Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
IL PREMIER TEME L’INCENDIO SUL QUIRINALE
“All’indicazione del candidato al Colle voglio arrivare col Pd unito. Il nome lo voglio e lo devo concordare con la minoranza. Il mio atteggiamento, anche dopo quello che è successo sull’Italicum è di massima apertura”.
L’obiettivo di Matteo Renzi adesso è ricucire a sinistra.
Provare a recuperare se non tutta la minoranza, almeno il grosso del corpaccione bersaniano. Per questo, nel corso della segreteria del partito al Nazareno allargata alla delegazione che incontrerà gli altri partiti, fa capire che il giro di incontri inizia col Pd e finisce col Pd.
Da quando si riuniranno i gruppi alla Camera lunedì a quando, giovedì, dall’assemblea dei grandi elettori uscirà “il nome”.
In mezzo gli incontri con gli altri partiti nei quali Renzi sarà presente a capo della delegazione, di cui fanno parte i vicesegretari Guerini e Serracchiani, i capigruppo Speranza e Zanda e il presidente del Pd Matteo Orfini: “Vedremo tutti, anche i grillini”.
Ma c’è soprattutto un “faccia a faccia” a cui lavorerà il premier-segretario questo week end, il primo totalmente dedicato a “mettere la testa sul Quirinale”, come dicono i suoi: quello con Pier Luigi Bersani.
È l’ex segretario lo snodo della partita.
Perchè la verità è che Renzi è rimasto impressionato dall’entità della “fronda”.
I suoi per giorni gli avevano assicurato che “sarebbe rientrata” e che sarebbero rimasti quattro gatti. Anzi, “dieci” secondo le previsioni del Nazareno.
Invece al Senato la falla si è aperta davvero. Prima i 29 senatori che hanno votato contro i capilista bloccati. Poi la riunione dei 140, con Bersani.
Infine giovedì al Senato è stato bocciato l’emendamento Finocchiaro sulla legge elettorale, mossa letta come un segnale “politico”: “Quell’emendamento — dice un renziano di ferro — nel merito la minoranza lo condivideva, lo ha bocciato per mandare un segnale sulla candidatura Finocchiaro al Colle”.
Eccolo il rischio che adesso preoccupa Renzi: che di fiammata in fiammata si determini sul Quirinale l’incendio, “una situazione come quella dell’altra volta”.
È un bivio quello che gli si apre davanti alla vigilia dell’ultima settimana prima delle apertura delle urne presidenziali: “O ci ignora — dice un alto in grado della minoranza – e punta su accordo con Berlusconi alla quarta votazione, schema Italicum, ma poi certifica la rottura in modo insanabile. Oppure cambia schema proponendo un nome potabile per noi, ma a quel punto lo sa solo lui che succede con Berlusconi e Verdini”.
Al momento, al netto dello spin che trapela dal Nazareno, pare che Renzi voglia davvero recuperare il grosso del corpaccione bersaniano.
E seguire quello che i suoi chiamano “modello jobs act”, quando aprì a Speranza per isolare Fassina, D’Attorre e Cuperlo.
Per ora il faccia a faccia con Bersani non è in agenda perchè l’aria, tra i due, è pessima.
Pare che con l’ex segretario ci sia stato più di un incontro nelle scorse settimane e comunque più di un contatto, ma che le distanze sono rimaste immutate.
Ora il recupero dei bersaniani passa dall’uso della ragione ma anche della forza.
La ragione porta a mandare segnali distensivi a Bersani. La forza a far capire che il voto sul Quirinale è un voto pesante, che avrà conseguenze sul futuro.
In parecchi, dentro il Pd, temono che la famosa “lista” di Lotti, lasciata trapelare sui giornali, non è solo la lista dei “sicuri”, “degli incerti” e dei “contrari” sul Quirinale ma anche un avvertimento implicito su chi saranno i “sicuri”, gli “incerti” e i “non candidabili” nelle prossime liste elettorali. Vero o falso che sia, il sospetto è indicativo del clima.
Ed è proprio nell’opera del “recupero” con le buone o con le cattive che a palazzo Chigi era partito il conteggio su Anna Finocchiaro, perchè gradita a Berlusconi e sulla carta apprezzata dalla minoranza.
Sulla carta, perchè poi — giovedì — al Senato è arrivato il “segnale” ostile sul suo emendamento. Sia come sia lo schema che prende forma nella testa di Renzi è proporre uno del Pd, proprio per evitare l’incendio.
Perde invece assai quota la candidatura di Amato: i sondaggi, cui il premier è molto sensibile, segnalano che è la scelta più impopolare e che sarebbe vissuta come la rottamazione della rottamazione.
Tra i nomi su cui Matteo ha chiesto di fare delle verifiche in giro c’è quello del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che vanta anche ottimi rapporti con Confalonieri sin da quando ricoprì l’incarico di ministro delle Comunicazioni del governo Prodi. Chissà .
Ad Arcore, lo schema è diverso: “Dopo il sacrificio fatto, Berlusconi tiene il punto su Amato. Quindi se ci viene proposto uno di sinistra alla prima, noi non ci stiamo. Se la situazione si incarta sui nomi di garanzia e si passa ai profili politici allora si cambia rosa e ci si confronta sulla nuova”.
E tra i profili politici ad Arcore si è molto parlato di Walter Veltroni, stimato anche lui da Letta e Confalonieri.
Quello che risulta agli ambasciatori del Cavaliere è che il problema sugli ex segretari del Pd ce l’ha Renzi.
Mentre sui componenti del governo il problema ce l’ha Berlusconi.
A meno che il premier non voglia spalancargli le porte dell’esecutivo.
Eventualità che, al momento, non esiste.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
DOVREBBERO AVERNE 93, INVECE SE NE CONTANO ANCORA 1.153 …E IL LIMITE DEL 5% RESTA LONTANO
Palazzo Chigi ne ha a disposizione ancora 15, dieci più del limite che ha imposto per legge a tutte le
amministrazioni pubbliche.
E per una di troppo, proprio quella a disposizione di Renzi, bisticcia pure con i magistrati della Corte dei Conti.
Il dicastero della Difesa, del resto, ne ha in dotazione ancora 361, comprese tre Maserati volute da Ignazio La Russa che nessuno s’è sognato di acquistare, aderendo all’operazione di asta su ebay che fu tra i primi colpi ad effetto del governo.
E tra i primi flop.
E’ come sparare sulla Croce Rossa, d’accordo. Ma tocca tornare sulla piaga delle auto blu, il più odiato tra i simboli del privilegio e il più difficile — a quanto pare — da estirpare. La scorsa primavera il governo aveva promesso un taglio risolutivo allo spreco, imponendo massimo cinque auto — ad uso esclusivo o non esclusivo — per ogni ministero o amministrazione centrale dello Stato con oltre 600 dipendenti.
Un tetto che scende a 4 mezzi se i dipendenti sono compresi tra le 401 e le 600 unità , a 3 tra i 200 e i 400 per arrivare a una sola auto per le amministrazioni fino a 50 dipendenti.
Sembrava la svolta buona.
La stretta è stata decisa ad aprile col decreto Irpef (legge n. 66/2014).
“Vuol dire semplicemente che i sottosegretari andranno a piedi”, twittava Renzi.
Il tempo ha però messo le ganasce alle buone intenzioni e la rottamazione delle auto pubbliche è andata avanti col freno tirato: quelle blu e grigie erano 55.286 al primo gennaio 2014, a novembre (ultimo dato disponibile) se ne contavano 4.210 in meno.
Ma parte dello sforzo, per così dire, veniva poi vanificato dal concomitante acquisto di 1.276 vetture nuove di pacca, come rivelato dal Ilfattoquotidiano.it tra polemiche, interrogazioni parlamentari e funambolici tentativi di negare il paradosso di uno Stato che deve vendere e invece acquista.
I numeri, alla fine, sono questi: la riduzione si ferma a quota 2.934, il saldo a 53.860 che significa ancora una ogni mille italiani.
E i conti sono presto fatti: ai 95 milioni di risparmio stimato dai tagli fin qui operati ne andranno sottratti 70 milioni, quanto il valore della convenzione d’acquisto.
Il beneficio reale sarà dunque di 25 milioni.
Più che di tagli, visto il miliardo e passa l’anno che ancora si spende per questa voce, sarebbe più corretto parlare di limature.
In alcuni comparti dello Stato, poi, il giro di vite non è mai cominciato.
I ministeri, ad esempio, sono lontani anni luce dal limite di cinque vetture che corrisponde a 93 auto in tutto, non una di più.
Nei loro parcheggi, tra possesso e noleggio, si contano oggi ben 1.153 auto blu: 814 alla Giustizia, 174 alle Politiche agricole, 33 ai Beni culturali, 16 agli Esteri, 14 alla Salute e così via.
A nove mesi dal decreto che doveva asfaltarle, dunque, siamo a 1.060 di troppo.
E’ pur vero che tra gennaio e novembre, calcola il Formez, tra i ministeri se ne contano 209 di meno.
E che quelle di servizio sono scese da 2.126 a 1.710 (-416).
Di questo passo però, al ritmo del 15% e del 19%, serviranno altri quattro anni per centrare la riduzione prevista, proprio quanto manca alla fine della legislatura.
A pensar male si potrebbe perfino dubitare che sia una coincidenza, quanto un calcolo per assicurarsi l’uscita di scena col botto: “cari italiani, noi siamo quelli che hanno rottamato le auto blu”.
Comunque sia il governo ci tiene. Infatti ha avocato a sè alcune delicate competenze in materia.
Dal 31 dicembre — ad esempio — non è più il Formez, struttura tecnica esterna, a curare la comunicazione dei dati del censimento.
I numeri li dà il ministero della Funzione pubblica, cioè il governo. Chi volesse sapere come vanno le rottamazioni deve passare da Palazzo Chigi.
L’impresa al momento si rivela alquanto complicata: sarà la “migrazione” tra uffici, ma al vecchio numero di help desk per le amministrazioni (06.82888731) non risponde nessuno, e neppure all’indirizzo autoblu@governo.it. Non solo.
Il governo ha deciso per legge di rendere annuale anzichè mensile l’aggiornamento dei dati.
I gufi dovranno dunque armarsi di pazienza: se i numeri non saranno esaltanti dovranno aspettare 12 mesi. Salvo che le cose vadano bene, è inteso.
Perchè allora sarà un fiorire di comunicati, slide e conferenze stampa.
Nel frattempo rimandi e dilazioni hanno già allargato il solco tra annunci e fatti.
“Ora tutti a piedi alle riunioni”, aveva scherzato il ministro Madia il 25 settembre annunciando di aver finalmente chiuso il decreto di attuazione della legge di aprile.
Forse era sano ottimismo, visto che il suo ministero ha impiegato sei mesi per approntare i quattro articoli (quattro!) che mettono nero su bianco le regole che disciplinano la progressiva riduzione delle auto blu.
Ne passeranno poi altri tre prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, che avverrà solo l’11 dicembre.
La gestazione del provvedimento, del resto, è stata segnata da qualche incidente di percorso.
Uno ha investito direttamente la Presidenza del Consiglio, alla quale la Corte dei Conti ha mosso rilievi.
Il testo del decreto attuativo si premurava di specificare (art. 2 comma 2) che in aggiunta alle cinque vetture ad uso non esclusivo alla Presidenza e ai ministri “potrà essere assegnata un’ulteriore autovettura in uso esclusivo”, lasciando così intendere che il limite fosse derogabile.
Colto sul punto, Palazzo Chigi sarà costretto a chiarire che le due disposizioni vanno lette insieme a sommatoria: non ci sarà dunque una deroga ad uso del governo.
La stessa sforbiciata, nel testo finale, è stata oggetto poi di una diluizione a scaglioni progressivi: le amministrazioni con 50 vetture a carico dovranno adeguarsi entro due mesi, quelle fino a 100 entro giugno, oltre questo limite a fine anno.
Così, senza dare troppo nell’occhio, la poderosa riduzione è slittata al 31 dicembre 2015.
La partita, dopo nove mesi, deve ancora cominciare.
Entro metà febbraio il primo blocco di amministrazioni — quelle sotto i 50 dipendenti — sarà chiamato a rispettare i nuovi tetti e liberarsi del fardello, vendendo le auto di troppo o cedendole gratuitamente alle onlus riconosciute.
Che lo facciano davvero non è scontato.
La sanzione per chi non si adegua infatti è limitata a un taglio del 50% delle spese ammesse per auto di servizio rispetto a quanto utilizzato nel 2013.
Non ricade direttamente sulle tasche dei dirigenti, non incide sui loro premi di risultato. Il ministro Madia si dice convinta del contrario: “Adesso nessuna amministrazione può tirarsi indietro e già entro due mesi vedremo i primi risultati di rilievo destinati a diventare ancora più rilevanti nel corso del 2015”, ha detto ostentando fiducia nel deterrente.
Per sapere chi ha ragione tocca aspettare.
E scrutare il parcheggio.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
IL VIAGGIO DELLA SPERANZA DELLA SINISTRA ITALIANA
La sirena di Alexis Tsipras chiama. La Brigata Kalimera (come si sono auto-battezzati con un filo d’ironia) risponde.
«Abbiamo cominciato quasi per scherzo per sostenere i nostri vecchi amici di Syriza — racconta Raffaella Bolini, l’organizzatrice di questo strano viaggio della speranza della sinistra italiana. Poi tutto è andato oltre le nostre previsioni».
Sotto lo striscione “Kalimera Grecia, Kalimera Europa” in piazza Omonia, di fronte al palco da cui parla il favorito numero uno delle elezioni elleniche, si sono trovati in duecento.
Politici d’esperienza come l’ex ministro Paolo Ferrero («E’ la prima volta da Maastricht che c’è una vera alternativa nel Vecchio continente»).
Volti storici come quello di Luciana Castellina e facce più giovani come Eleonora Forenza, parlamentare europea della Lista per Tsipras.
Ma anche decine di ragazzi e diversamente ragazzi arrivati qui — come dice Carlo, studente di 23 anni di Perugia — «perchè guidati dalla certezza che il voto in Grecia è l’unica occasione per cambiare».
E perchè qui – come ammette Bolini – «si sta mettendo un piccolo mattone per provare a costruire la nuova casa comune della sinistra italiana».
In piazza risuonano le note di “O Bella Ciao”, versione rock dei Modena City Rambler. «Tsipras? Mi ricordo di lui nel 2001, quando ha cercato di arrivare a Genova per il G8 ed è stato fermato a manganellate ad Ancona dalla polizia », racconta Bolini.
«Allora noi eravamo più avanti, ora ripartiamo da zero», ammette Ferrero.
Qui sotto lo striscione in Omonia, sono convinti tutti che a sinistra di Renzi ci sia spazio per creare una Syriza tricolore.
C’è il caso Cofferati, ci sono i venti di scissione nel Pd. Il toto-Brigata Kalimera dà in arrivo sotto il Partenone Stefano Fassina e Beppe Civati.
«Nei prossimi due mesi la sinistra si ricomporrà — è convinto Ferrero — arriveranno in tanti e metteremo sotto la Merkel».
Facile dirlo nella tiepida serata ateniese. Con migliaia di persone che applaudono il tandem anti-troika “Tsiglesias”, come qui chiamano Tsipras e Pablo Iglesias, leader di Podemos.
«La lezione di Syriza è che per vincere bisogna rimanere uniti» dice Bolini, che non ha dimenticato le mille scissioni e i partitini personali che hanno segnato la storia recente della sinistra tricolore. Intanto si riparte dalla Brigata Kalimera.
«Domenica — conclude Carlo sfidando la scaramanzia— sarà davvero una buona giornata per la Grecia e per l’Europa ».
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
DALLO SDEGNO PER IL CASO RUBY ALLE PAROLE DI FUOCO SULLE LEGGI AD PERSONAM, POI ARRIVà’ LA DECADENZA… “ORMAI È IRRILEVANTE”, E COSàŒ L’HANNO RESUSCITATO
Non è necessario tornare ai tempi delle leggi ad personam, del conflitto di interessi, delle telefonate in
Procura per salvare la nipote di Mubarak.
Basta riavvolgere il nastro di un paio d’anni scarsi.
Quando Berlusconi era stato costretto alle dimissioni e ai democratici pareva finita un’era.
Quando la condanna in Cassazione lo aveva fatto decadere dal Senato e ai più sembrava che il futuro lo avrebbe trascorso all’ospizio di Cesano Boscone.
Invece, più arzillo che mai, Berlusconi l’altro ieri ha tenuto in piedi il governo Renzi con il voto sull’Italicum. E il patto del Nazareno condiziona ormai in maniera stabile riforme, programmi e la prossima elezione del Capo dello Stato.
Ma a rileggere le dichiarazioni di molti esponenti Pd di fede renziana, la resurrezione del leader di Forza Italia non era un’ipotesi messa da conto.
“In un qualsiasi Paese dove un leader politico viene condannato con sentenza definitiva, la partita è finita: game over”, diceva lo stesso Matteo Renzi l’11 settembre del 2013, velocissimo a precisare che, comunque, “non bisogna avere puzza sotto il naso per chi lo ha votato”.
Ma il nuovo corso democratico, assieme alla legittima aspirazione a cercare voti nello schieramento avversario, si è preso il pacchetto completo. Berlusconi in testa.
Per questo, alle donne del Pd, per esempio, andrebbe ricordato con chi si sono messe in affari: “un uomo con una vita sessualmente promiscua e moralmente discutibile” (Debora Serracchiani), un “puttaniere” (Pina Picierno), un “vecchio satiro compulsivo” (ancora Serracchiani), un “maiale” (Alessandra Moretti).
All’attuale ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, per anni responsabile Comunicazione del Pd, varrebbe la pena riproporre le parole di fuoco contro la legge Gasparri e le nomine che erano “un’umiliazione per la Rai”.
Ad Andrea Orlando, già responsabile Giustizia, fischieranno le orecchie a ripensare alle quotidiane accuse di Silvio, “insofferente ai ruoli di garanzia previsti dalla nostra Costituzione”.
Dario Franceschini, quando ancora poteva, si prodigava in battute: “Dice di essere il leader più popolare del mondo? In effetti piace molto anche negli altri pianeti”. Matteo Orfini lo chiamava “statista solo sui teleschermi”.
Poi, a fine 2013, si era convinto che fosse “politicamente irrilevante”.
Dev’essere per quello che gli hanno aperto la porta di casa.
Paolo Zanca
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
MARCHI TENACI E INDIPENDENTI CONTRO LA DITTATURA SOFT DEL MERCATO
Se l’Italia – nonostante la crisi e tante indecenze, improvvisazioni e incompetenze – sopravvive con tenacia e vitalità , lo si deve non ai padroni del vapore – spesso incapaci e truffaldini pachidermi di Stato o del grande capitale, che moltiplicano zeri alla fine equivalenti realmente a zero – bensì alle piccole imprese e ai lavoratori, sempre a rischio di essere soffocati e derubati da quella schiuma di zeri.
È la piccola impresa il nucleo del vero liberismo – inseparabile dal liberalismo, come sosteneva Einaudi nella famosa discussione con Croce, e inconciliabile con ogni monopolio, pubblico o privato.
La vita del piccolo imprenditore spesso non è più facile di quella dei suoi dipendenti e la sua, la loro lotta per sopravvivere si fa sempre più difficile.
Ciò vale pure per la piccola e medio-piccola editoria, spesso coraggiosa e pionieristica nelle sue iniziative e nelle sue scelte, sempre più in difficoltà non solo e non tanto con i costi di produzione quanto con i problemi di distribuzione, con la fatica di far conoscere la propria attività e i propri libri, di portarli a conoscenza dei lettori e di renderli visibili in libreria, dove sono schiacciati dalle pile dei libri – poco importa se buoni o no – più pubblicizzati.
Purtroppo nell’editoria quel predominio e quella dittatura dell’offerta sulla domanda sono totalizzanti e distruttivi.
Non si legge ciò che si desidera, ciò che si pensa corrisponda ai propri gusti e alle proprie inclinazioni, ma ciò che viene imposto.
Più efficace dei regimi totalitari, il mercato si impone soft e inesorabile.
Pochi cercano i samizdat ovvero quei libri che oggi sono i nuovi samizdat , pochi seguono le proprie passioni.
È difficile comperare e dunque leggere un libro che non si sa che esiste.
Io mi sono procurato a fatica un capolavoro letterario come Il quarto secolo di à‰douard Glissant, edito dalle Edizioni del Lavoro – e difficilmente reperibile sul mercato – nella splendida traduzione di Elena Pessini.
Purtroppo un altro capolavoro della letteratura contemporanea mondiale,
Notizie dall’impero di Fernando Del Paso – un vastissimo e geniale affresco narrativo, innovatore nel linguaggio e nella struttura, cui anche personalmente devo alcune illuminazioni essenziali, tradotto splendidamente da Giuliana Dal Piaz – è stato pubblicato dalla casa editrice Imprint-Profeta di Napoli e temo che, a differenza di quanto è accaduto in tanti altri Paesi, non abbia quasi raggiunto le librerie.
Si potrebbero fare molti esempi.
Se Diabasis fosse una grande anzichè media casa editrice, Il signor Kreck di Juan Octavio Prenz sarebbe probabilmente uno dei libri del giorno.
La splendida versione di Renata Caruzzi di un testo capitale e arduo come Le Elegie Duinesi di Rilke, pubblicata dalla piccola casa editrice Beit, o la preziosa edizione del saggio di Hannah Arendt e Gà¼nther Stern-Anders sulle medesime elegie curata da Sante Maletta per la piccola editrice Asterios sarebbero probabilmente sfuggite anche a me se quelle case editrici non fossero triestine
Gli esempi potrebbero e dovrebbero continuare, perchè farne solo alcuni è ingiusto verso gli altri.
Una di queste meritorie e creative case editrici che sono nell’ombra più di quanto meriterebbero sono le edizioni Hefti, cui si deve una preziosa mediazione della letteratura soprattutto croata ma anche più in generale balcanico-adriatica, con particolare attenzione a quel grande dialogo di secoli passati tra le due sponde di quel mare, che vedeva poeti che si chiamavano Marko Maruli ma anche Marco Marullo e non certo, come in sciagurati secoli successivi, per snazionalizzazione imposta dagli sciovinismi, ma per un libero dialogo che vedeva questi poeti di Spalato, di Curzola, di Traù scrivere in croato come in latino e in italiano, nutrirsi del petrarchismo e trasferirlo nella propria lingua e nella propria tradizione, in un reciproco scambio e arricchimento.
Le edizioni Hefti hanno operato in questa direzione, facendo conoscere eccellenti narratori moderni e contemporanei (per esempio Ranko Marinkovic o Slobodan Novak con le loro storie marine o Predrag Matvejevic, con la prima edizione italiana del suo Breviario mediterraneo ).
Allo stesso tempo hanno fatto conoscere il fiorire di traduzioni croate di Dante o Petrarca o italiane di Krleža, spesso grazie al lavoro di Ljiljana Avirovic, straordinaria traduttrice dall’italiano in croato e dal croato o dal russo in italiano, con una doppia valenza che è già realtà concreta di quel dialogo fra culture.
Ma le edizioni Hefti hanno pubblicato ad esempio pure una grammatica della lingua croata di Marina Lipovac Gatti e una folta Antologia della poesia croata contemporanea , curata anch’essa da Marina Lipovac Gatti, che permette di fare i conti a fondo con la travagliata, vitale, drammatica letteratura di un Paese che ha vissuto, come in un concentrato, le lacerazioni e le tragedie d’Europa.
Una vera gemma è la Judita di Marco Marulic, edita nella ristampa della II edizione del 1522 e nella versione italiana (con testo a fronte) di Lucia Borsetto, che rende con forza poetica questo testo che si affianca alle altre grandi Giuditte – l’eroina biblica che salva il suo popolo uccidendo Oloferne – della letteratura europea, a cominciare da quella del grande tragico barocco italiano Federico Della Valle.
Sì, forse una volta, in quei secoli cui si guarda dall’alto del nostro progresso, esisteva l’Europa, che ora sembra sfaldarsi.
Claudio Magris
(da “il Corriere della Sera”)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
SESTUPLICATE IN 5 ANNI LE RICHIESTE PER I DOCUMENTI
Mettono lo stetoscopio in valigia e se ne vanno.
Scappano da un Paese dove per loro non c’è lavoro, malgrado le carenze di personale negli ospedali facciano pensare il contrario.
Scappano dal precariato, da stipendi bassi e mai sicuri, da baroni che spadroneggiano in corsia e pazienti dalla causa facile.
E scappano in numero sempre maggiore.
In appena cinque anni i medici italiani che hanno chiesto al ministero della Salute i documenti necessari per ottenere un impiego all’estero sono sestuplicati. Erano 396 nel 2009, sono stati la bellezza di 2.363 nell’anno appena concluso, che ha segnato un vero boom di espatri.
Nel 2013 infatti avevano fatto la domanda in meno della metà : mille. E questi numeri tengono conto solo di chi si è trasferito nei Paesi, prevalentemente europei, che richiedono all’Italia un certificato che confermi laurea ed eventualmente specializzazione. Chi va a lavorare altrove, ad esempio in Sud America oppure in Africa, sfugge ai calcoli del ministero
C’è qualcosa che non torna nel sistema di formazione e di arruolamento dei medici nel nostro Paese.
A dirlo, prima ancora dell’esodo di giovani uomini e donne che hanno impiegato fino a 11 anni della loro vita per diventare bravi professionisti, è la matematica.
Ogni anno in Italia si laureano circa 10 mila camici bianchi, che subito dopo aver discusso la tesi si trovano davanti il primo imbuto.
I posti nelle scuole di specializzazione sono solo 5mila (dovrebbero essere un po’ di più l’anno prossimo), altri mille sono quelli per il tirocinio di vuole diventare medico di famiglia. In 4mila dunque restano fuori.
Così si mettono a fare le guardie aspettando di provarci l’anno successivo oppure vanno all’estero.
Ma anche chi è riuscito ad entrare in una scuola e a concludere il percorso formativo si trova davanti un grosso problema.
Nelle aziende sanitarie ed ospedaliere pubbliche da tempo un blocco del turn over che riduce le assunzioni al lumicino. E infatti nei reparti italiani i camici bianchi sono circa 5mila in meno rispetto al 2009.
Le carenze denunciate dai sindacati dei medici si comprendono bene in periodi come quello che stiamo attraversando, con l’influenza che batte e i pronto soccorso che scoppiano per il grande afflusso di pazienti.
«Vanno tutti via perchè il nostro sistema formativo non dà garanzie e oltretutto le opportunità lavorative e formative all’estero sono migliori». È laconico il commento di Federspecializzandi, l’associazione che raccoglie i giovani medici che stanno facendo la formazione post laurea.
«Negli altri Paesi si sono resi conto che da noi ci sono molti colleghi già formati che cercano lavoro – conferma Carlo Palermo, vice segretario di Anaao, il sindacato più importante dei medici ospedalieri – E infatti assistiamo alle pubblicità , veicolate attraverso riviste specializzate ma anche social network, di Francia, Germania e Inghilterra che invitano i nostri giovani ad entrare nei loro sistemi sanitari».
La tendenza nei prossimi anni aumenterà , anche perchè all’estero “comprano” volentieri professionisti formati in Italia.
«Bisogna intervenire in vari modi per invertire questa tendenza – dice sempre Palermo – Intanto vanno aumentate almeno fino a 8mila le borse di studio per le specializzazioni, poi va riaperto il turn over dentro gli ospedali. Dall’altro lato devono essere anche ridotti per alcuni anni gli accessi alla facoltà di Medicina, anche per riassorbire gli incrementi di iscrizioni legati alle sentenze dei Tar, che hanno riammesso molti dei candidati scartati facendo crescere il numero degli iscritti in certi anni anche fino a 12mila».
Sono tante le strade che si potrebbero prendere ma bisogna fare presto.
Sempre più medici osservano l’Italia che cerca di uscire dall’empasse da centinaia o addirittura migliaia chilometri di distanza.
Michele Bocci
(da “La Repubblica“)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
VOLANO I TITOLI DELLE AZIENDE DI FAMIGLIA: I MERCATI SCOMMETTONO SUL NAZARENO
Quando c’è B. in circolazione bisogna essere pronti a metter la mano alla calcolatrice.
Le sue ambizioni da padre della Patria, raccontate da esegeti commossi e dipendenti impauriti, si misurano in euro.
La riconquista di un ruolo centrale nel quadro politico gli avrà dato tanta soddisfazione, ma soprattutto lo ha arricchito di 500 milioni in pochi giorni.
Piazza Affari, Marina e il segno “più
Mentre Matteo Renzi fa finta di essere quello che ha capito tutto e gli presenta le sue idee meravigliose, B. fa di sì, guarda paziente Denis Verdini che ammicca come a dire “guarda che cosino t’ho trovato a Firenze”, e poi chiama la figlia Marina e le dice di segnare i guadagni della giornata.
La Borsa, che ha più intelligenza politica di tutto il Parlamento, assiste alla scena e piazza i suoi colpi.
Martedì l’incontro tra Renzi e B. per definire gli accordi su legge elettorale ed elezione del presidente della Repubblica è stato salutato in Borsa da una consistente crescita di Mediaset e Mediolanum.
Mercoledì, dopo una mattinata in discesa, probabilmente attribuibile alle cosiddette prese di beneficio sui guadagni del giorno prima, ma anche alla turbolenza del Senato sulla riforma elettorale, alle 15:20, di colpo, Mediaset e Mediolanum, all’unisono, sono tornate a volare.
È il momento in cui arriva sui mercati la notizia più attesa, l’approvazione dell’emendamento-canguro del senatore renziano Stefano Esposito con i voti decisivi di Forza Italia.
È il momento in cui gli operatori di Borsa capiscono che B. è stato rimesso saldamente in sella dal giovane fiorentino.
Da quando è iniziata la sceneggiata quirinalizia, la saldezza del patto del Nazareno è stata misurata dai mercati finanziari, che hanno scommesso sull’intesa profonda e duratura tra Renzi e Berlusconi comprando i titoli del Cavaliere. Mediaset, di cui la Fininvest controlla il 40 per cento, e Mediolanum, che è di B. al 30 per cento, dai primi di gennaio a ieri pomeriggio sono cresciute in Borsa rispettivamente del 20 e del 14 per cento, pari a un miliardo e 300 milioni in tutto.
Il guadagno di B. e dei suoi figli, considerata la consistenza dei suoi pacchetti azionari, non è inferiore a 500 milioni, ed è stato realizzato in un paio di settimane.
A questo ritmo, B. avrebbe ogni convenienza a rendere perenne il potere di Renzi anche standosene all’opposizione, se in cambio ottiene guadagni per 2-300 milioni alla settimana.
Dalle parti di Arcore e di palazzo Grazioli amici e parenti di B. gongolano.
Dicono che finalmente è passata ed è stata premiata la linea della saggia Marina, figlia primogenita e presidente di Fininvest e Mondadori.
Basta con i falchi, basta con l’opposizione fuoco e fiamme dei Brunetta e delle Santanchè, gente convinta che Forza Italia sia ancora un partito politico di centrodestra e non una protesi lobbistica a protezione del malloppo del capo.
Con Renzi si dialoga, si fa l’opposizione per finta, ci si mette d’accordo.
Bankitalia, l’onorabilità e i diritti televisivi
Ma adesso si arriva al sodo.
Prima partita: Mediolanum.
Il colosso per la raccolta e gestione del risparmio fondato dall’amico Ennio Doris è rimasta la principale fabbrica di soldi del gruppo, visto che Mediaset annaspa nella crisi epocale della tv.
Ma la Banca d’Italia ha già intimato a B. di scendere sotto il 10 per cento del capitale perchè quella è la soglia imposta a chi è privo di onorabilità , che B. ha perso in seguito alla condanna per frode fiscale.
Il decreto salva-Silvio non è dunque utile solo al recupero della sua agibilità politica, oggetto indefinito e abbastanza inutile visto che il nostro riesce anche senza a determinare le sorti del Paese e a scegliere il presidente della Repubblica; ma anche e forse soprattutto a disobbedire alla Banca d’Italia e a tenersi le azioni Mediolanum.
Seconda partita: Mediaset Premium.
La pay-tv del Biscione se la passa male e ha disperatamente bisogno di denaro, anche perchè incombe la scadenza dei 700 milioni da pagare per i diritti tv della Champions League, e intanto Sky sta sbarcando in forze sul digitale terrestre.
Pier Silvio Berlusconi sta cercando di vendere un pacchetto di azioni a carissimo prezzo a Telecom Italia, che recalcitra ma è impegnata in una partita decisiva sul futuro suo e della sua rete: molto dipende dai soldi pubblici che Renzi vorrà metterci e dalle regole che vorrà dare per la nuova rete a larghissima banda. Sedendosi al tavolo dove si danno le carte per il Quirinale e non solo, Berlusconi può dunque contare su un ascolto quantomeno attento delle ragioni di Pier Silvio da parte del numero uno di Telecom Italia Marco Patuano.
Il conflitto di interessi e la nuova maggioranza
E così gli interessi di B., misurati in euro, entrano nel grande dibattito sulla legge elettorale e sulla corsa al Quirinale.
Tra i pochissimi a sollevare la questione, il senatore Pd Massimo Mucchetti, che al Senato ha denunciato come i conflitti d’interessi di B. siano tornati al centro della vicenda politica: “Come ha detto giustamente il senatore Tremonti per primo ieri e come tanti hanno ribadito poi, c’è una nuova maggioranza e questa nuova maggioranza è oggi emersa plasticamente”.
Ma guarda che peccato.
Proprio adesso che con Renzi il Pd ha finalmente battuto B. grazie all’idea geniale di non farsene ossessionare.
Giorgio Meletti
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
MA FITTO ATTACCA: “SONO ALLIBITO, STA SVENDENDO IL PARTITO A RENZI”
«Crisi pilotata» e ingresso al governo o tentare di far saltare tutto e «andare al voto col Consultellum». 
Due strade per una resurrezione politica fino a una settimana fa insperata e che ora invece Silvio Berlusconi sogna davvero o finge di sognare.
In entrambi i casi, con l’obiettivo mai rimosso di recuperare la piena agibilità politica.
Quelle due strade le descrive nei dettagli a tutti i dirigenti e i parlamentari che lo vanno a trovare a Palazzo Grazioli nelle 24 ore che hanno preceduto il suo rientro serale ad Arcore.
Il leader di Forza Italia dice di vedere rosa sul suo futuro personale e politico, è concentrato sulla partita cruciale del Quirinale, «perchè di Matteo non mi fido fino in fondo, dobbiamo stare attenti », ma è fiducioso di spuntarla anche su quel fronte.
«Fitto e i suoi non hanno capito niente, le condizioni sono cambiate e siamo tornati determinanti», dice commentando con stizza la conferenza stampa al vetriolo del capo dell’opposizione interna appena terminata.
A cena mercoledì e per tutta la giornata di ieri ha ripetuto la sua ultima analisi: «Vedrete che la sinistra pd romperà dopo il 29 e Renzi non sarà più in condizione di governare, gli serviranno i nostri voti per andare avanti ma dovrà passare attraverso una crisi pilotata e solo allora potrebbe esserci un nostro ingresso in un governo del Nazareno», spiega. Ragionamento che viaggia di pari passo con quello alternativo che l’ex Cavaliere ha fatto con i capigruppo e i fedelissimi andati a trovarlo.
La seconda via, appunto, che muove dalla convinzione che «con Angelino il dialogo ormai è ripartito» e che l’asse per il Colle con l’Ncd verrà rafforzato poi dall’alleanza sulle regionali.
Nella sua visione sarà solo il primo passo: «Se loro accettano di staccare la spina al governo per ricostruire un grande centrodestra, abbiamo l’occasione d’oro di far saltare l’Italicum e andare al voto col Consultellum».
Vorrebbe dire andare alle elezioni con un proporzionale puro (con le preferenze), senza premio di maggioranza e con la certezza quasi matematica di tornare in un governo di larghe intese con lo stesso Renzi.
In un modo o in un altro, l’approdo sarebbe Palazzo Chigi.
«Fitto sbaglia, perchè siamo tornati protagonisti» va così ripetendo anche il capogruppo Paolo Romani.
Fin qui la strategia sul futuro.
Ma gli stessi fedelissimi sanno che c’è molta propaganda nella nuova verve berlusconiana. Ottimismo seminato per incoraggiare i sostenitori del patto del Nazareno, nella prima ipotesi, e per convincere i nemici dell’Italicum che tanto si tornerà al voto col proporzionale, nella seconda.
Il ministro Ncd Maurizio Lupi passeggia in Transatlantico e non può trattenere una risata, quando gli viene chiesto del ritorno al fianco di Berlusconi.
«Piuttosto che far cadere il governo, facciamo entrare lui», scherza.
«Abbiamo il merito di aver tenuto la barra dritta sulle riforme al fianco di Renzi, costringendo Forza Italia ad accettare le modifiche, pena l’esclusione dal patto», si vanta. Tra i forzisti più polemici domina lo scetticismo.
«Berlusconi farebbe bene a stare attento, già sul Quirinale Renzi gli tirerà una “sola”, come si dice a Roma », mette in guardia il senatore Augusto Minzolini.
E altro che ricostruzione del centrodestra, spiega un agguerrito Daniele Capezzone: «Quand’anche ci riprovasse con Alfano, sarebbe comunque una mossa sbagliata, perchè nel frattempo lo stadio si è già svuotato, come dimostrano le ultime regionali in Emilia e Calabria».
Tutta la truppa di deputati e senatori vicini a Raffaele Fitto affolla la sala stampa di Montecitorio per la conferenza stampa del capocorrente.
Berlusconi fa di tutto per impedirla, lo chiama al telefono fino a un’ora prima per convincerlo a desistere. Invano.
Tacere dopo la reprimenda del leader contro i fittiani nell’assemblea di gruppo di mercoledì sarebbe apparsa una resa.
E allora l’eurodeputato rincara la dose, più tagliente del solito.
Conferma che lui e i suoi daranno battaglia dall’interno, nessuna scissione, ma sembrano già due pariti distinti. «Diciamo no al “Forza Renzi”, è una resa incondizionata ai desiderata del premier», le riforme secondo Fitto sarebbero un bluff che nasconde altro.
E allora, eccoli i “guastatori”: «Siamo qui per sgualcire e rendere inutilizzabili gli abiti blu di qualche nostro collega che già sogna di andare a giurare da ministro».
Sbagliato il ritorno con Alfano dopo un anno e sbagliato candidare Antonio Martino «per bruciarlo in un pomeriggio».
E proprio sul Quirinale Fitto avverte Berlusconi e i suoi, nessun voto a scatola chiusa da giovedì prossimo: «Ascolteremo, valuteremo, non accetteremo nomi comunicati all’ultimo minuto».
Quei 40 voti potrebbero venire a mancare, insomma.
«Noi non diciamo questo – ammicca Saverio Romano a fine conferenza – Ma di certo senza di noi non vanno lontano: se sommati ai 140 della sinistra pd, siamo abbastanza per vanificare qualsiasi candidatura eventualmente imposta da Renzi e Berlusconi».
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Gennaio 23rd, 2015 Riccardo Fucile
LA LISTA NERA PUBBLICATA DAL “FOGLIO”
“Io sono in segreteria. E riformista poi…”. Alessia Rotta, responsabile Comunicazione del Pd, a pieno titolo renzianissima, nella “Lista del Nazareno”, viene classificata come “area riformista, rischio”.
In Parlamento non si parla d’altro. Ma di cosa si tratta?
Il Foglio ieri pubblica un elenco di tutti i parlamentari democratici, schedati per corrente, ma soprattutto etichettati con un “ok”, un “no”, un “a rischio”.
Rispetto a cosa? Al voto per il candidato al Quirinale che verrà .
“Una lista che gira a Palazzo Chigi”, la presenta il quotidiano, che a Matteo Renzi e ai suoi fedelissimi è molto vicino.
Basti pensare che durante i mondiali Luca Lotti ci teneva una rubrica di calcio.
“È il pallottoliere di Lotti”, “è un pizzino”, “è piena di errori”, i commenti che ieri andavano per la maggiore.Ma soprattutto: “Gliel’hanno data”.
Ecco, chi? E perchè? Tutti gli indizi portano proprio al Sottosegretario, amico fraterno del presidente del Consiglio, che da settimane ormai conta e controlla.
E allora, sì: è una via di mezzo tra lista di proscrizione, “avvertimenti” e depistaggi. Ci sono alcuni “riconoscimenti”: Anna Ascani, per dire, è definita “lettiana”, ma “ok”. Ormai in realtà è decisamente renziana. O Francesco Russo, “renzian-lettiano ok”: in Senato ha lavorato per l’approvazione delle riforme.
Poi c’è Pier Luigi Bersani “a rischio”. Da notare “a rischio” pure la Finocchiaro: come dire, tutto è possibile se la sua candidatura decade.
“Io indipendente? Ma se sono bersaniano”, si schernisce un altro “a rischio”, come Andrea Giorgis.
“Antonio Misiani non è area riformista è un giovane turco”, corregge qualcuno.
E Lorenzo Guerini: “È tutto sbagliato. Mauro Guerra, area riformista, a rischio? Ma se vive con me. E Andrea Rigoni, area dem? È un gueriniano…”.
Fatto sta che ieri i parlamentari hanno passato la giornata a leggere, commentare, mandare rettifiche e correzioni al Foglio.
Chi si è trovato incasellato tra “i nemici” lavorando da “amico” si sente attenzionato, minacciato, messo sul chi va là .
Un passo falso sul Colle o su altro, ed ecco che il malcapitato esce dai giochi.
D’altra parte, Renzi non perdona.
La lista di proscrizione fa il paio con le accuse dirette di ieri.
Ecco Stefano Fassina: “Non è un segreto” che Renzi abbia guidato i 101 che bocciarono Romano Prodi.
“A differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie”. Lo riprende Guerini: “Una sciocchezza incredibile”. Pronto arriva il distinguo di Bersani, che pure nei mesi qualche accusa, seppur velata, magari per interposta persona l’ha lanciata: “È la sua opinione”, così commenta l’affermazione di Fassina.
“L’ho già detto, allora c’era chi non voleva Prodi, chi non voleva Bersani. Si sono saldati. Ora andiamo avanti, l’importante è che quella cosa non la facciamo più”. “Bersani ha detto una cosa giustissima”, commenta un renzianissimo.
Corteggiamenti. Tira una brutta aria tra i dem: anche ieri alla Camera e al Senato in 35 (da Bindi a Bersani e Cuperlo) non votano l’articolo 2 della riforma costituzionale, mentre continua la battaglia della minoranza contro l’Italicum al Senato, in particolare contro l’emendamento Finocchiaro.
Ma la strategia che sta cercando di mettere in campo il segretario-premier è chiarissima: “Ma no che non è tutto deciso con Berlusconi. Matteo coinvolgerà Bersani. E tutto andrà per il meglio”, dicono i suoi.
Più che convinzioni, sembrano depistaggi. Anche se dal canto loro, Alfano e Berlusconi dubitano della parola di Matteo.
È il giorno della fuffa, perchè, con il riavvicinamento di Ncd e Forza Italia, le larghe intese sono già nei fatti, con tanto di ministri del centrodestra.
E il partito della nazione è un processo inarrestabile, che Renzi ha già teorizzato.
Però, c’è un però. Il premier non può far passare il fatto che Amato sia un candidato imposto da Berlusconi.
Ecco “salire” la Finocchiaro: offerta ai bersaniani, che non potrebbero non votarla, contro il volere dello stesso Bersani.
Ed ecco far girare ad arte il nome di Delrio: un modo per coprire l’asse del Nazareno (o per chiarire a B. che Matteo si tiene le mani libere).
Ieri Renzi ha riunito al Pd il coordinamento per l’elezione al Colle: i vicesegretari Guerini e Serracchiani, il Presidente Orfini, i capigruppo Zanda e Speranza. Carte coperte, da parte di tutti. Si è parlato di metodo, che prevede segreteria oggi, assemblea dei gruppi di Camera e Senato lunedì e incontri con gli altri partiti.
Renzi sa che provare a far passare un candidato al primo colpo è molto pericoloso.
Ma che lo è anche farlo al quarto: le fronde potrebbero coalizzarsi su un nome, che poi diventerebbe vero.
Si ipotizza di andare per i primi scrutini su un candidato di bandiera.
E poi? Le soluzioni che ha in mente il premier sono 5 o 6. Lui lavora sulle soluzioni “win-win”. E dunque, si sta preparando a più schemi di gioco.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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