Ottobre 24th, 2013 Riccardo Fucile
LA SINISTRA (E NON SOLO) DOVREBBE PORSI QUESTA DOMANDA
Puoi governare con il tuo carnefice?
Puoi considerare «alleato» un leader politico, pregiudicato e spregiudicato, che solo cinque anni fa ha comprato un parlamentare a suon di milioni per far cadere la tua maggioranza?
Di fronte al rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, deciso dal Gup di Napoli nell’inchiesta sulla corruzione del senatore De Gregorio, conviene ribaltare la questione, famosa e ormai annosa, della cosiddetta «agibilità politica» del Cavaliere. Conviene guardarla dal punto di vista non delle reazioni del centrodestra, ma delle decisioni del centrosinistra.
Un rinvio a giudizio non equivale ovviamente a una sentenza di condanna. Ma significa che un giudice terzo, diverso dai pubblici ministeri inquirenti, ritiene che siano state raccolte prove sufficienti a giustificare l’avvio di un processo.
Nell’inchiesta Berlusconi-Lavitola-De Gregorio le prove, più che sufficienti, paiono schiaccianti.
Nella primavera del 2006 l’Unione di Prodi vince per un soffio le elezioni. A Palazzo Madama ha solo 4 voti di maggioranza. Basta una modesta transumanza, e il governo va a casa.
Nel luglio successivo il Cavaliere lancia la campagna acquisti.
Il senatore De Gregorio già eletto nelle file dell’Idv di Di Pietro viene agganciato da uno dei faccendieri più indecenti ma più efficienti ad Arcore, Valter Lavitola.
È lui che comincia a foraggiare De Gregorio: 3 milioni di euro in tutto (ne riceverà solo una parte).
Con quel «tesoretto» sul conto corrente, il senatore lancia a sua volta l’«operazione Libertà ». La racconta lui stesso nelle carte dell’inchiesta, spiegando che ogni passo è stato concordato con il leader del Pdl.
«Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». Cioè la caduta del governo Prodi.
De Gregorio dichiara agli atti: «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio… ».
La missione è: «Procurarsi voti in Parlamento». Come procurarseli è fin troppo facile. Con il denaro, che per il Cavaliere, dalle toghe sporche alle olgettine ripulite, non è mai stato un problema.
De Gregorio tenta prima con un senatore suo amico.
«Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni», risponde il Cavaliere.
L’abbocco fallisce: Caforio fa finta di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale.
Ma l’Operazione Libertà è ormai partita, e nulla può fermarla. Le prove generali iniziano il 28 febbraio 2007, quando Prodi si salva al Senato per appena tre voti. «L’evento finale » si produce il 24 gennaio 2008, dopo le dimissioni del Guardasigilli Mastella che ha saputo di una richiesta d’arresto ai danni di sua moglie da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere.
Prodi viene sfiduciato al Senato, dove va sotto per 5 voti. A impallinarlo, oltre a Mastella e a Lavitola, ci sono Lamberto Dini, Vito Scalera e Luigi Pallaro, eletto in Argentina e misteriosamente scomparso il giorno del voto.
Sono prove, queste? O solo calunnie? Sono prove, nient’altro che prove.
La conferma arriva dallo stesso Lavitola, in una lettera spedita il 13 dicembre 2011 all’ancora premier Berlusconi.
Valterino batte cassa per l’Avanti, e ricorda al «socio » tutto quello che ha fatto per lui.
«Lei – scrive – subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».
Questo è dunque lo scandalo che emerge dalle carte dell’inchiesta di Napoli.
Questo è il «golpe bianco» che si sospetta Berlusconi abbia ordito contro il governo Prodi.
Dietro al quale, ancora una volta, si intravede non un blitz episodico.
Ma piuttosto il solito e collaudatissimo «sistema corruttivo», che ricorre in tutte le vicende giudiziarie in cui il Cavaliere è stato a vario titolo condannato, coinvolto o prosciolto (grazie alle prescrizioni e alle leggi ad personam).
Un «metodo» che ha funzionato per le tangenti alla Gdf e per Mills, per il Lodo Mondadori e per i diritti tv.
E se ha dato frutti nell’affare De Gregorio, è lecito pensare che ne abbia generati sia per il primo ribaltone dei due senatori che salvarono il Berlusconi I nel 1994, sia nella campagna acquisti dei «Responsabili» che salvarono il Berlusconi IV nel 2010.
Il processo di Napoli si aggiunge alla lunga sequenza di conti in sospeso che il Cavaliere intrattiene tuttora con la giustizia.
Dopo la condanna definitiva per i diritti tv Mediaset, l’interdizione di due anni dai pubblici uffici sui quali dovrà pronunciarsi la Cassazione, il voto dell’aula di Palazzo Madama sulla decadenza, l’appello del processo Ruby per prostituzione minorile e concussione e l’uscita delle motivazioni della condanna di primo grado nello stesso processo (prevista per metà novembre).
Basterebbe un’occhiata all’agenda giudiziaria dell’ex premier, per liquidare con un sorriso amaro le pretese di «pacificazione », le parole al vento sui doverosi «atti di clemenza», le pressioni inaccettabili su un fantomatico «motu proprio» del Capo dello Stato, le allusioni insopportabili su un ipotetico indulto ad personam del Parlamento. Non c’è scudo possibile, per un imputato-condannato di questo calibro.
Non si tratta di consumare una vendetta ideologica, nè di realizzare un’eliminazione politica per via giudiziaria.
Più semplicemente: anche volendo (e nessuno che abbia a cuore lo stato di diritto dovrebbe volerlo) non esistono nei codici dell’Occidente «condoni tombali» che cancellino le pendenze penali passate, presenti e soprattutto future.
Il Pdl è squassato da una strana lotta intestina.
Eredi rissosi si contendono inutilmente il lascito di un «de cuius» che nonostante tutto resta più vivo che mai.
Di fronte alle pessime notizie che arrivano dai tribunali, i «parenti della vittima» celebrano il rito stanco di sempre.
«Persecuzione», «caccia all’uomo», «attentato alla democrazia».
Parole violentate, abusate, svuotate di senso.
Ma lanciate come pietre contro la sinistra «togata» e contro il governo Letta.
Immaginare un futuro radioso per le Larghe Intese, a questo punto, è illusorio. I segnali di rottura erano già numerosi, dalla legge di stabilità all’antimafia.
Ma ora, com’era facile prevedere, è l’ossessione giudiziaria che domina la scena a Villa San Martino e a Palazzo Grazioli. Il rinvio a giudizio di Napoli segna un possibile punto di svolta. Non tanto giudiziario, quanto politico.
Di fronte all’enormità dell’ultima imputazione, si torna alla domanda iniziale.
C’è da chiedersi se non tocchi alla sinistra riformista il «dovere» di rompere l’alleanza innaturale con l’uomo che ha ucciso il governo Prodi, comprando quattro traditori per trenta denari.
Piuttosto che concedere ancora una volta a una destra irresponsabile il «diritto» di far saltare il tavolo, legando indissolubilmente e colpevolmente i destini della nazione a quelli del suo «Cavaliere dell’Apocalisse».
Massimo Giannini
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 24th, 2013 Riccardo Fucile
VA A VUOTO L’ENNESIMO TENTATIVO DI MEDIAZIONE TRA ALFANO E FITTO: PDL SULL’ORLO DELL CRISI DI NERVI
Se l’aspettava. «Pagina già scritta» dice. «Come tutte quelle che arrivano dalle procure». L’umore è
quello dei giorni più oscuri. La previsione per il futuro catastrofica. La sindrome è quella dell’accerchiamento.
«Vedrete che proveranno ad arrestarmi un minuto dopo la decadenza». Per questo, l’ordine di Berlusconi ai suoi, appreso del rinvio a giudizio da Napoli per la compravendita dei senatori, è di ostacolare in ogni modo possibile proprio il voto del Senato.
«Dovete fermare questo obbrobrio» dice ai suoi avvocati. Ma proprio a Palazzo Madama il governo ha rischiato di crollare, a sorpresa, in mattinata, sul ddl di riforma costituzionale voluto dal governo che i falchi Pdl hanno tentato di affossare con un blitz, poi fallito per soli quattro voti.
I cecchini sono appostati, l’esecutivo Letta è avvertito.
Berlusconi invece ce l’ha con le procure – «Sono partite tutte all’attacco ora che mi considerano più debole» – e ce l’ha, ovviamente, anche con chi si fa la guerra nel Pdl perchè «non fanno altro che litigare e i ministri a tenere in piedi a tutti i costi questo governo».
Lo sfogo contro la magistratura è quello di sempre, il timore dell’arresto riguarda Napoli e Milano, anche se gli avvocati cercano subito di smentire perchè la compravendita sarebbe troppo antica per giustificare un arresto, e l’induzione alla falsa testimonianza troppo debole.
Il Cavaliere teme un altro «agguato» in arrivo oggi dalla Cassazione dove le toghe delle Sezioni unite, presiedute dal primo presidente Giorgio Santacroce, metteranno mano al guazzabuglio della legge Severino e della contestata divisione tra concussione e induzione.
Un verdetto che potrebbe avere, per lui imputato nel processo Ruby, effetti negativi.
In queste ore, sarebbe importante poter contare su un partito unito. Invece il Pdl è un covo di serpi.
Berlusconi rientra a Roma a metà pomeriggio, quasi in concomitanza con la notizia del rinvio a giudizio rimbalzata da Napoli.
È la svolta della giornata che lo precipita in quello stato d’animo. La rabbia è lacerante, ce l’ha con il premier Enrico Letta che appare distante e disinteressato, con il capo dello Stato Napolitano preoccupato solo per le riforme, in fin dei conti non sa contro chi scaricare la tensione. Per di più il partito gli si sfarina tra le mani.
Il gruppo parlamentare al Senato appare ormai senza guida, si procede in ordine sparso.
E una conferma la si ha in tarda mattinata. Quando va ai voti il ddl costituzionale per l’istituzione del comitato per le riforme.
Porta la firma del ministro Gaetano Quagliariello, considerato dai “lealisti” e dai falchi l’ispiratore della lettera dei 24 pro governo di tre giorni fa, uno degli acerrimi avversari interni.
Prendono la parola in dissenso il campano Francesco Nitto Palma e Augosto Minzolini, è il segnale.
Scatta il blitz. Alcuni senatori pur di non votare a favore escono, in undici si astengono (al Senato equivale a un no) e alla fine il provvedimento passa per soli 4 voti di vantaggio.
«Se fosse stato bocciato, sarebbe caduto il governo» dice senza giri di parole un preoccupato Roberto Formigoni. «Oggi Quagliariello deve ringraziare San Gennaro» ironizza coi colleghi amici il berlusconiano doc Nitto Palma, faro dei senatori campani che nel caos pidiellino fanno ormai corrente a sè, la «corrente del golfo» ironizza qualcuno.
Di fatto, i ministri alfaniani considerano quanto avvenuto la dimostrazione che gli avversari interni lavorano per sabotare, far saltare il tavolo, con qualunque pretesto.
È la ragione per la quale da ore è ripartito il pressing sul vicepremier perchè rompa e dia il via all’operazione gruppo autonomo.
Presto, al più entro la prossima settimana. Alfano resiste, non vuole rompere, non ora.
«Bisogna preservare il governo ma evitare di dare pretesti ai falchi, restiamo nel partito» continua a predicare il segretario Pdl.
Subito dopo il blitz al Senato chiama Fitto. I due si vedono dopo settimane di guerra fredda. Un faccia a faccia che Berlusconi stesso aveva sollecitato da una settimana. Avviene sui divani della Corea, lungo corridoio riservato di Montecitorio. Dura due ore piene.
Con il capo dei lealisti che ripropone l’azzeramento dei vertici Pdl e il passaggio immediato a Forza Italia.
Con il vicepremier che dice no, che difende la sua carica di segretario e la sopravvivenza del governo. Le posizioni resteranno distanti. Qualcuno come Ignazio Abrignani a questo punto propone un “lodo”: Alfano vicepresidente al fianco di Berlusconi, con Lupi e Verdini coordinatori.
Ma per il momento viene accantonato.
Berlusconi non avrebbe nemmeno voglia di riprendere in mano la situazione del partito. Ma lo deve fare. Deve tenerlo unito almeno fino al voto sulla sua decadenza dal Senato.
Incontra prima il senatore Guido Viceconte, poi Angelino Alfano, infine cena con Denis Verdini e Gianni Letta. Con Fitto si sente a più riprese.
Nel colloquio con Alfano (che oggi dovrebbe andare a rappresentare il Pdl al vertice Ppe di Bruxelles) la tensione torna a salire. Berlusconi rivendica il diritto di difendersi e di mandare al diavolo il governo se lui decadrà .
Il vicepremier che ribatte: «Ma pensi davvero che Napolitano possa concedere ancora il voto anticipato? Con la legge di stabilità e la riforma elettorale da approvare?»
Invito a rassegnarsi, per il Cavaliere inaccettabile.
«Il fatto è che anche noi siamo per la difesa di Berlusconi – argomentava a fine giornata un Formigoni in «trasferta» nel Transatlantico di Montecitorio – ma senza per questo creare danni al Paese».
Lopapa e Milella
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 24th, 2013 Riccardo Fucile
“AN ERA NATA PER ALLEARSI CON BERLUSCONI, L’IDEATORE FU TATARELLA, NON FINI”… “NON FU SOLO FINI A SBAGLIARE, ERANO TUTTI D’ACCORDO, SOLO RAUTI EBBE IL CORAGGIO DI ANDARSENE”…”RIFARE AN? TANTO I VOTI NON LI PRENDONO”
Donna Assunta Almirante è un fiume in piena.
L’occasione per parlare un po’ di destra è l’intervista di Fini al Corriere della Sera, ma analizzando qualche frase dell’ex Presidente della Camera, si può rileggere la storia politica di quest’area del Parlamento.
Si sapeva che il Movimento Sociale sostenne alcuni provvedimenti del Governo Craxi per l’attuazione del decreto legge per la liberalizzazione del mercato televisivo (che permise la consolidazione del gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi).
Ma non era noto che «quando ci fu il passaggio dal Msi ad An — ha dichiarato Donna Assunta — Berlusconi era in prima fila, perchè furono d’accordo nel creare Alleanza Nazionale. Nata per allearsi con Berlusconi».
La Almirante non è d’accordo con le attuali divisioni a destra che stanno occupando i giornali e manda un messaggio a chi vuole rifare An: «Se dovevano tornare ad An, tanto valeva rifare il Msi, se volevano essere creduti. Solo Adriana Poli Bortone è rimasta fedele ai valori di destra».
Nell’intervista di Fini al Corriere della Sera ad un certo punto l’ex presidente della Camera afferma di conoscere Berlusconi «da 30 anni, da quando l’Msi appoggiava le tv private». E’ così?
«Non è vero, a livello politico non lo conosceva. Lo abbiamo conosciuto noi quando segretario del partito era mio marito Giorgio Almirante. E Berlusconi, che non era vicino a nessun partito allora, venne da noi con Confalonieri, ma lui non sapeva nulla. Il Corriere della sera scoprì che Berlusconi ci incontrò. Era una questione di Tv private, la questione politica non c’entrava niente allora. Berlusconi incontrò Giorgio per cercare sostegno e quindi voti per permettere “l’accensione” delle televisioni che aveva in mente…».
Ma An e Berlusconi sono unite in qualche modo?
«Partiamo da un dato: Fini non è certo l’autore di An, è stato Tatarella, anche grazie all’amicizia e ai rapporti che aveva con il dottor Letta. Su quest’operazione Fini fu solo interpellato, a mio avviso. Quando ci fu il passaggio dal Msi ad An, Berlusconi era in prima fila, perchè furono d’accordo nel creare Alleanza Nazionale. Il senatore La Russa, il padre di Ignazio, non votò per An e abbandonò, e anch’io avrei votato contro, ma nella vita mi sono sempre occupata d’altro, non certo di politica, non mi sono mai fatta mantenere. Io feci chiasso comunque e addirittura arrivai a querelare un giornalista, perchè ci fu del caos. Una storia lunga».
Nell’intervista Fini ha parole di amarezza solo per Ignazio La Russa, scrive “mi aspettavo di più”.
«Perchè erano molto amici. Lui dice da trent’anni amici, ma non è così, Fini fu portato al partito da Donato La Morte, poi cominciò ad incontrare La Russa, non era un’amicizia di famiglia insomma, ma nel tempo lo era diventata».
Per Storace ha parole di simpatia..
«Tanto è vero, che Storace annuncia che contribuirà alla fondazione della nuova An».
Crede che ci sia dietro Fini?
«Mah, mi creda. Ho un forma di rigetto generale. Non credo più a nessuno. Ma devo dare una ragione a Fini…».
Quale?
«Che non è solo Fini ad aver sbagliato, anche tutti gli altri erano d’accordo per passare ad An e poi entrare direttamente a fianco del partito di Berlusconi. Era già preparato tutto. L’unico fu Rauti che se ne andò e fondò Fiamma Tricolore. Quando nacque An, pronta per allearsi con Berlusconi, si misero Storace e Alemanno a fare la parte sociale, per coprire quell’area. Credo che Rauti fu convinto dallo stesso Fini ad andarsene».
Cosa pensa della nascita di una nuova An?
«Se dovevano tornare ad An, tanto valeva rifare il Msi, se volevano essere creduti veramente. Anche perchè i beni del Msi (100miliardi di beni immobili), che lasciò Almirante, sono sotto Commissione. Invece di rifare la destra, dovendo ritornare indietro, poteva tornare al Msi. Tanto i voti non li prendono, inutile che s’illudano».
Ma ce l’ha proprio con tutti?
«Adriana Poli Bortone si è mantenuta fedele ai valori di destra, ha servito il Paese ed è una donna eccezionale. Ha continuato a stare nell’ombra, seppure è stata ministro e ha un grande profilo istituzionale».
Di Officina Italia cosa pensa?
«Se vogliono essere in contrapposizione ad un partito devono stare uniti. Resteranno a casa tutti separati così come sono. Quando portano un deputato in Parlamento cosa fanno? La Russa ha già sbagliato a fare Fratelli d’Italia. Lui lo sa, gliel’ho detto. Io non capisco che stanno facendo tutti, tutti soli, uno contro l’altro. Roba da pazzi».
Berlusconi è finito secondo lei?
«Ha un sex appeal con il popolo che non va sottovalutato. La gente continua a ripetere che Berlusconi è vittima di una persecuzione. Mi dica lei?»
Marta Moriconi
(da “Intelligo news”)
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Ottobre 24th, 2013 Riccardo Fucile
LA PROVA NEL VERBALI E NELLE LETTERE DELL’ACCUSA: COSI’ COMPRO’ DE GREGORIO E RICATTO’ IL CAVALIERE
È Valter Lavitola l’uomo chiave della compravendita dei senatori che sarebbe stata ordinata da Silvio
Berlusconi.
Nell’aula 213 del tribunale di Napoli, trova conferma la ricostruzione dei pubblici ministeri Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli che nel loro atto di accusa lo avevano definito «intermediario e autore materiale delle specifiche e plurime consegne di denaro in contante».
E la tesi passa anche grazie alle indagini effettuate dal Nucleo Tributario della Guardia di Finanza guidato dal colonnello Nicola Altieri sulla tentata estorsione del faccendiere nei confronti del Cavaliere e per la quale è già stato condannato a 2 anni e 8 mesi.
«L’uomo di Stato»
Sono proprio quelle carte processuali, depositate durante l’udienza di ieri, a dimostrare quanto forte sia sempre stato il legame Lavitola-Berlusconi e soprattutto quanto alto il livello di minaccia che il primo poteva esercitare sul secondo.
Perchè, come sottolinea il giudice Francesco Cananzi che ha inflitto la pena al termine del rito immediato, «il ruolo di Lavitola emerge quale persona “vicinissima” al Presidente, un uomo di Stato in incognita che favorisce affari e incontri, ma soprattutto si muove con arroganza e disinvoltura ».
La prova, secondo il giudice, è in quelle lettere, preparate e mai recapitate, che Lavitola aveva scritto a Berlusconi per chiedere un «prestito» da cinque milioni e nelle quali sottolineava che cosa «ho fatto per lei».
Ma soprattutto ricordava che cosa fosse accaduto nel 2008 per far cadere il governo guidato da Romano Prodi: «Subito dopo la formazione del governo lei, con Verdini e Ghedini presenti, mi disse che era in debito con me e che lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie della procura di santa Maria Capua Vetere e, assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a tentare di comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».
«Sa cose compromettenti»
Secondo il giudice Lavitola ha sempre cercato di «accreditarsi come consigliere e informatore delle vicende giudiziarie, tanto da aver trasmesso a Berlusconi una nota riepilogativa sulle vicende della cosiddetta loggia P4».
Ma non è soltanto questo il suo ruolo e soprattutto il suo atteggiamento, soprattutto se si esaminano le dichiarazioni rilasciate dalle persone che tra il 2011 e il 2012 gli sono state più vicine, in particolare durante la latitanza.
Uno dei «fedelissimi» è certamente l’imprenditore italo-argentino Carmelo Pintabona, che incontrò due volte Berlusconi proprio per trasferirgli le istanze di Lavitola e per questo finì sotto processo, ma poi è stato assolto.
In alcune telefonate intercettate nell’estate 2012 Pintabona racconta all’amico Francesco Altomare proprio quanto accade tra Lavitola e Berlusconi, sia pur con frasi allusive.
Il 10 agosto 2012 i magistrati decidono convocano Altomare per avere chiarimenti. E lui a verbale dichiara: «Pintabona mi ha detto che ha avuto rapporti istituzionali con il presidente Berlusconi nella sua qualità di presidente della Federazione dei Siciliani in America Latina. So che è anche amico e in rapporti di affari con Lavitola. Pintabona mi ha detto che Lavitola era a conoscenza di fatti e vicende compromettenti sul conto del presidente Berlusconi e che per tale motivo, e cioè per non rivelare tali particolari compromettenti che avrebbero “rovinato” lo stesso Berlusconi, pretendeva il versamento di ingenti somme di denaro, nello specifico di 5 milioni di dollari. Pintabona mi ha detto che Lavitola esercitava pressioni su Berlusconi. Ricordo che in più di un’occasione Pintabona mi ha detto che Lavitola “teneva Berlusconi per le palle”».
«Onore e disciplina»
Le carte processuali raccolte negli ultimi due anni dai pubblici ministeri partenopei e soprattutto le confessioni di De Gregorio, hanno convinto il giudice sul fatto che Berlusconi gli abbia effettivamente versato soldi.
Ma non era affatto scontato che venisse ritenuta valida la contestazione del reato di corruzione, tenendo conto che esiste il «libero convincimento dei parlamentari» e dunque non è facile dimostrare il collegamento tra versamento di denaro e voto espresso su un provvedimento di legge o sulla fiducia al governo.
Non a caso, durante la sua requisitoria, Woodcock ha equiparato il parlamentare al giudice che agisce seguendo appunto il libero convincimento e, come dimostrano numerose sentenza già passate in giudicato, quando accetta soldi viene certamente ritenuto «un corrotto».
Ma poi ha puntato sull’articolo 54 che «impone a chi è titolare di una pubblica funzione di agire seguendo comportamenti di onore e disciplina e dunque hanno divieto di accettare denaro da terzi».
Nessuno, ha evidenziato il pubblico ministero, «può negare che un deputato o un senatore non siano inseriti nei ranghi della pubblica amministrazione» e dunque non debbano attenersi a queste regole ferree per la cui violazione è previsto un reato specifico.
Fiorenza Sarzanini
(da “il Corriere della Sera“)
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