiatori di shiatsu o istruttori di palestra.
Qualcuno autorizzato, la maggior parte di nascosto.
Almeno il 30 per cento dei dipendenti pubblici impiegati nella pubblica sicurezza svolge abitualmente un altro impiego part-time.
Il problema è che con gli stipendi bassi si fatica ad arrivare a fine mese, e l’accesso al credito è diminuito
L’appuntato Pietro è stanco. La sua doppia vita lo sta sfinendo. “Ma non ho scelta – racconta mentre si toglie la divisa da carabiniere – ho due figli all’università , li devo pur mantenere in qualche modo, no?”.
Sono le 7 di mattina, un martedì di luglio a Napoli, già si boccheggia per l’afa. Pietro è appena rientrato a casa, tra un’ora lo aspettano in un appartamento da ristrutturare. Oggi gli toccano le tracce degli impianti elettrici.
Ha 51 anni, gli occhi arrossati per la nottata di pattuglia, la voce arsa dalle sigarette.
E uno stipendio che, dopo 25 anni di servizio nell’Arma, non supera i 1600 euro. “Pochi per mantenere la famiglia”.
E così, dopo il caffè, indossa la sua seconda vita di muratore, al nero.
“Vado a dare una mano nei piccoli cantieri tutte le volte che i turni me lo permettono – racconta, ora che addosso ha una vecchia tuta macchiata di calcina – è illegale e rischio il posto, lo so. Ma senza quei 300 euro in più al mese non ce la faccio. E come me, tanti miei colleghi. Conosco finanzieri che fanno i camerieri, vigili del fuoco che mettono infissi, poliziotti pizzaioli, massaggiatori di shiatsu o istruttori di palestra”.
I servitori dello Stato deputati alla nostra sicurezza, dunque, si trovano a fare i conti con mafiosi, criminali e quarte settimane che sembrano non arrivare mai. Ma in quanti hanno un secondo lavoro?
LA SECOND LIFE DEI POLIZIOTTI
La cifra la dice Massimiliano Acerra, dirigente nazionale e responsabile ufficio studi del sindacato di polizia Coisp.
“Almeno il 30 per cento dei dipendenti pubblici impiegati nelle forze dell’ordine svolge abitualmente un altro impiego part time”. Tre su dieci.
Sono centomila persone, solo considerando carabinieri, poliziotti e finanzieri.
“E tra appuntati e brigadieri, tra agenti e assistenti di polizia – continua Acerra, che sull’argomento ha scritto il manuale “Prestazioni occasionali” – la media arriva fino al 40-50 per cento. In pochissimi però, non più di uno su dieci, hanno l’autorizzazione del ministero”.
Dunque è tra i gradi più bassi e meno remunerati della scala gerarchica che bisogna cercare per trovare le storie degli statali con la doppia vita lavorativa.
E di storie, appena si garantisce l’anonimato, ne saltano fuori parecchie.
Da nord a sud.
Francesco, 46 anni, romano, è uno dei 39 mila assistenti della Polizia di stato.
Lavora in un reparto speciale.
“Siamo circa una quarantina in servizio – racconta – e a quanto ne so quasi tutti fanno qualcos’altro fuori dai turni”.
Lui in particolare ha una bancarella di collanine al mercato. Venditore ambulante.
Il suo collega di reparto, Saverio, molisano, 39 anni e una laurea in Giurisprudenza, quando non è di pattuglia collabora con uno studio legale.
“Per legge non posso iscrivermi all’albo degli avvocati – spiega – però conosco la materia, e con i seicento euro che mi danno ci pago le tasse”.
Qualcuno apre una propria attività , durante gli anni di servizio.
“Per coprire il mutuo ho messo in piedi un bed & breakfast – racconta Filippo, primo maresciallo dell’Esercito di stanza a Torino – affittavo la camera degli ospiti. Ho anche chiesto l’autorizzazione al ministero della Difesa. Ero sicuro che mi avrebbero concesso il permesso, era un’occupazione saltuaria. Invece quando l’hanno saputo mi hanno mandato la finanza e mi hanno costretto a restituire all’amministrazione militare tutto quello che avevo incassato, cioè 330 euro in un anno”.
Lorenzo, assistente capo della polizia a Modena, la dice così: “Ti mettono nelle condizioni di essere disonesto. Ho 41 anni, sono separato e con due figli. Guadagno 1600 euro al mese e di questi 700 vanno in alimenti. Amo aiutare i cittadini e ringrazio la pubblica amministrazione per il lavoro che mi dà , ma il dipartimento non può pensare che riesca a vivere senza una seconda entrata. Avere le autorizzazioni è impossibile, quindi vado a potare gli olivi, taglio e raccolgo legna, faccio l’imbianchino. Per 50 o 100 euro al giorno”.
È illegale due volte. Perchè si opera al nero e perchè un dipendente pubblico non può fare il doppio lavoro, salvo casi particolari. Si rischia il procedimento disciplinare e, qualche volta, il licenziamento.
Dal 2009 al 2011, la Guardia di Finanza ha scoperto 3.300 casi in Italia. Hanno guadagnato illegalmente oltre 20 milioni di euro, con un danno alle casse dello Stato di quasi 55 milioni.
Ma quanto guadagnano poliziotti, carabinieri e finanzieri?
E quando sono autorizzati ad avere un secondo impiego?
I PEGGIORI STIPENDI D’EUROPA
Una volta indossare la divisa significava posto fisso e stipendio più che dignitoso. Sinonimo di sicurezza, possibilità di mantenere una famiglia, capacità di sostenere le rate di un mutuo.
Oggi le cose sono un po’ cambiate.
Un poliziotto italiano appena assunto prende 1200 euro netti al mese.
Lo stesso vale per gli agenti della penitenziaria, della forestale, per carabinieri e i finanzieri.
I colleghi tedeschi del Bundeskriminalamt, la polizia criminale federale della Germania, a parità di condizioni, prendono 1626 euro.
In Francia, i neoassunti nella Police Nationale guadagnano 1683 euro.
Il corrispettivo spagnolo 1420, in Gran Bretagna addirittura 2516 sterline (3200 euro), che diventano 3171 (4000 euro) dopo i primi dieci anni. Insomma, i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa.
E gli scatti di anzianità in Italia portano ad aumenti di un terzo inferiori rispetto alle forze di polizia estere.
Anche per questo lo Stato permette ai suoi tutori dell’ordine di svolgere un lavoro extra, ma solo a certe condizioni e con l’autorizzazione scritta del ministero di competenza.
“Si possono avere occupazioni part time – spiega Massimiliano Acerra – che non compromettano in alcun modo il servizio e che non rientrino nella categoria delle libere professioni. Proibite invece le attività troppo stressanti o in cui possano sorgere conflitti di interesse, come nei casi di aziende di vigilanza privata o di investigazione. In polizia, ad esempio, vengono autorizzate fino a 30 prestazioni all’anno per un massimo di 5 mila euro lordi”.
Ma il problema è che le autorizzazioni non vengono concesse con facilità , le pratiche vanno a rilento, spesso si ignora la normativa base.
Racconta il vicebrigadiere Fausto Antonini, da Firenze: “Sono diplomato al conservatorio, ho avuto il permesso di fare il musicista, ma spesso sono in difficoltà perchè i teatri mi chiamano con un anticipo di dieci, quindici giorni, e per ottenere l’autorizzazione del ministero della Difesa ne servono almeno quaranta”.
“Il doppio lavoro oggi purtroppo è diventato una necessità – spiega Felice Romano, segretario generale del Siulp, il maggiore sindacato di polizia – E se prima ai poliziotti era garantito un accesso agevolato al credito, adesso non è più così facile. Così succede che gli agenti rischiano addirittura di finire nelle mani degli usurai. Abbiamo già dovuto salvare dei colleghi.
Ci sono due strade: o lo Stato si fa carico di mantenere dei livelli salariali tali da arrivare a fine mese, oppure bisogna dare ai poliziotti la possibilità di avere una seconda occupazione”.
Enrico Alessi, agente di Pavia in polizia da 17 anni, è riuscito a farsi dare il permesso per gestire una pensione per cani con degli amici.
Offre anche consulenze informatiche, che rientrano nelle prestazioni occasionali autorizzate.
“Le mie entrate extra non superano i limiti previsti – spiega – di tutti i colleghi che ho conosciuto nella mia carriera, almeno la metà ha bisogno di fare un secondo lavoro. Alcuni lo fanno di nascosto, illegalmente, perchè non conoscono bene le opportunità che abbiamo per legge”. Ma quali conseguenze ci sono?
STANCHI, DEPRESSI, POCO GRATIFICATI
“Mi è capitato di vedere un agente che si addormentava in servizio – racconta Antonio, poliziotto romano che accetta di farsi riprendere dalle telecamere di Repubblica, con il volto oscurato – poveraccio, faceva il cameriere in un ristorante e tornava a casa alle quattro. Oppure succede che chi ti sta accanto durante un pattugliamento in auto, all’improvviso ti chieda di cambiare strada per evitare di farsi vedere con la divisa addosso da chi potrebbe riconoscerlo e metterlo in difficoltà con l’altro mestiere. Deve quasi nascondersi. Risultato: muore l’orgoglio di essere poliziotto”.
Non è difficile intuire quali siano le conseguenze di tutto questo.
“Un’ora di straordinario in polizia viene pagata appena 6 euro – ragiona Antonio – non bastano neanche per pagare la babysitter di mio figlio. Così, chi ha un’occupazione alternativa, soprattutto nell’edilizia e nella ristorazione perchè è più facile nascondere l’abusivo, difficilmente vi rinuncia per prolungare il turno. E’ sopravvivenza, nient’altro”.
E questa facilità a cercare e trovare una seconda entrata, fenomeno diffuso in ogni reparto e in ogni forza di polizia, consegna alle cronache casi che vanno oltre il procedimento disciplinare.
L’ultimo, in ordine di tempo, ha riguardato Alessandro Prili, il carabiniere in servizio nell’ufficio Primi atti del Tribunale di Roma che, prima di venire investito da un’ordinanza di custodia cautelare, lavorava di fatto per due agenzie di investigazione, la Global security service e la Nuova Flaminia srl.
E i casi di poliziotti che la notte fanno i buttafuori non si contano.
“Si vivono due vite parallele – ragiona amaro Antonio – una continua acrobazia per non far incontrare le due identità . Di giorno poliziotti a cui viene chiesto di rincorrere un mafioso, di notte camerieri che devono rincorrere gli ordini dei tavoli. Ci mancano le gratificazioni, questa è la verità ! Quando inizi, da ragazzino, sei pieno di sogni e ideali. Poi cambia tutto, il nostro stipendio misero ti toglie la dignità “.
E finisci che, per arrivare a fine mese e pagare le tasse universitarie dei tuoi figli, violi quella legge che dovresti tutelare.
Valeria Teodonio e Fabio Tonacci
(da “La Repubblica”)
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Agosto 31st, 2012 Riccardo Fucile
DA PESCARA A ROMA, TAGLI AI POSTI PER I POLITICI… E GASPARRI S’INFURIA: “LA SOCIETA’ PENSI AI RISULTATI”
Il politico scroccone, spiaggiato in tribuna autorità , insegue il pallone e le telecamere: ormai è una specie che rischia l’estinzione.
Va protetta, va salvata.
I tifosi pescaresi, solidali, hanno montato un video di pochi minuti eppure particolarmente toccante: “Adotta un consigliere comunale, campagna di sensibilizzazione a favore dei poveri indigenti amministratori locali”.
A Pescara è successo. Anni e anni di serie B e C, di poltroncine piegate con sbadigli e sconfitte.
Adesso, proprio adesso che il Pescara ritorna in A: no, incredibile.
Però dovete crederci anche se vi sembra impossibile. Ma è successo.
La società ha eliminato i 160 biglietti gratuiti che garantivano all’assessore uno struscio perlomeno di gomito con il presidente Massimo Moratti o il rampollo Andrea Agnelli.
Niente. Dovete pagare, dicono.
E voi, rinfrancati, v’immaginate il politico pescarese che riscatta la categoria,tumula il livore contro la casta e libera i portafogli dei colleghi.
Non immaginatevi questo, per favore.
A Pescara hanno chiamato i Carabinieri prima di ospitare l’Inter: dovevano spulciare la lista dei fortunati su richiesta di Fausto Di Nisio (Idv), ma neanche l’appuntato e il brigadiere sono riusciti a forare la muraglia.
Renato Ranieri (Pdl), che preside la commissione Finanze, e l’euro lo maneggia, s’appella all’articolo 26 del regolamento comunale: “Il testo stabilisce che il Municipio decide chi può transitare per lo stadio”.
Qualcuno poteva citare Totò, Peppino e la Malaffemmena: persino le galline raggiunsero Milano in treno. Non erano vietate, le galline. E l’articolo 26 non esisteva.
A Roma la faccenda è più seria. Perchè il Parlamento è abituato a riunirsi in seduta plenaria in quello spicchio di Olimpico che chiamano Tribuna Monte Mario Vip. Tutta d’un fiato.
Le fusioni (ed effusioni) calcistiche funzionano, meglio di qualsiasi coalizione: tifano insieme Massimo D’Alema, Maurizio Gasparri, Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Mario Baldassari, Cesare Previti, Franco Baccini, Clemente Mastella.
E se volete una lista più completa, basta consultare i siti di Camera e Senato.
Pochi ne mancano. Pochi rinunciano a una passerella in notturna, soprattutto.
Quando i disgraziati tifosi sormontano codoni per acquistare un biglietto per una partita di cartello, i politici compongono il numero di Roma e Lazio oppure s’affidano al Coni.
Anche perchè, di questi tempi cupi, meglio non chiamare nè Claudio Lotito nè gli americani giallorossi.
Il Coni sottrae incassi, milioni veri per le società , e non molla i 550 posti liberi (per la Roma): tagliandi che vanno distribuiti con un criterio non propriamente olimpico.
La Roma ha ridotto il lusso per i politici.
Quando gli americani si ritrovarono più di mille poltroncine riservate, il presidente Thomas Dibenedetto osservò: “In America il settore migliore viene venduto a prezzi più cari. La status symbol non è essere in tribuna gratis, ma comprarsi il biglietto”.
Ci vuole coraggio per spiegarlo a Gasparri: “La società pensi ai risultati”, che lui si concentra per arraffare un sediolino riscaldato.
Non un’operazione semplice. Perchè gli americani quei mille riservati li hanno fatti diventare prima 250 e ora 200: come mettere il Parlamento nella ventiquattrore. Questa è la capitale.
E il direttore generale Franco Baldini l’ha ricordato pubblicamente: “Un primo grande problema sono i biglietti. È difficile spiegare alla proprietà la chimera del biglietto gratuito”.
La Roma, però, insiste: mette in vendita centinaia di biglietti – in quel riparo che fu per vecchi tromboni e giovani politici — a prezzi elevatissimi che variano da 6mila e 8mila euro.
A volte , il potere compra: non chiede.
La Roma conosce il rischio (a parte le telefonate) e quel sistema mediatico, infiltrato da politici-tifosi e tromboni, appunto — che cercano di screditare la dirigenza per un biglietto negato.
Anche questo è successo, davvero, e siamo a Roma.
A Milano rivendicano il privilegio: “Fermate le ipocrisie, al Meazza si parla di politica”, spiegò ad Affaritaliani, e con una certa convinzione, il capogruppo Carmela Rozza (Pd).
Non buttano così 320 tagliandi per assistere a qualsiasi incontro di Milan o Inter, tutti destinati al Comune che poi li consegna a mano.
Forse quest’anno la metà verrà donata.
Questo è il piano in vigore per la stagione 2012/13, ecco la rosa di Giuliano Pisapia: 4 biglietti a partita per il sindaco, 2 a ciascuno per i 12 assessori e 48 per i consiglieri consiglieri.
A Parma, Palermo, Firenze, Napoli si combattano le stesse battaglie: società di qua, politici di là .
Al Bentegodi di Verona, solitario e con la solita aria triste, il presidente Luca Campedelli (Chievo) si guardò intorno e disse: “Perchè queste poltroncine sono per il Comune?”.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 31st, 2012 Riccardo Fucile
IL PARTITO NON ESISTE PIU’, I MILITANTI SI RIORGANIZZANO E PROLIFERANO I MOVIMENTI INDIPENDENTISTI
In Veneto sono tanti gli orfani della Liga veneta che dopo aver elaborato il lutto si
stanno riorganizzando, ora che il partito della secessione è sbriciolato e parcellizzato in molti rivoli.
Così finchè aziende e municipi battevano bandiera leghista e il leone di San Marco sventolava dai pennoni delle villette, l’illusione che al di là della simbologia ridondante ci fosse “qualcuno che si occupava del territorio” era smagante ma fortissima.
Ora i veneti “sono diventati come i panda in estinzione, ma senza un’agenzia di appeal come il Wwf e senza la stessa possibilità di accedere ai finanziamenti” racconta Carlo Melina, giornalista e videomaker.
Ed è così che alla “Festa dei veneti nona edision” organizzata dall’associazione culturale “Veneto nostro — Raixe venete” a Sitadela (Cittadella) questo fine settimana quel grumo di lingua, cultura e tradizioni locali che per nove anni è stato il basamento della tre giorni, cederà il passo alla ruvida concretezza dei problemi reali, a cominciare dalla congiuntura economica che qui ha spazzato vite umane.
“Il Veneto ha pagato un tributo altissimo alla crisi in termini di suicidi, aziende che chiudono e sistemi economici da ripensare” dice Melina, che alla festa presenterà l’anteprima del documentario: “Via col veneto” girato e prodotto da lui assieme a Francesca Carrarini.
Il giornalista misura subito la giusta distanza dal Carroccio: “Non ho mai votato Lega” ma strizza l’occhio (come tutta la festa) ai movimenti indipendentisti proliferati come funghi nel vuoto lasciato dalla Lega.
Il parterre della festa di Cittadella, che alle prime edizioni raccoglieva 2mila persone ma oggi ne calamita oltre 50mila (“el più gran evento dea cultura veneta” si legge nel sito) è quello che rinfaccia a Tosi di avere la bandiera tricolore appesa in ufficio, alla Lega di non essere mai stata davvero movimento indipendentista e aver preso troppi ordini dai lombardi, al governatore Zaia di non aver mai fatto nulla — nonostante la provenienza politica — per sostenere le proposte indipendentiste, che vanno dal referendum per l’indipendenza del Veneto alla promozione di libri di scuola che parlino della Serenissima repubblica, all’incentivazione del dialetto nelle scuole.
Non è un caso che Zaia quando è salito sul palco della festa nel 2008 è stato abbondantemente fischiato, e così anche il suo assessore leghista al bilancio Roberto Ciambetti nel 2010.
Anche la scelta di Cittadella ha un senso preciso, è il paese nel Padovano dove è stato sindaco per due mandati l’onorevole Massimo Bitonci, che rappresenta l’anima più indipendentista della Liga veneta (quando è stato eletto apparteneva alla lista civica San Marco); il suo successore, il leghista Pan, fortemente voluto da lui, sarà sul palco venerdì sera.
“à‰ evidente la speranza degli organizzatori della festa di scippare elettorato leghista a favore dei movimenti indipendentisti, o di un altro partito che magari si costituirà a breve” chiosa Melina.
L’allusione è alla nuova formazione in embrione — sottopelle alla Liga — che sta nascendo tra imprenditori e primi cittadini veneti, con guida probabile l’ex vicepresidente di Confindustria nazionale Antonio Costato, marcegagliano e a capo del più importante gruppo molitorio italiano (Grandi Molini).
Fuori dall’azienda di Costato, che sarà presente alla festa, sventola la bandiera col Leone di San Marco.
“La festa è apartitica e apolitica” getta acqua sul fuoco l’ecumenico Davide Guiotto, presidente di “Veneto nostro” e organizzatore dell’evento, che poi però rinforza tesi da orfano della Lega “proprio perchè siamo stati colpiti così duramente dalla crisi cercheremo di accelerare il recupero della memoria storica e del sentimento di identità , per arrivare presto alla scelta indipendentista, di autodeterminazione del Veneto, magari con un bel referendum”.
Insomma gli obiettivi non detti sono due: coagulare una nuova forza politica indipendentista per le prossime elezioni e consegnare alle istituzioni la richiesta per un referendum sull’autonomia regionale.
Metapolitica di una regione , se si pensa che “Indipendenza veneta”, movimento appena nato da una costola di Veneto Stato (perchè il grande problema dei veneti è che sono litigiosi) guidato da Ludovico Pizzati professore di economia a Ca’ Foscari ha raccolto 20mila firme in un paio di mesi, e messo sul tavolo del leghista Zaia la richiesta di referendum.
Richiesta rimasta assolutamente inevasa, sembra per sempre.
Erminia Della Frattina
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Agosto 31st, 2012 Riccardo Fucile
“SI CONFIDO’ QUALCHE MESE PRIMA DELL’ARRESTO DI CHIESA: AVEVA BEN CHIARO DOVE LE INDAGINI AVREBBERO PORTATO”
Alcuni mesi prima di Tangentopoli Antonio Di Pietro anticipò al console generale americano a Milano che l’inchiesta avrebbe portato a degli arresti e che le indagini erano destinate a coinvolgere Bettino Craxi e la Dc.
A ricordarlo è proprio Peter Semler, durante un incontro nella sua tranquilla casa agli Hamptons dove trascorre l’estate fra spartiti di musica russa sul pianoforte, fiori ben curati nel patio e la tv accesa sul canale del golf.
L’ex console, 80 anni, ha il fisico asciutto, la voce mite e grande premura nel ricordare gli anni passati in Italia, iniziati quando nel 1983 arrivò a Roma come consigliere militare-politico, gestendo l’arrivo dei missili Cruise a Comiso e disinnescando nel 1986 la crisi Usa-Italia seguita dall’attacco di Reagan contro la Libia di Gheddafi.
Ma, trascorsi venti anni dall’inizio di Tangentopoli, ritiene soprattutto giunto il momento di ricordare come visse, dal suo osservatorio, quella stagione che portò alla fine alla Prima Repubblica.
Quando arrivò a Milano?
«Nell’estate del 1990. Era agosto e non c’era nessuno, tutto sembrava normale con i soliti Giulio Andreotti e Francesco Cossiga che decidevano ogni cosa a Roma. C’era anche Craxi, il figlio Bobo fu una delle prime persone che vidi».
Che approccio ebbe alla politica milanese?
«Giuseppe Bagioli, un dipendente italiano al Consolato, era il mio consigliere politico a Milano, viveva di politica interna, sapeva tutto di tutti. Una vera enciclopedia vivente, mi fu di aiuto straordinario. Una delle prima persone che mi portò fu il figlio di Craxi, poi vidi quelli della Lega e quindi i comunisti. Volevamo parlare con tutti e così facemmo. Mi resi conto che vi sarebbe stata un’esplosione, come poi avvenne. La Lega nel Nord aveva il centro a Milano, e poi qualcosa in Veneto».
Come ricorda i leghisti?
«Avere a che fare con loro era tutt’altra cosa rispetto a Roma: arrivavano puntuali ai pranzi e poi tornavano subito a lavorare. Borgioli mi fece parlare con gente che esprimeva scontento verso Roma, ma quando andai a dirlo all’ambasciatore a Roma Peter Secchia mi disse: “Che vai dicendo? Ieri ho visto Cossiga e Andreotti, è tutto ok, governa sempre la stessa gente”. Io rispondevo che i cambiamenti sarebbero stati grandi ma era parlare al vento»
Da dove nasceva il contrasto di interpretazioni con l’ambasciata Usa a Roma?
«All’ambasciata a Roma c’era all’epoca Daniel Serwer, che sosteneva la tesi che nulla sarebbe mai cambiato in Italia. Ad un incontro a Roma a cui parteciparono tutti i nostri generali, della forze del Mediterraneo, mi dissero che non avevo capito niente».
Perchè era così convinto di avere ragione?
«Per quello che sentivo a Milano. Ricordo che un primo gennaio ebbi un pranzo con due leader della Lega e quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”. Ma a Roma Secchia continuava a dirmi: “Basta perdere tempo con queste storie”».
Conobbe Antonio Di Pietro, allora pubblico ministero?
«Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti».
Quando avvenne il colloquio?
«Incontrai Di Pietro prima dell’inizio delle indagini, fu lui che mi cercò attraverso Bagioli. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc».
Stiamo parlando di circa quattro mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, avvenuto il 17 febbraio del 1992…
«Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene. Di Pietro mi preannunciò gli arresti ma per me non era chiaro cosa sarebbe avvenuto».
Che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite?
«Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici, ci vedevamo in luoghi diversi».
Con Di Pietro c’era un’intesa più forte?
«Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato. Ero spesso in contatto con lui. Ci vedevamo».
Cosa pensava delle indagini?
«Ero in favore di ciò che Di Pietro faceva ma era una materia legale assai complessa. Il mio ruolo era di dire a Secchia cosa faceva Di Pietro».
Come si comportava Di Pietro negli incontri con lei?
«Di Pietro con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato».
Cosa la colpì di lui?
«Borgioli mi disse che Di Pietro sapeva usare il computer, a differenza di gran parte degli italiani. Di Pietro era un personaggio straordinario, cambiò l’Italia».
Come nacque la visita negli Stati Uniti?
«Sono stato io a suggerire all’ambasciata a Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l’inizio delle indagini».
Chi incontrò Di Pietro durante la visita?
«Gli fecero vedere molta gente, a Washington e New York».
Come reagirono i comandi militari Usa a Tangentopoli?
«I militari davanti a Tangentopoli non si interessavano troppo alla politica, volevano solo essere sicuri che avrebbero potuto continuare a muovere liberamente le loro truppe e navi. E che le armi nucleari fossero al sicuro».
Come ricorda l’atmosfera di Milano in quel 1992?
«A Milano il cambiamento era nell’aria. Conoscevo molte persone. Ricordo Pirelli e c’era un industriale importante, di origine siciliana, basso, con il cognome di quattro lettere che mi diceva le cose. Mario Monti all’epoca guidava la Bocconi, andavamo a cena assieme e gli procuravo oratori americani. Berlusconi non lo conoscevo bene, una volta ebbi con lui un pranzo assai lungo, Peter Secchia aveva in genere bisogno di 45 minuti per raccontarsi, scoprì che c’era qualcuno capace di parlare assai di più».
Terminata la conversazione Semler ci accompagna verso l’uscita dimostrandosi ancora un attento osservatore dei fatti politici italiani.
E passando vicino al pianoforte osserva: «Continuo a suonarlo perchè è stata mia madre a insegnarmelo».
Maurizio Molinari
(da “La Stampa“)
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Agosto 31st, 2012 Riccardo Fucile
L’EX DIRETTORE DEL TG4 PREPARA LA DISCESA IN CAMPO: “IL CENTRODESTRA NON PUO’ FINIRE IN MANO ALLA SANTANCHE'”… “SARA’ UN MOVIMENTO DI OPINIONE”
L’ex direttore del Tg4 Emilio Fede entra in politica con un suo partito o, come dice
lui, «un movimento di opinione».
Si chiamerà «Vogliamo Vivere».
A luglio ha depositato il marchio a Como, per non dar nell’occhio e l’Espresso ne racconta la storia.
L’idea è maturata a inizio estate, la lunga estate seguita al suo coinvolgimento nel processo Ruby, accusato di favoreggiamento della prostituzione con Lele Mora e Nicole Minetti.
Ad agosto l’ex direttore del Tg4, scrive l’Espresso, per anni evangelista del verbo di Berlusconi, poi messo bruscamente in pensione da Mediaset, si è mosso tra Anacapri (nella villa della moglie Diana De Feo), Perugia, Milano, Varigotti e Forte dei Marmi. E una traccia misteriosa era apparsa su Twitter a ridosso di Ferragosto: «Vogliamo Vivere… Leggerete sempre più spesso questo slogan».
«LA GENTE MI INCORAGGIA»
Fede conferma a «l’Espresso»: «Fondo un movimento di opinione perchè ho ascoltato tanta gente che mi incoraggia. Il Pdl rischia di diventare uno spartito stonato».
Si sta muovendo da solo? «Mi muovo da solo, e ci metto soldi miei. Berlusconi non ne sa niente.
“Vogliamo Vivere” riassume il malessere di tanti, sotto il cosiddetto governo tecnico. Il centrodestra non può finire in mano alla Santanchè. E di là chi c’è? Beppe Grillo. Io non sono un politico, io ho una storia, sessant’anni di giornalismo, la Rai, l’Africa, le guerre seguite al Tg4. Questa storia due anni fa è stata inquinata, ma non mi faccio intimidire».
(da “Il Corriere della Sera“)
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