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TRASFORMISMO IN PARLAMENTO: 235 CAMBI DI CASACCA IN MENO DI DUE ANNI

E C’E’ CHI E’ RIUSCITO AD ATTRAVERSARE L’INTERO ARCO POLITICO… IL RAFFRONTO CON I GOVERNI BERLUSCONI E MONTI

“Metà  stipendio a te che cambi gruppo” parlamentare. O peggio: non sei più d’accordo col tuo partito? “Allora ti dimetti e decadi”.
Se “tradisci” dopo che sei stato candidato ed eletto, devi mollare subito la poltrona e uscire dal Palazzo alla svelta.
I tentativi di punire chi scavalca lo steccato fioccano.
Oggi, dinanzi a un Pd attrattivo e pigliatutto, Movimento 5 Stelle e Lega Nord continuano a insistere all’unisono sulla necessità  di introdurre il vincolo di mandato di cui tanto si discute. Il motivo è quel “trasformismo galoppante” nato già  nel Regno d’Italia ai tempi di Depretis.
In merito, la Costituzione si esprime in maniera netta nel suo articolo 67 che esclude qualsiasi tipo di ripercussione su deputati e senatori.
Indipendenza e autonomia, infatti, sono sanciti nero su bianco. E chi viene democraticamente scelto è tutelato da qualsiasi ingerenza esterna – forza politica di appartenenza in primis – affinchè possa agire e votare con libertà  di coscienza.
Una garanzia riconfermata anche nel ddl Boschi che riforma la seconda parte della Carta.
Ed è proprio a questa libertà  che, puntualmente, fanno appello nelle loro dichiarazioni i parlamentari protagonisti dei 235 cambi di ‘insegna’ avvenuti negli ultimi 23 mesi (durante i governi a guida Enrico Letta e Matteo Renzi).
Sono 119 alla Camera e 116 al Senato.
Numeri altissimi che se confrontati con la legislatura precedente – la sedicesima – forniscono un’idea del fenomeno e del suo trend: 261 passaggi in 58 mesi, dal 2008 al 2013.
Il raffronto, ulteriormente suddiviso, consegna una cifra pari a 10,22 cambi al mese (nella diciassettesima legislatura, quella attuale) contro i 4,50 del periodo Berlusconi-Monti. Più del doppio.
Se poi si vuole scorporare il dato degli ultimi quattro governi, le differenze sono ancora più forti: secondo i dati Openpolis per Repubblica.it, vince il governo Letta, con 15,33 cambi al mese (in virtù dell’implosione del Pdl e della nascita di Ncd), seguito dal governo Renzi (8 passaggi al mese) che si piazza davanti agli esecutivi Berlusconi e Monti, rispettivamente con 5,56 e 2,94 transizioni.
Un’annotazione: in cifre assolute, durante l’esecutivo guidato dall’ex Cav (3 anni e 6 mesi) i ‘trasformismi’ sono stati 217 contro i 97 dell’esecutivo Renzi, i 138 dell’esecutivo Letta e i 50 dell’esecutivo Monti.
Un ammontare elevato, quello che fa riferimento a Berlusconi, se si considera che l’attuale leader di Forza Italia è stato l’ultimo ad aver vinto le elezioni politiche e si è insediato in un contesto politico ben più stabile.
Certo, ciascuna legislatura è una storia a sè, e ciascun parlamento rappresenta una novità  rispetto a quello precedente.
Ma le dinamiche che si instaurano all’interno dell’aula, fra i banchi di Camera e Senato, forniscono una chiave di lettura per capire come e quanto stia cambiando la politica italiana.
La XVII legislatura, iniziata a marzo 2013, già  oggi risulta caratterizzata da un alto numero di cambi di gruppo.
Un fenomeno che fa parte del nostro assetto costituzionale da sempre ma che, in questi ultimi due anni, ha raggiunto nuove dimensioni, complici le spaccature interne a tutti i partiti.
Di sicuro, deputati e senatori sono costituzionalmente liberi di cambiare gruppo ogni qual volta lo desiderino, senza dover render conto a nessuno. E se nel 2010 sono stati proprio improvvisi cambi di gruppo – e di schieramento – a salvare il governo guidato da Silvio Berlusconi (vedi i casi di Domenico Scilipoti e Antonio Razzi), più recentemente si è assistito al proliferare di espulsioni sommarie (come nel caso del Movimento 5 Stelle), scissioni interne (la rottura dentro al Pdl con la nascita di Forza Italia e Nuova centrodestra) e la fine di esperimenti politici, come nel caso di Mario Monti e della sua creatura post premierato tecnico: Scelta civica.
Chi viene e chi va.
I gruppi che compongono il parlamento – nonchè le loro dimensioni – oggi sono molto diversi se confrontati con quelli eletti alle politiche del 2013.
E’ possibile riassumere gli spostamenti in tre grandi insiemi: gruppi in forte crescita, gruppi in perdita e quelli che hanno subìto scissioni interne. Dentro quest’ultima categoria rientrano le forze che hanno dovuto mettere a bilancio il crollo numerico maggiore: c’è il Popolo delle libertà  (con la rottura tra l’ex Cavaliere e Angelino Alfano, titolare del Viminale) e c’è Scelta Civica, con la fine dell’alleanza con Udc più Popolari e la conclusione dell’esperimento montiano al Senato.
A seguire, in questo valzer di cambi   si pone il Movimento 5 Stelle – terzo per membri persi – che risulta essere in forte ridimensionamento sia a Montecitorio (-18) sia a Palazzo Madama (-17).
Fra i tanti in perdita, l’unico in reale crescita è il Partito democratico che ha giovato sia del salto di schieramento di molti deputati Sel sia del confluire del gruppo Scelta civica al Senato.
Da marzo 2013 ad oggi, dunque, ci sono stati 235 cambi di gruppo che hanno coinvolto 185 parlamentari.
Non solo: molti deputati e senatori hanno cambiato più volte gruppo, ma alcuni hanno compiuto il salto da maggioranza a opposizione (si veda la migrazione di molti deputati Sel), e altri sono persino tornati nei gruppi che all’inizio avevano deciso di lasciare.
L’ultima mossa, in ordine di tempo, appartiene al deputato Massimo Corsaro che soltanto qualche giorno fa ha deciso di abbandonare Giorgia Meloni e i suoi Fratelli d’Italia in evidente contrasto con il feeling che si è venuto a creare tra gli ex An e la Lega di Matteo Salvini.
L’approdo, come per molti altri, è stato al gruppo Misto. E’ lì, ad esempio, che molti parlamentari in fuga si appoggiano in un primo momento, in attesa di spiccare il volo verso altri lidi.
Negli ultimi 23 mesi il Misto ha rappresentato un porto sicuro per 11 deputati: Fucsia Nissoli, oggi parlamentare di Per l’Italia, mesi fa ha lasciato Scelta civica per il Misto salvo poi tornare a Sc e infine atterrare su Pi. Sempre alla Camera, Adriano Zaccagnini è uscito dal M5s ma è transitato dal Misto prima di arrivare a Sel. Otto deputati di Sel – da Gennaro Migliore a Titti Di Salvo – sono passati dal Misto prima di entrare nel Pd.
Nel panorama, non mancano neanche i ripensamenti: alla Camera è il caso di Alberto Giorgetti (da Fi ad Ap e poi di nuovo a Fi) e di Stefano Quintarelli (da Sc a Pi e ritorno indietro).
Al Senato Luigi Compagna corre dal Misto al Gal ad Ap e poi di nuovo al Gal e poi ancora ad Ap.
Paolo Naccarato parte dalla Lega per andare al Gal poi ad Ap e poi di nuovo al Gal. Sempre a Palazzo Madama il salto di schieramento l’ha fatto Antonio D’Alì che da Ncd è passato a Forza Italia mentre a Montecitorio il ‘ribaltone’ l’hanno fatto in 12, quasi tutti a favore del Pd.
Ancora al Senato, è Lorenzo Battista (passato dal M5s al Misto e poi alle Autonomie-Psi-Maie) a lanciare un appello ai colleghi che come lui sono entrati in parlamento col movimento di Beppe Grillo ma che poi ne sono usciti per dissidi con il leader: “Creiamo un gruppo con Sel ed entriamo nel governo” è l’appello che lancia mentre un altro ex pentastellato, Walter Rizzetto, scende in piazza a Venezia con la destra della Meloni.
Altro dato che emerge è la tendenza a cambiare gruppo ripetutamente. Sono 11 i parlamentari che hanno cambiato maglia tanto nella XVI quanto nella XVII legislatura, con alcuni – come Dorina Bianchi – che hanno attraversato l’intero spettro politico.
La parlamentare, eletta con il Partito democratico nel 2008 al Senato, è poi transitata nel Pdl, con cui è stata ricandidata e rieletta nel 2013, per poi passare nei mesi successivi nel Nuovo centrodestra.
Ripercussioni sulla maggioranza.
Deputati e senatori possono esprimere dissenso nei confronti del proprio gruppo in vario modo. Uno di questi è proprio il voto, vale a dire la possibilità  di esprimersi in maniera non conforme alla linea dettata dal capogruppo.
In linea generale, prima della fuoriuscita dal gruppo di elezione, i parlamentari transfughi avevano una percentuale media di voti ribelli in linea con il resto dell’aula. Anzi: il 60% di loro alla Camera e il 77% al Senato erano sotto la media di ribellione. In pochissime situazioni in aula sono emerse le avvisaglie del cambio di gruppo e quasi mai è stata data prova tangibile di ‘infedeltà ‘ prima di scegliere la nuova ‘squadra’.
La situazione dei voti ribelli, però, varia molto se la si analizza subito dopo il cambio di maglia. La percentuale di voti discordanti rispetto al gruppo di elezione sale a dismisura soprattutto per deputati e senatori che hanno fatto un salto di schieramento. In una situazione analoga si trovano i numerosi fuoriusciti grillini, che dopo l’espulsione o abbandono del Movimento 5 Stelle hanno tendenzialmente iniziato a votare in maniera opposta.
L’analisi sui voti ribelli permette di delineare altre due situazione ben specifiche. Da un lato il caso Pdl, con la discrepanza nei voti tra membri del Nuovo centrodestra e Forza Italia, soprattutto per il passaggio di quest’ultimo all’opposizione. Infine i tanti cambi di gruppo interni alla maggioranza (scissione Scelta Civica – Per l’Italia e spostamento di molti parlamentari nel Partito democratico), hanno reso alcuni cambi, specialmente in sede di voto, totalmente irrilevanti.
A quanti una seconda chance.
Se durante l’attuale legislatura il fenomeno dei cambi di gruppo è particolarmente accentuato, non si può certo dire che sia una novità  rispetto alla precedente. Infatti, nella XVI legislatura (2008-2013) ben 180 parlamentari hanno cambiato gruppo. In particolare ci sono stati due eventi catalizzatori: la rottura fra il Pdl e Gianfranco Fini da un lato, e il voto di fiducia che ha salvato il governo Berlusconi grazie ai cosiddetti ‘Responsabili’.
Ma che fine hanno fatto questi 180 transfughi? Sono stati premiati per aver salvato il governo Berlusconi? E quelli che hanno seguito Fini nell’avventura di Fli sono stati ricandidati?
I numeri parlano chiaro: il 48% dei transfughi è stato ricandidato, e il 12,75% è stato rieletto.
Cifre più basse dei parlamentari ‘fedeli’, che sono stati ricandidati per il 52% e rieletti per il 41 per cento.
La differenza principale sta nel gruppo che si è scelto di raggiungere. I ‘Responsabili’ che hanno lasciato i loro gruppi di appartenenza per salvare il governo Berlusconi sono stati quasi sempre ricandidati e soprattutto rieletti (Scilipoti e Razzi, appunto), mentre deputati e senatori che hanno seguito Fini nell’avventura Fli sono stati ricandidati ma non rieletti visto che il partito non ha raggiunto la soglia minima.
In generale il 50% dei parlamentari che ha abbandonato Berlusconi nella scorsa legislatura è finito nel ‘dimenticatoio’ e non è stato neanche ricandidato.

Michela Scacchioli
(da La Repubblica”)

This entry was posted on lunedì, Marzo 16th, 2015 at 15:12 and is filed under Costume. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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