Marzo 16th, 2015 Riccardo Fucile
E C’E’ CHI E’ RIUSCITO AD ATTRAVERSARE L’INTERO ARCO POLITICO… IL RAFFRONTO CON I GOVERNI BERLUSCONI E MONTI
“Metà stipendio a te che cambi gruppo” parlamentare. O peggio: non sei più d’accordo col tuo partito?
“Allora ti dimetti e decadi”.
Se “tradisci” dopo che sei stato candidato ed eletto, devi mollare subito la poltrona e uscire dal Palazzo alla svelta.
I tentativi di punire chi scavalca lo steccato fioccano.
Oggi, dinanzi a un Pd attrattivo e pigliatutto, Movimento 5 Stelle e Lega Nord continuano a insistere all’unisono sulla necessità di introdurre il vincolo di mandato di cui tanto si discute. Il motivo è quel “trasformismo galoppante” nato già nel Regno d’Italia ai tempi di Depretis.
In merito, la Costituzione si esprime in maniera netta nel suo articolo 67 che esclude qualsiasi tipo di ripercussione su deputati e senatori.
Indipendenza e autonomia, infatti, sono sanciti nero su bianco. E chi viene democraticamente scelto è tutelato da qualsiasi ingerenza esterna – forza politica di appartenenza in primis – affinchè possa agire e votare con libertà di coscienza.
Una garanzia riconfermata anche nel ddl Boschi che riforma la seconda parte della Carta.
Ed è proprio a questa libertà che, puntualmente, fanno appello nelle loro dichiarazioni i parlamentari protagonisti dei 235 cambi di ‘insegna’ avvenuti negli ultimi 23 mesi (durante i governi a guida Enrico Letta e Matteo Renzi).
Sono 119 alla Camera e 116 al Senato.
Numeri altissimi che se confrontati con la legislatura precedente – la sedicesima – forniscono un’idea del fenomeno e del suo trend: 261 passaggi in 58 mesi, dal 2008 al 2013.
Il raffronto, ulteriormente suddiviso, consegna una cifra pari a 10,22 cambi al mese (nella diciassettesima legislatura, quella attuale) contro i 4,50 del periodo Berlusconi-Monti. Più del doppio.
Se poi si vuole scorporare il dato degli ultimi quattro governi, le differenze sono ancora più forti: secondo i dati Openpolis per Repubblica.it, vince il governo Letta, con 15,33 cambi al mese (in virtù dell’implosione del Pdl e della nascita di Ncd), seguito dal governo Renzi (8 passaggi al mese) che si piazza davanti agli esecutivi Berlusconi e Monti, rispettivamente con 5,56 e 2,94 transizioni.
Un’annotazione: in cifre assolute, durante l’esecutivo guidato dall’ex Cav (3 anni e 6 mesi) i ‘trasformismi’ sono stati 217 contro i 97 dell’esecutivo Renzi, i 138 dell’esecutivo Letta e i 50 dell’esecutivo Monti.
Un ammontare elevato, quello che fa riferimento a Berlusconi, se si considera che l’attuale leader di Forza Italia è stato l’ultimo ad aver vinto le elezioni politiche e si è insediato in un contesto politico ben più stabile.
Certo, ciascuna legislatura è una storia a sè, e ciascun parlamento rappresenta una novità rispetto a quello precedente.
Ma le dinamiche che si instaurano all’interno dell’aula, fra i banchi di Camera e Senato, forniscono una chiave di lettura per capire come e quanto stia cambiando la politica italiana.
La XVII legislatura, iniziata a marzo 2013, già oggi risulta caratterizzata da un alto numero di cambi di gruppo.
Un fenomeno che fa parte del nostro assetto costituzionale da sempre ma che, in questi ultimi due anni, ha raggiunto nuove dimensioni, complici le spaccature interne a tutti i partiti.
Di sicuro, deputati e senatori sono costituzionalmente liberi di cambiare gruppo ogni qual volta lo desiderino, senza dover render conto a nessuno. E se nel 2010 sono stati proprio improvvisi cambi di gruppo – e di schieramento – a salvare il governo guidato da Silvio Berlusconi (vedi i casi di Domenico Scilipoti e Antonio Razzi), più recentemente si è assistito al proliferare di espulsioni sommarie (come nel caso del Movimento 5 Stelle), scissioni interne (la rottura dentro al Pdl con la nascita di Forza Italia e Nuova centrodestra) e la fine di esperimenti politici, come nel caso di Mario Monti e della sua creatura post premierato tecnico: Scelta civica.
Chi viene e chi va.
I gruppi che compongono il parlamento – nonchè le loro dimensioni – oggi sono molto diversi se confrontati con quelli eletti alle politiche del 2013.
E’ possibile riassumere gli spostamenti in tre grandi insiemi: gruppi in forte crescita, gruppi in perdita e quelli che hanno subìto scissioni interne. Dentro quest’ultima categoria rientrano le forze che hanno dovuto mettere a bilancio il crollo numerico maggiore: c’è il Popolo delle libertà (con la rottura tra l’ex Cavaliere e Angelino Alfano, titolare del Viminale) e c’è Scelta Civica, con la fine dell’alleanza con Udc più Popolari e la conclusione dell’esperimento montiano al Senato.
A seguire, in questo valzer di cambi si pone il Movimento 5 Stelle – terzo per membri persi – che risulta essere in forte ridimensionamento sia a Montecitorio (-18) sia a Palazzo Madama (-17).
Fra i tanti in perdita, l’unico in reale crescita è il Partito democratico che ha giovato sia del salto di schieramento di molti deputati Sel sia del confluire del gruppo Scelta civica al Senato.
Da marzo 2013 ad oggi, dunque, ci sono stati 235 cambi di gruppo che hanno coinvolto 185 parlamentari.
Non solo: molti deputati e senatori hanno cambiato più volte gruppo, ma alcuni hanno compiuto il salto da maggioranza a opposizione (si veda la migrazione di molti deputati Sel), e altri sono persino tornati nei gruppi che all’inizio avevano deciso di lasciare.
L’ultima mossa, in ordine di tempo, appartiene al deputato Massimo Corsaro che soltanto qualche giorno fa ha deciso di abbandonare Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d’Italia in evidente contrasto con il feeling che si è venuto a creare tra gli ex An e la Lega di Matteo Salvini.
L’approdo, come per molti altri, è stato al gruppo Misto. E’ lì, ad esempio, che molti parlamentari in fuga si appoggiano in un primo momento, in attesa di spiccare il volo verso altri lidi.
Negli ultimi 23 mesi il Misto ha rappresentato un porto sicuro per 11 deputati: Fucsia Nissoli, oggi parlamentare di Per l’Italia, mesi fa ha lasciato Scelta civica per il Misto salvo poi tornare a Sc e infine atterrare su Pi. Sempre alla Camera, Adriano Zaccagnini è uscito dal M5s ma è transitato dal Misto prima di arrivare a Sel. Otto deputati di Sel – da Gennaro Migliore a Titti Di Salvo – sono passati dal Misto prima di entrare nel Pd.
Nel panorama, non mancano neanche i ripensamenti: alla Camera è il caso di Alberto Giorgetti (da Fi ad Ap e poi di nuovo a Fi) e di Stefano Quintarelli (da Sc a Pi e ritorno indietro).
Al Senato Luigi Compagna corre dal Misto al Gal ad Ap e poi di nuovo al Gal e poi ancora ad Ap.
Paolo Naccarato parte dalla Lega per andare al Gal poi ad Ap e poi di nuovo al Gal. Sempre a Palazzo Madama il salto di schieramento l’ha fatto Antonio D’Alì che da Ncd è passato a Forza Italia mentre a Montecitorio il ‘ribaltone’ l’hanno fatto in 12, quasi tutti a favore del Pd.
Ancora al Senato, è Lorenzo Battista (passato dal M5s al Misto e poi alle Autonomie-Psi-Maie) a lanciare un appello ai colleghi che come lui sono entrati in parlamento col movimento di Beppe Grillo ma che poi ne sono usciti per dissidi con il leader: “Creiamo un gruppo con Sel ed entriamo nel governo” è l’appello che lancia mentre un altro ex pentastellato, Walter Rizzetto, scende in piazza a Venezia con la destra della Meloni.
Altro dato che emerge è la tendenza a cambiare gruppo ripetutamente. Sono 11 i parlamentari che hanno cambiato maglia tanto nella XVI quanto nella XVII legislatura, con alcuni – come Dorina Bianchi – che hanno attraversato l’intero spettro politico.
La parlamentare, eletta con il Partito democratico nel 2008 al Senato, è poi transitata nel Pdl, con cui è stata ricandidata e rieletta nel 2013, per poi passare nei mesi successivi nel Nuovo centrodestra.
Ripercussioni sulla maggioranza.
Deputati e senatori possono esprimere dissenso nei confronti del proprio gruppo in vario modo. Uno di questi è proprio il voto, vale a dire la possibilità di esprimersi in maniera non conforme alla linea dettata dal capogruppo.
In linea generale, prima della fuoriuscita dal gruppo di elezione, i parlamentari transfughi avevano una percentuale media di voti ribelli in linea con il resto dell’aula. Anzi: il 60% di loro alla Camera e il 77% al Senato erano sotto la media di ribellione. In pochissime situazioni in aula sono emerse le avvisaglie del cambio di gruppo e quasi mai è stata data prova tangibile di ‘infedeltà ‘ prima di scegliere la nuova ‘squadra’.
La situazione dei voti ribelli, però, varia molto se la si analizza subito dopo il cambio di maglia. La percentuale di voti discordanti rispetto al gruppo di elezione sale a dismisura soprattutto per deputati e senatori che hanno fatto un salto di schieramento. In una situazione analoga si trovano i numerosi fuoriusciti grillini, che dopo l’espulsione o abbandono del Movimento 5 Stelle hanno tendenzialmente iniziato a votare in maniera opposta.
L’analisi sui voti ribelli permette di delineare altre due situazione ben specifiche. Da un lato il caso Pdl, con la discrepanza nei voti tra membri del Nuovo centrodestra e Forza Italia, soprattutto per il passaggio di quest’ultimo all’opposizione. Infine i tanti cambi di gruppo interni alla maggioranza (scissione Scelta Civica – Per l’Italia e spostamento di molti parlamentari nel Partito democratico), hanno reso alcuni cambi, specialmente in sede di voto, totalmente irrilevanti.
A quanti una seconda chance.
Se durante l’attuale legislatura il fenomeno dei cambi di gruppo è particolarmente accentuato, non si può certo dire che sia una novità rispetto alla precedente. Infatti, nella XVI legislatura (2008-2013) ben 180 parlamentari hanno cambiato gruppo. In particolare ci sono stati due eventi catalizzatori: la rottura fra il Pdl e Gianfranco Fini da un lato, e il voto di fiducia che ha salvato il governo Berlusconi grazie ai cosiddetti ‘Responsabili’.
Ma che fine hanno fatto questi 180 transfughi? Sono stati premiati per aver salvato il governo Berlusconi? E quelli che hanno seguito Fini nell’avventura di Fli sono stati ricandidati?
I numeri parlano chiaro: il 48% dei transfughi è stato ricandidato, e il 12,75% è stato rieletto.
Cifre più basse dei parlamentari ‘fedeli’, che sono stati ricandidati per il 52% e rieletti per il 41 per cento.
La differenza principale sta nel gruppo che si è scelto di raggiungere. I ‘Responsabili’ che hanno lasciato i loro gruppi di appartenenza per salvare il governo Berlusconi sono stati quasi sempre ricandidati e soprattutto rieletti (Scilipoti e Razzi, appunto), mentre deputati e senatori che hanno seguito Fini nell’avventura Fli sono stati ricandidati ma non rieletti visto che il partito non ha raggiunto la soglia minima.
In generale il 50% dei parlamentari che ha abbandonato Berlusconi nella scorsa legislatura è finito nel ‘dimenticatoio’ e non è stato neanche ricandidato.
Michela Scacchioli
(da La Repubblica”)
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Marzo 16th, 2015 Riccardo Fucile
IL CAPO ANTICORRUZIONE LANCIA LA REVISIONE PER L’ABUSO D’UFFICIO, PROPRIO QUEL CHE SERVE AL SINDACO CONDANNATO
L’Angelus, questa domenica, per Vincenzo De Luca anzichè da piazza San Pietro arriva dall’hotel Vanvitelli di Caserta.
Il suo papa Francesco, in piena sintonia con la misericordia e l’indulgenza del nuovo Giubileo, è Raffaele Cantone.
Che da lì, in un video messaggio alla riunione degli amministratori di Sel, dispensa la sua benedizione al “tagliando” alla legge Severino.
Mette in chiaro, il commissario nazionale anticorruzione, che non ha nessuna intenzione di riscrivere da capo una norma che in questi due anni è stata “utilissima” nè tantomeno di “preoccuparsi” di quegli aspetti della legge riferiti a “fatti specifici” e a vicende che hanno “una loro notorietà ”.
Però, come si ostinano a ripetere i suoi difensori, a Vincenzo De Luca, basta una “dose minima” di cambiamento.
Basta che la condanna in primo grado per abuso d’ufficio sparisca dalle cause che possono determinare la sospensione dall’incarico.
Proprio quello che sostiene Cantone, seppure con un discreto scoppio ritardato.
Dopo la condanna (sempre per abuso d’ufficio, ma per fatti relativi alla sua attività di magistrato) di Luigi de Magistris, infatti, aveva chiesto al suo ex collega di smetterla di “danneggiare” Napoli perchè la legge era “iper garantista” e andava rispettata.
Poi Cantone evidentemente ha riflettuto — il primo ravvedimento è di novembre, l’ultimo di ieri — che “c’è spazio per una valutazione su alcuni reati che forse con la sentenza di primo grado non è opportuno intervenire con la sospensione”.
È lì che il telefono del sindaco di Salerno, vincitore delle primarie democratiche, ora in corsa per la presidenza della regione Campania, ha cominciato a squillare.
Nè da lui nè dal suo entourage, ieri, sono arrivate dichiarazioni che potessero dare l’impressione di “tirare per la giacchetta” mister Anticorruzione.
Ma, certo, hanno apprezzato. E iscritto Cantone nella lunga lista dei novelli sostenitori di un restyling della Severino.
Un tempo considerata intoccabile — in quanto legge che ha portato alla decadenza di Silvio Berlusconi — oggi sempre più giudicata perfettibile, anche alla luce del ricorso in attesa della Corte Costituzionale.
Matteo Renzi avrebbe volentieri fatto in modo che della questione si occupassero solo i giudici della Consulta. Tant’è che non è escluso che l’election day del 31 maggio sia capitato alla vigilia dell’estate anche nella speranza che, nel frattempo, il collegio presieduto da Alessandro Criscuolo fosse arrivato a sentenza (proprio nei giorni scorsi, Criscuolo, ha promesso un’accelerazione, anche se il verdetto pare non si vedrà prima di luglio).
Eppure, per quanto fastidiosa sia la materia, a Matteo Renzi toccherà occuparsene, visto che riguarda il candidato ufficiale del suo partito in Campania.
Per il momento la faccenda è stata affidata nelle mani del vicesegretario Lorenzo Guerini che intrattiene “colloqui frequenti” con i fedelissimi del sindaco.
D’altronde è difficile immaginare che l’uscita domenicale di Cantone — a cui il premier pensò un tempo di affidare anche l’incarico delicatissimo della candidatura campana — sia esclusivamente a titolo personale.
Nel Pd, infatti, a cominciare dalla minoranza fino al renziano capogruppo della commissione Affari Costituzionali Emanuele Fiano, è ormai diffusa la convinzione che alla Severino si debba mettere mano.
Solo che non si può fare adesso.
La modifica prima delle regionali è considerata troppo rischiosa e smaccatamente ad delucam.
E perfino il sindaco, va detto, si è messo l’anima in pace e ha preferito smetterla di ricordare ogni giorno il suo problemuccio con la legge. Sa che, se dovesse vincere le elezioni, sarebbe immediatamente accolto il ricorso contro la sua sospensione.
Non c’è fretta, quindi, ma “il tagliando” serve. In commissione alla Camera, come vi abbiamo raccontato, la salva De Luca è già pronta.
L’ha scritta l’avvocato Fulvio Bonavitacola, deputato Pd vicinissmo al candidato governatore.
Prevede che l’abuso d’ufficio — reato considerato assai diffuso tra gli amministratori — venga escluso dalle cause che determinano la sospensione da una carica elettiva. Praticamente lo stesso principio che ha sostenuto ieri Cantone. Come l’abuso d’ufficio fosse un reato bagatellare, e non invece uno dei più gravi comportamenti che può tenere un pubblico amministratore, sfavorendo un avversario o favorendo patrimonialmente un amico approfittando della propria posizione.
Per ora il calendario della commissione è affollato da una serie di provvedimenti, tra cui quello sullo ius soli che, certamente, non verrà esaurito con una rapida discussione.
Ma, dicevamo, non c’è fretta. Basta che la schiera degli sponsor del “tagliando” alla Severino resti folta.
Da ieri, ce n’è uno in più.
Paola Zanca
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 16th, 2015 Riccardo Fucile
L’INCONTRO CON I MILIZIANI CHE HANNO CONTRASTATO LO STATO ISLAMICO: “CON NOI ANCHE STRANIERI CHE HANNO LASCIATO TUTTO PUR DI AIUTARCI, NON LO DIMENTICHEREMO MAI”
“E’ stata una battaglia violentissima, combattuta in inferiorità ma con grande tenacia, contro un nemico
che vuole distruggere la libertà . L’abbiamo combattuta per tutto il mondo“.
Ismet Hasan è il ministro della Difesa del cantone di Kobane.
Snocciola numeri di morti e feriti (1.200 caduti per l’Isis, 670 per lo Yekà®neyàªn Parastina35 Gel, l’Unità di Protezione Popolare) come un qualsiasi ministro, con la sola differenza che nelle mani tiene stretta la sua arma e ha gli occhi di chi dietro una scrivania non si è seduto spesso. Coordina la difesa della città , ma è anche responsabile dell’inseguimento delle truppe del Califfato nel deserto siriano.
Racconta di scontri e combattimenti senza mai perdere la calma, con alle spalle il figlio che, vigile, gli fa da guardia del corpo.
Entrare a Kobane a pochi giorni dalla liberazione da l’impressione di piombare in un’apocalisse. Si capisce quasi subito che in questa città non è stata combattuta solo una battaglia per il suo controllo: una volta capito che l’assedio sarebbe durato più del previsto, i miliziani dello Stato Islamico, hanno messo in atto una campagna di distruzione totale della città e dell’esperienza politica rivoluzionaria di cui è portatrice.
Camminando per le strade appena liberate si ha subito la sensazione che Kobane fosse una vivace e popolosa città di confine, con centinaia di negozi a colorare le strade polverose.
Le merci sono rimaste intatte al loro posto, solo impolverate malgrado le vetrine e le serrande siano letteralmente esplose a causa dei bombardamenti.
Gli edifici rimasti in piedi nonostante il volume di bombe cadute presentano i segni della battaglia: interi piani crollati, automobili scaraventate al secondo piano, fori di proiettile ai lati.
Kobane era una città di 60 mila abitanti, adagiata ai piedi delle colline, con il centro città schiacciato dal prossimo confine.
Per mesi ha parlato attraverso il rumore delle bombe e delle mitragliatrici.
Kobane è stata testimonianza di un assedio brutale, di uno scontro fra ideologie che si frappongono: da una parte i miliziani jihadisti dell’Isis e dall’altra i guerriglieri curdi, organizzati nelle Ypg.
L’assedio è durato 134 giorni, dalla metà di settembre, quando le prime bombe dell’Isis sono cadute in città e i primi rifugiati curdi hanno attraversato il confine, al 26 gennaio quando lo Ypg ha dichiarato ufficialmente che Kobane era stata liberata.
Niente si è salvato dalla furia distruttrice del Califfato.
Si cammina tra le macerie facendo attenzione a dove si mettono i piedi, la città è ancora disseminata di bombe inesplose e solo un minimo contatto potrebbe farle brillare.
Agli incroci sono appesi teli e tappeti, sono un metodo rudimentale ma efficace per muoversi da una strada all’altra senza essere presi di mira dai cecchini dell’Isis. Le barricate invece sono costruite con le macerie delle abitazioni e con qualsiasi altro mezzo sia stato possibile recuperare: auto, trattori, furgoni e persino autobus.
Tutti ovviamente crivellati di proiettili. Il silenzio è rotto dal rombo dei bombardieri della coalizione in cielo e da qualche esplosione o raffica di mitragliatrice che ancora viene sparata entro i confini cittadini.
Si attraversano interi quartieri senza incontrare anima viva, solo in lontananza si scorgono alcuni mezzi dello Ypg che si muovono verso il fronte, ormai a qualche decina di chilometri.
“Saremo sempre grati a chi ha combattuto per noi”
Sono loro, i combattenti dello Ypg, coloro che strenuamente hanno difeso Kobane. Sono per lo più ragazzi, tra i 20 e i 30 anni, indossano la divisa mimetica ma portano scarpe da ginnastica.
Sulle loro spalle campeggia l’immancabile Kalashnikov, arma simbolo di tutte le rivolte. Lo personalizzano con adesivi tricolori: rosso, giallo, verde, i colori della Rojava.
Hanno le facce tirate, tese ma non lesinano sorrisi e strette di mano. Si concedono anche in foto, però prima mettono bene in mostra l’arma. Sono curdi siriani, ma anche turchi, iraniani, iracheni.
Sono venuti da tutte le regioni del Grande Kurdistan per aiutare i loro fratelli assediati, per portare loro solidarietà e competenza. Sono giovani ma hanno sulle spalle tutto il peso di una guerra, di un assedio immane, sono pronti a morire per la loro terra.
“Sono venuti curdi da tutto il mondo per aiutare i propri fratelli a difendere Kobane. In città hanno combattuto anche stranieri, persone che hanno lasciato tutto nei loro paesi pur di aiutarci a difendere la libertà e la democrazia nella Rojava. Gli saremo per sempre grati. Ogni qualvolta ci sarà bisogno di combattere per la libertà in altri paesi noi saremo sempre al loro fianco“, aggiunge Ismet Hasan.
Meglio affrontare Isis che scappare in Turchia “E’ un nemico”
I guerriglieri ostentano sicurezza anche quando in lontananza esplodono alcuni colpi di mortaio mentre tutti intorno abbassano la testa e cercano riparo.
Alcuni di loro sono a Kobane dall’inizio dell’assedio perchè non hanno voluto andarsene, hanno preferito prendere le armi per difendere le loro case piuttosto che cercare rifugio in Turchia, da molti considerata al pari di un nemico.
In effetti in questi mesi i curdi asserragliati in città hanno dovuto combattere non solo l’Isis, ma anche con l’esercito turco42, guardiano non sempre imparziale del confine su cui Kobane è appoggiata.
Più volte i militari di guardia si sono resi complici dei miliziani del Califfato, come a fine novembre quando un camion che avrebbe dovuto trasportare aiuti umanitari è stato fatto passare dal confine turco per poi rivelarsi un’autobomba dell’Isis che ha provocato morti e feriti tra i combattenti curdi.
Kobane, la furia di Isis contro il confederalismo democratico
Dall’altra parte c’è invece l’Isis, ora solamente Is. Per loro Kobane era solo un’altra piccola città sulla mappa, da conquistare per avere il pieno controllo della frontiera con la Turchia.
Forse nemmeno si aspettavano una resistenza così forte, ma quando combatti per la tua terra e la tua casa, per i tuoi figli e con i tuoi figli, puoi immaginare che sarà più dura che altrove.
Infatti l’Isis si era rivolto su Kobane solo dopo aver fatto razzia degli arsenali iracheni, potendo così schierare sul campo una potenza di fuoco che, si immaginava, solo un esercito organizzato avrebbe potuto contrastare.
In città hanno combattuto tra le file dell’Isis miliziani provenienti da tutto il mondo, ma la maggior parte di loro era di origine cecena, mobilitati soprattutto nella parte est della città .
Proprio in questi quartieri si sono svolti i combattimenti più aspri che non hanno lasciato un 32singolo edificio in piedi. Sono state le radio sottratte ai miliziani caduti a confermare la loro presenza in città .
Per mesi, gli unici segni visibili dell’Isis sono state le bandiere nere, che sventolavano dagli edifici più alti, e le colonne di fumo che i loro bombardamenti provocavano in centro città . Ora rimangono solo alcuni cadaveri, segno tangibile della battaglia appena conclusa.
I guerriglieri dello Ypg e le persone che fanno parte dell’organizzazione clandestina che li supporta non si stancano di ripetere quanto l’Islam propagandato dallo Stato Islamico non sia veritiero, originale, al contrario sarebbe l’Islam curdo quello che varrebbe la pena esportare.
Un Islam che parla di uguaglianza di genere, di libertà di culto, di partecipazione: un Islam di pace che insieme all’ideologia politica alla base della rivoluzione in Rojava, il confederalismo democratico, può diventare un pericolo per il Medio Oriente contemporaneo perchè scardina tutti quei principi sui cui si fonda la politica mediorientale.
Insomma, un precedente pericoloso in un’area dominata da Emiri, Califfi e Generali, segnata dalla negazione di libertà individuali e collettive e dalle molte esecuzioni.
Può darsi che anche per questo l’Isis, con l’avvallo di qualche paese dell’area, abbia deliberatamente e ostinatamente provato a radere al suolo Kobane.
Ismet Hasan si guarda intorno e sogna la ricostruzione, ma al momento è impossibile pensare di far rientrare tutti i rifugiati per i semplici motivi che non esistono più le abitazioni e le strade sono disseminate di bombe inesplose.
Servirà una bonifica, ma soprattutto molto tempo. Anche l’elettricità è totalmente insufficiente per i bisogni di una città e manca l’acqua potabile. Per questi motivi stanno cercando di fermare l’afflusso di coloro che vogliono precipitosamente tornare nelle proprie case, nonostante la battaglia sia finita solo da qualche giorno.
Nel prossimo futuro si attendo ancora battaglie e morti, c’è da riconquistare buona parte del territorio perso e le centinaia di villaggi curdi ancora in mano all’Isis.
Davide Mozzato e Marco Sandi
(Mozzato e Sandi sono parte di una delegazione di Rojava Calling e sono entrati a Kobane il 30 gennaio, 4 giorni dopo la liberazione. Per entrambi era la seconda esperienza sul confine turco-siriano).
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Marzo 16th, 2015 Riccardo Fucile
TUTTI CONTRO MARINO: QUALCUNO HA INTERESSE A NOMINARE UN COMMISSARIO
La “bomba B” come Bergoglio. L’annuncio a sorpresa di Papa Francesco ha spiazzato tutti, sta creando polemiche e tensioni, e rischia di far cadere Ignazio Marino in un’altra bufera politica.
Il sindaco della Capitale subisce attacchi incrociati. C’è il cosiddetto “fuoco amico”, che lancia l’idea di un commissario, e c’è il fuoco che arriva dal Nord, anzi dalla Lega Nord, con Roberto Calderoli, che chiede che il Giubileo venga fatto a Milano, “magari sfruttando le strutture dell’Expo, o in una qualunque altra città che non chieda soldi perchè diversamente ci troveremmo di fronte non a un Giubileo, ma a un meretricio o peggio a simonia”.
Intanto Marino è infuriato per il toto-commissario ormai partito.
Nel borsino del Giubileo c’era Francesco Rutelli, in pole position per guidare Roma verso il grande evento, come fece nel 2000 quando era sindaco.
Ad aver fatto il suo nome sono stati alcuni dirigenti renziani, tra cui i deputati Michele Anzaldi e Lorenza Bonaccorsi.
Lo sdegno di Marino sale alle stelle appena sente la parola “commissario”. “Bisogna vedere se ce ne sarà di bisogno. Non permetterò che si strumentalizzi questa occasione”, dice ai suoi collaboratori.
Il sospetto infatti, nei corridoi del Campidoglio, è che la maggioranza renziana stia tentando di scavalcare il sindaco.
Rutelli, comunque sia, si tira fuori e dice: “Io commissario? Non so se sia un’ipotesi. So che io non sono disponibile per farlo perchè non ho incarichi pubblici e non voglio averli. Sono pronto a dare una mano come volontario al servizio della mia città “.
Il presidente del Pd, Matteo Orfini, è esterrefatto davanti a questa diatriba romana, dai tratti nazionali, che lascia la sensazione che qualcuno voglia togliersi sassolini dalla scarpa: “Il Papa indice il Giubileo straordinario della misericordia e il meglio che riusciamo a fare è discutere di chi fa il commissario? #ancheno”.
Intanto il Campidoglio ha già messo in piedi un “pool” con a capo lo stesso Marino. La squadra sarà composta da alcuni suoi assessori, quelli ovviamente che per competenza sono più coinvolti nell’organizzazione dell’evento.
Questo team si interfaccerà con Palazzo Chigi, con il Vaticano e con la Regione Lazio nei vari tavoli interistituzionali che ci saranno per discutere delle misure da adottare nella Capitale.
Fanno parte del ‘pool Giubileo’ gli assessori Guido Improta, responsabile dei Trasporti, Giovanni Caudo a guida dell’Urbanistica, Maurizio Pucci, titolare dei Lavori Pubblici e ‘veterano’ del Giubileo 2000 e infine Alessandra Cattoi, ‘braccio destro’ del sindaco e assessore con delega ai Grandi Eventi
Anzaldi attacca e accusa il Comune di Roma di mettere in atto la “vecchia politica: si parte dalle cifre ma non dai progetti. Tanti soldi ma per fare cosa?”, si chiede il deputato dem.
Per il Giubileo del 2000 era stato stanziato un miliardo e 800 milioni di euro. Adesso la “squadra Marino” sta studiando le cifre ed esclude la realizzazione di grandi opere: “Tra bandi pubblici e tempi tecnici è impossibile realizzarle entro dicembre”.
Dunque, gli interventi saranno dedicati, più che altro, alla manutenzione e al decoro urbano. In sostanza, il messaggio che filtra dal Campidoglio è che non si sta parlando del Giubileo del 2000, quando le risorse e i tempi erano molte diversi. Questa sarà un’altra storia
A gelare il Campidoglio ci pensa anche il Codacons per il quale Roma non è pronta per affrontare il Giubileo e chiede un impegno formale da parte del Comune per risolvere, entro un termine preciso, le criticità che fanno di Roma una città assolutamente inadatta ad ospitare un evento come questo.
Ecco, insomma, come il Giubileo straordinario della Misericordia, a sei mesi dall’evento, ha scatenato la straordinaria discordia.
Che non sembra avere proprio nulla di sacro e la partita è solo all’inizio.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 16th, 2015 Riccardo Fucile
DIVERSAMENTE MERITOCRATICI: POLIZIOTTI CHE HANNO DENUNCIATO I SUPERIORI, FINANZIERI ANTI-SLOT, DIRIGENTI CHE SCOPRIRONO SPESE PAZZE O CEMENTO…. NESSUN PREMIO, SOLO GUAI
Non pretendevano un premio. Hanno fatto il loro dovere, qualcosa di più. Certo, non immaginavano di
essere puniti. Di arrivare a vedere i sorci verdi.
Fino quasi a essere spinti ad abbandonare il lavoro, la passione cui avevano dedicato la vita: sono poliziotti, finanzieri, dirigenti pubblici, sportivi.
Eppure non mollano.
Filippo, il poliziotto che crede nella legge
Chiedetelo al vice-questore Filippo Bertolami. Il 18 febbraio ha ricevuto una lettera del capo della Polizia, Alessandro Pansa. Una sorpresa per Bertolami. Soprattutto il contenuto: “Sospensione cautelare dal servizio per gravi motivi disciplinari”.
No, non l’avrebbe mai detto, Filippo. Lui che è poliziotto fino all’ultima fibra. Non di quegli sbirri con la pistola sempre in mano.
La sua arma è la legge, il rispetto delle regole. Uguali per tutti. Che tu sia un criminale o un agente di divisa. Non fa sconti a nessuno. Gira con una ventiquattrore piena di carte, di codici.
Ecco il punto: Bertolami è quello che certi colleghi chiamano un “rompicoglioni”.
In quindici anni di impegno ha portato alla luce scandali di ogni tipo. Prendete la storia delle telecamere e degli scanner contro gli attentati a Termini, Palazzo Chigi e in Vaticano.
Da anni c’è chi lo sussurra: la maggior parte non funziona. Se arrivassero i terroristi potrebbero passare indisturbati. E Bertolami, cerca, indaga, scopre, finchè non denuncia la storia davanti alle telecamere di Piazza Pulita. Dunque, che cosa è peggio: che i sistemi di sicurezza abbiano delle falle o che un poliziotto lo denunci sperando che qualcosa cambi? Decidetelo voi.
È solo l’ultimo colpo di Bertolami. Prima — lui che ha due lauree, master e dottorato di ricerca non ha mai avuto una macchia in carriera — dall’Unità nazionale CEPOL della Scuola di Perfezionamento delle Forze di Polizia si era scagliato contro l’uso dei fondi nazionali ed europei: “Abbiamo una struttura provvista di tutto e esternalizziamo il servizio interpreti, il catering e le navette per gli ospiti. Perchè?”. Altre rogne.
E che dire delle polemiche — sempre sollevate da Bertolami — sugli investigatori anti-mafia che dopo aver compiuto operazioni clamorose a Latina e Ostia si ritrovarono scaricati dai loro vertici?
E via, salendo fino a toccare i piani più alti della polizia. Fu Bertolami a tirare fuori la storia della case blu per i vertici della polizia. Uno fra tutti, Andrea De Gennaro — generale della Guardia di Finanza a capo della Direzione centrale per i servizi antidroga — che in pratica ricevette le chiavi di casa dal fratello Gianni quando lasciò la poltrona di capo della Polizia.
Ancora: fu Bertolami, come sindacalista [rappresentante del sindacato di Polizia, Italia Sicura], a denunciare promozioni o sorprendenti avanzamenti in graduatoria di poliziotti indagati o condannati. Magari per i fatti del G8.
Un gran rompicoglioni Bertolami. Come quando svelò la storia di quel vice-questore di punta rinviato a giudizio per il pestaggio del tifoso Stefano Gugliotta, ma lo stesso volato dal 299° al 47° della graduatoria per accedere alla scuola questori.
Oppure quando ricostruì, carte alla mano, che il vicecapo della Polizia, Alessandro Marangoni, sostenne per la promozione a dirigente il commissario V., già condannato nel 2010 a un anno e 10 mesi per avere rilasciato il porto d’armi ad Andrea Calderini, il trentunenne che nel maggio 2003 uccise nel suo palazzo di Milano la moglie e una vicina di casa e poi sparò dal balcone ferendo gravemente tre persone prima di togliersi la vita.
“La condanna — denunciò all’epoca Bertolami — comporta l’applicazione nei confronti del funzionario, ove già non ricorrano i presupposti per l’applicazione di un’altra sanzione disciplinare, della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione in proporzione all’entità del risarcimento. E, non avendo ottemperato a questo obbligo, lo stesso Marangoni anzichè essere promosso prefetto, avrebbe dovuto essere sospeso dal servizio con privazione della retribuzione”.
Insomma sulle ali di quella segnalazione di Marangoni il commissario V. volò dal 728° al 42° posto e divenne dirigente. Chissà .
Una cosa è certa: facendo il proprio dovere Bertolami si è fatto un mare di nemici.
E adesso ti mette sotto gli occhi una sfilza di lettere. Ricevute tutte le stesso giorno: primo, la richiesta di destituzione. Come dire, addio divisa.
Il motivo? Le dichiarazioni rilasciate a Piazza Pulita sulla scarsa sicurezza di luoghi dove passano migliaia di persone. Inutile eccepire che la stessa emergenza era nota da anni. Poi ecco il decreto di sospensione dal servizio.
Quindi: restituire pistola e manette, percepire solo il 50 per cento dello stipendio — la metà di circa 2.500 euro.
Motivo? Aver puntato il dito contro la presunta malagestione dei fondi, contro gli sprechi. Per firmare la richiesta si è scomodato direttamente il capo della Polizia, Pansa.
“Farò ricorso perchè non è compito suo, spetta al ministro”, avverte Bertolami.
Basta? Neanche per idea. C’è anche una richiesta di trasferimento. E infine una richiesta di pena pecuniaria (pure questa firmata da Pansa).
Quattro spade di Damocle: “Ci sarebbe da mollare tutto, la divisa”, dice. Ma non abbassa lo sguardo. E subito aggiunge: “No, ne voglio uscire. E a testa alta. Non andrò indietro di un millimetro” e Franco Picardi del sindacato PNFD incalza: “Il Capo della Polizia ha compiuto un grave abuso, useremo tutti gli strumenti a disposizione dell’ordinamento per far reintegrare il collega, altrimenti destituiteci tutti!”
La dirigente sarda contro gli sprechi
Se oggi si parla degli sprechi delle Regioni, delle ruberie dei consiglieri regionali, delle spese in hotel, biancheria, televisori, giocattoli erotici, dalla Lombardia alla Sicilia, lo si deve anche al coraggio di Ornella Piredda.
Nel 2008 era una semplice dipendente della Regione, poteva mettersi in coda anche lei e raccogliere le briciole, invece andò dai magistrati a denunciare i ladri.
Piredda è un’ex dipendente del Gruppo misto e ha svelato il metodo paghetta: non rimborsi su fatture e scontrini di spese destinate ad attività istituzionali, ma un tot fisso assegnato a ciascun onorevole. Circa 2.500 euro. Ma non solo.
Ha svelato un sistema che non conosceva limiti nè ritegno.
In Sardegna i consiglieri regionali si erano fatti addirittura una legge su misura per far sparire i soldi: non sarebbe stato obbligatorio presentare una giustificazione. Andavano, prendevano i quattrini pubblici e spendevano a loro piacimento . Poi è intervenuta la Corte costituzionale.
E le denunce di Piredda che hanno aperto una luce su una realtà che non era solo quella della Sardegna, ma di tutta Italia.
Più volte ha ribadito e denunciato di esser stata demansionata sul posto di lavoro per la sua insistenza a chiedere la rendicontazione delle spese. Nessuna solidarietà dai colleghi, figuriamoci. La battaglia l’ha condotta in totale solitudine. E alla fine l’ha anche vinta, sul piano pubblico, non su quello personale, perchè in quegli anni ha subito di tutto e di più.
Ha fatto solo quello che chiedeva la legge, ma si è scoperta sola. Ma la sua resta una bella storia di giustizia.
Rapetto, finanziere contro i signori delle slot
Umberto Rapetto e i suoi uomini del Nucleo Speciale Frodi Telematiche della Finanza. Questa squadra di geniacci — pagati poco più di mille euro al mese — nel 2006 si trovò tra le mani l’inchiesta della Corte dei Conti contro le concessionarie delle slot.
Rapetto e i suoi lavorano fianco a fianco con il pm Marco Smiroldo, un coraggioso giudice ragazzino, ma con le spalle tanto larghe.
Devono contrastare interessi fortissimi. Dopo lunghe indagini arrivano a quantificare il danno subìto dallo Stato per il mancato rispetto della concessione da parte dei signori delle slot.
La cifra richiesta non ha uguali nella storia d’Italia: 98 miliardi. Sarà una battaglia dura, che andrà avanti per anni. Alla fine nelle casse pubbliche entreranno 400 milioni. Meno dello 0,5% della somma richiesta.
Comunque un simbolo dell’impegno di questi uomini. Del fatto che non esistono intoccabili.
Ma per Rapetto e gli altri il prezzo da pagare è stato alto, come l’ufficiale ha detto davanti ai magistrati milanesi: “Posso dire che il nostro Comando Generale ha sempre cercato di orientarci verso il disimpegno da queste indagini, anche attraverso note formali che contestavano l’assenza di una nostra competenza in materia… ilpm Smiroldo non accolse l’invito verso il quale fu anzi molto critico, pregandomi di segnalare a lui eventuali tentativi di interferenza con le indagini da parte dei miei superiori”.
Undici interrogazioni parlamentari hanno chiesto chiarimenti su quello che è successo, sulle pressioni ricevute dai finanzieri impegnati nell’inchiesta sulle slot. Oggi Rapetto ha lasciato la Finanza dove era entrato a sedici anni. Altro che premi.
Danilo Palmucci l’atleta pulito e mazziato
Nell’ambiente tutti sapevano che c’era chi assumeva medicinali per aiutarsi nelle gare sportive. Lo si faceva all’estero, e lo si faceva anche in Italia.
Ma era il 1997 e i controlli sugli atleti, che fosse ciclismo o culturismo, erano meno severi.
Danilo Palmucci, Ironman romano con alle spalle decine di medaglie vinte nel triathlon, fu il primo, nella sua disciplina, a chiedere che gli esami pre campionato fossero più stringenti.
Ma quella richiesta, che contribuì a fare luce sul complesso sistema del doping nello sport agonistico, l’ha pagata a caro prezzo.
“A luglio del 1997”, ricorda Palmucci, “chiesi che gli atleti che dovevano gareggiare ai campionati mondiali di triathlon si sottoponessero ai controlli del sangue, quelli che per intenderci oggi si fanno ai ciclisti. Il triennio tra il 95′ e il 97′, del resto, lo ricordo come un periodo buio, dove non c’erano limiti sull’uso di determinati farmaci, e quando partecipavo alle gare vedevo atleti che non stavano bene, che dovevano essere ricoverati. Quindi pensai di proporre quella soluzione, sia per difendere la nostra immagine di campioni italiani, sia per tutelare la salute stessa di chi gareggiava”. Palmucci raccontò che pure nel triathlon il ricorso a sostanze dopanti era diffuso, fece nomi e cognomi, ma per la sua denuncia fu querelato.
“In tribunale ho vinto, ma la mia immagine ne è uscita rovinata, in primis a causa della stampa sportiva”.
Nicoletta: no al cemento e finisce all’ufficio animali
Il 21 ottobre 2014 boccia il progetto per un centro commerciale delle Coop con annesso grattacielo da costruire a due passi dal Bisagno che un anno sì e l’altro pure provoca disastri.
Il 6 novembre la Giunta di centrosinistra della Regione Liguria la trasferisce all’ufficio che si occupa di cani e gatti. Nicoletta Faraldi, 62 anni, è dirigente della Regione Liguria.
I suoi colleghi la definiscono: “Il rigore fatto persona”. Faraldi racconta: “Sono in Regione dal 1981, mai avuto problemi. Amavo il mio lavoro, finchè si basava sulle leggi, sulla tecnica”.
Fino a quel parere: “Si dichiara inammissibile la variante relativa al centro funzionale in esame”. Addio centro commerciale, addio grattacielo. Sono in una zona a rischio. Ma Nicoletta finisce all’ufficio animali.
Ceci, il bancario contro i “giganti”
Altre carenze, ma in ambito diverso, sono quelle denunciate da Enrico Ceci, ex dipendente della filiale di Parma del Banco di Desio, che nel 2008 scoprì, a soli 21 anni, una falla nel sistema informatico dell’istituto di credito, che consentiva di accumulare somme di denaro non tracciato.
Ceci, quindi, dopo essersi rivolto ai suoi superiori decise di denunciare, tramite alcuni esposti, le irregolarità riscontrate, tra cui il riciclaggio, ottenendo che sia la magistratura, sia la Banca d’Italia indagassero.
Nel 2013, Bankitalia ha sanzionato tutti i membri del consiglio di amministrazione di Banco Desio per aver sottovalutato “le condotte poste in essere dagli ex esponenti di vertice e dai dipendenti delle controllate Desio Lazio e Cpc di Lugano.” Mentre nel 2014 il Tribunale di Roma ha accolto i primi patteggiamenti di due banche del Gruppo, nonchè dell’ex amministratore delegato di Banco Desio Lazio Renato Caprile, 2anni e10 mesi di reclusione e 1.400 euro di multa a fronte di un’imputazione per riciclaggio, reati tributari e appropriazione indebita.
Quanto a Ceci, però, il lavoro l’ha perso.
Secondo il tribunale di Parma avrebbe “leso il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore”.
Emiliano Liuzzi e Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 16th, 2015 Riccardo Fucile
QUATTRO IN CARCERE, TRA CUI IL PRESIDENTE DI CENTOSTAZIONI (GRUPPO FS).. . CINQUANTA INDAGATI, COINVOLTI POLITICI: “ARTICOLATO SISTEMA CORRUTTIVO”
Ercole Incalza, storico dirigente del ministero dei Lavori pubblici, è stato arrestato su richiesta della procura di Firenze.
Quattro persone sono finite in carcere mentre sono in corso oltre 100 perquisizioni: oltre a Incalza, l’mprenditore Stefano Perotti, il presidente di Centostazioni spa (Gruppo Fs) Francesco Cavallo e Sandro Pacella, collaboratore di Incalza. L’operazione è condotta dai carabinieri del Ros.
Nel mirino la gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere.
Agli indagati, a quanto si apprende una cinquantina, compresi alcuni politici, vengono contestati i reati di corruzione, induzione indebita, turbata libertà degli incanti ed altri delitti contro la Pubblica amministrazione.
Le perquisizioni hanno toccato gli uffici di diverse società , tra cui Rfi (Rete Ferroviaria Italiana, controllata da Ferrovie dello Stato) e Anas international Enterprise.
In primo piano nell’indagine, i rapporti tra Incalza e l’imprenditore Perotti, a cui sarebbero state affidate nel tempo la progettazione e la direzione dei lavori di diverse grandi opere in ambito autostradale e ferroviario, dietro compenso.
Incalza è stato un superburocrate delle Infrastrutture. Esordì nel 2001 come capo della segreteria tecnica di Pietro Lunardi nel secondo governo Berlusconi, poi nei 14 anni successivi ha “servito” Antonio Di Pietro (governo Prodi).
Fu quindi Altero Matteoli (ancora con Berlusconi) a promuoverlo capo struttura di missione, con la successiva conferma di Corrado Passera (Monti), Lupi (governo Letta) e di nuovi Lupi (governo Renzi).
Poi l’addio in sordina nel gennaio scorso, mantenendo comunque un ruolo di superconsulente.
Nella sua trentennale carriera, Incalza è stato indagato ben 14 volte, uscendone però sempre indenne.
Il suo nome ricorre nelle carte delle principali inchieste sulla corruzione nelle grandi opere, da Mose a Expo passando per la “cricca” di Anemone e Balducci. Cosa che non ha fermato la sua carriera in seno al ministero oggi delle Infrastrutture.
Tutte le principali Grandi opere — in particolare gli appalti relativi alla Tav ed anche alcuni riguardanti l’Expo, ma non solo — sarebbero state oggetto dell’”articolato sistema corruttivo che coinvolgeva dirigenti pubblici, società aggiudicatarie degli appalti ed imprese esecutrici dei lavori”.
Le indagini sono coordinate dalla procura di Firenze, perchè — sempre secondo quanto è stato possibile apprendere — tutto è partito dagli appalti per l’Alta velocità nel nodo fiorentino e per il sotto-attraversamento della città .
Da lì l’inchiesta si è allargata a tutte le più importanti tratte dell’Alta velocità del centro-nord Italia e a una lunga serie di appalti relativi ad altri Grandi Opere, compresi alcuni relativi all’Expo.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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