Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
ALTA TENSIONE IN CITTA’ TRA CORTEI, PROTESTE E TRUPPE CAMMELLATE
L’idea ferragostana di Matteo Salvini di bloccare l’Italia per tre giorni è finita rapidamente nel
cassetto.
Ma almeno Bologna, per un giorno, sarà completamente bloccata. Anzi, blindata da oltre 600 agenti delle forze dell’ordine, con tanto di “zona rossa” a ridosso della centralissima via Indipendenza, per impedire ogni contatto tra il popolo della Lega (che si riunirà a partire dalle 10.30 in piazza Maggiore) e quello degli antagonisti e dei centri sociali, divisi in tre diversi cortei di disturbo, uno dei quali da via Stalingrado tenterà di bloccare l’afflusso dei pullman leghisti.
I ribelli (si teme l’arrivo di frange di “duri” e anarchici anche da fuori regione) cercheranno di violare il cordone di polizia per arrivare sotto palazzo d’Accursio, vicino al palco con il nuovo trio di centrodestra Meloni-Berlusconi-Salvini.
Musei chiusi, autobus deviati, persino la statua del Nettuno transennata.
In città il clima di tensione è alle stelle.
Tanto che nelle ultime ore sono partiti gli inviti alla calma dalle più alte istituzioni bolognesi.
Commemorando la battaglia partigiana di Porta Lame, il sindaco Virginio Merola (che nelle scorse settimane aveva usato toni durissimi contro Salvini) ha invitato alla “non violenza”: “Non concediamo alla Lega quello che qui sono venuti a cercare, ma dimostriamo tutti insieme che Bologna porta avanti i valori della nostra democrazia, attraverso la convivenza civile, la non violenza e il rispetto della nostra Costituzione”.
Immediato un coro di fischi da parte degli attivisti dei centri sociali, che hanno intonato “Bella Ciao”.
“La presenza leghista a Bologna è una provocazione, ma ogni violenza è da evitare”, ha ribadito il presidente dell’Anpi provinciale Roberto Romagnoli. “Trattiamoli da provocatori, lo scontro è quello che vogliono”.
Intanto la storica via del Pratello già da oggi si è riempita di bandiere arcobaleno della Pace, con tante altre rosse e il simbolo della “zecca” e la scritta ”infestazione”.
Zecche è il nomignolo con cui i leghisti bollano gli antagonisti di sinistra.
Dal fronte opposto, Giorgia Meloni parla di “400 deficienti che non hanno un lavoro e non se lo cercano” (ma lei e Salvini da quanti anni sono mantenuti dai contribuenti italiani ? n.d.r.)
La tensione nasconde i molti significati politici di questa piazza bolognese.
A partire dalla presenza di Silvio Berlusconi (con il quale Salvini ha assistito alla partita del Milan), contestata nei giorni scorsi dai più moderati di Forza Italia che temono di essere inglobati dalla nuova “Lega nazionale” su posizioni lepeniste.
La scelta dell’ex Cavaliere di salire sul palco, in realtà , è più legata alla volontà di non finire in panchina, di dare ancora le carte sullo scacchiere del centrodestra.
E di non essere archiviato dalle due manifestazioni contemporanee di Fitto a Roma e della Lega a Bologna.
“I nostri elettori ci chiedono unità ”, ha ribadito il leader Fi spiegando il suo sì alla piazza leghista dopo giorni di tira e molla, ma molti elettori pensano in realtà che abbia commesso un errore grossolano, proprio mentre la Lega crolla nei sondaggi.
Dal palco per ultimo parlerà Salvini e solo l’assenza di bandiere di partito camufferà il fatto che la piazza sarà al 90% di militanti leghisti, in gran parte dal lombardo-veneto da dove si attendono centinaia di pullman.
“Saremo 100mila”, ha spiegato il leader dei leghisti emiliani Alan Fabbri nei giorni scorsi.
Ma la stima non è credibile: piazza Maggiore non contiene una tale massa di persone.
Ammesso che le truppe cammellate padane, protette da agenti italiani, riescano ad arrivarci.
In piazza vi sono pure le strutture già montate del “Cioccoshow” che si terrà nei prossimi giorni.
Sullo sfondo ci sarà lo stato del maggiore del Carroccio, da Bossi a Maroni, entrambi a processo per peculato.
Tanto per non dimenticare di chi stiamo parlando.
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
“E’ COME IL CAVIALE ED E’ UN CAPITOLO CHIUSO”… DA GIACHETTI A FINOCCHIARO, DA BERSANI A FASSINO, DA GUTGELD A FRANCESCHINI: ERANO TUTTI CONTRARI
“I siciliani non hanno l’acqua ma presto, grazie al Ponte sullo Stretto di Messina, avranno pronta una via di fuga”.
No, a parlare non è un esponente della minoranza Pd o un grillino critico nei confronti della mossa annunciata dal premier Renzi mentre Messina fa ancora i conti con la mancanza d’acqua. Ma Roberto Giachetti.
E’ il 6 giugno 2002 e il giudizio del vicepresidente super renziano della Camera sul progetto di Silvio Berlusconi di creare un collegamento tra Messina e Reggio Calabria è caustico
L’ex governatore della Sicilia Toto’ Cuffaro la definì “la madre di tutte le infrastrutture e la porta d’ingresso per il corridoio Palermo-Berlino”.
Oggi il Ponte sullo Stretto torna a far parlare di sè, dopo che il presidente del Consiglio ha anticipato a Bruno Vespa che sì, “si farà “, ma solo dopo aver risolto le emergenze infrastrutturali della Sicilia.
Eppure il Ponte non è mai stato nell’agenda dei partiti di sinistra che, anzi, spesso in passato si sono scagliati contro il progetto su cui Berlusconi ci ha messo la faccia e la firma, nel salotto proprio di Bruno Vespa. Gli eterni ritorni.
Nel Pd in molti hanno iniziato a fare stretching perchè i salti carpiati che dovranno fare saranno piuttosto impegnativi.
Occorre un certo sforzo. Sono tanti infatti i dem che in passato hanno bocciato il progetto che vuole unire Calabria e Sicilia. Il refrain, negli anni, è stato ripetuto fino allo sfinimento: “Con tutti i problemi che ci sono nel Meridione, il Ponte non è nelle priorità “.
Nemmeno oggi lo è, ci ha tenuto a precisare il ministro dei Trasporti Delrio.
Eppure, quello che in molti consideravano un “capitolo chiuso” è tornato in agenda.
E in maniera sorprendente, se si pensa che lo stesso Renzi non aveva mai manifestato interesse per l’opera.
Durante la Leopolda 2010, insieme all’allora amico Pippo Civati, mise nero su bianco che il Ponte sullo Stretto di Messina non era nei suoi programmi. E’ scritto nella Carta di Firenze, il documento dei “rottamatori per una nuova Italia”: “Ci accomuna – si legge – il bisogno di cambiare questo Paese, un Paese dalla parte dei promettenti e non dei conoscenti. Che permetta le unioni civili, come nei Paesi civili; che preferisce la banda larga al Ponte sullo Stretto”.
Due anni dopo, a ottobre 2012 in visita a Sulmona, Renzi mostra un certo disappunto solo per il fatto che il Ponte sia argomento di dibattito politico: “Continuano a parlare del Ponte sullo Stretto di Messina, ma io dico che gli 8 miliardi li dessero alle scuole per renderle più moderne e sicure”.
Si dirà , Renzi ha messo dei paletti alla realizzazione dell’opera.
Paletti ben più stringenti li aveva messi durante la campagna per le primarie contro Bersani: “Il ponte sullo Stretto è una brutta pagina da chiudere”, disse il premier. Un’opera “faraonica mentre pochi giorni fa le case sono cadute sotto la frana a Messina. E’ veramente una presa in giro inqualificabile solo proporla, se si vuole far ripartire l’edilizia si metta in campo un grande piano di manutenzione delle scuole italiane che cadono a pezzi”.
Un giudizio netto, quello di Dario Franceschini, espresso il 14 ottobre 2009 in risposta all’annuncio di Berlusconi dell’inizio dei lavori per il dicembre successivo.
“Lo considererei un capitolo chiuso”, disse il ministro allora dell’Ambiente Andrea Orlando, a fine luglio 2013.
Chiuso non lo è ancora, nonostante l’ex segretario dei Ds Piero Fassino avesse già detto, il 15 gennaio 2006, che “il rapporto costo-benefici non regge: il ponte sullo Stretto costa troppo per essere un ponte ed è un’opera avulsa da strategie”.
Giuseppe Lumia, uno dei pochi dem che ha subito salutato con favore l’annuncio di Renzi, a luglio 2006 era molto dubbioso: “Il fatto che il Ponte sia un’opera opportuna e necessaria in un Sud che ha ancora poche e inadeguate autostrade, le cui linee ferrate sono ancora per la maggior parte quelle dell’Ottocento, in cui interi territori sono privi di servizi essenziali come l’acqua corrente, qualcuno dovrebbe ancora dimostrarcelo concretamente”.
Concretamente, il premier ha previsto che due miliardi in investimenti dovrebbero bastare per risolvere gli annosi ritardi della punta d’Italia.
Ma i dubbi di Lumia erano difficili da eradicare: “Sorprendono, e non poco, l’entusiasmo e l’attivismo del precedente governo e dell’attuale opposizione verso un’opera costosissima e forse inutile”.
Per la senatrice Anna Finocchiaro il Ponte era come il “caviale”: “Ha ragione il vicepresidente di Confindustria, quando dice che il Ponte è il caviale, mentre il pane sono le strade, ferrovie e i porti per la mobilità interna in Sicilia”.
Siamo ad aprile 2008 e Finocchiaro è la sfidante di Raffaele Lombardo alla presidenza della Regione Siciliana: “Qui – dichiarò da Bivona, agrigentino – spostarsi rapidamente da un paese all’altro è praticamente impossibile. Le strade sono tortuose e dissestate. In Sicilia ben prima del Ponte sullo Stretto, molto prima del Ponte – rimarcava – servono strade, ferrovie e porti perchè possano spostarsi le persone e le merci”.
Nel suo tour della Sicilia tornò sull’argomento: “Ho incontrato decine di migliaia di persone – disse a Modica – ma nessuno mi ha chiesto il ponte sullo Stretto. Mi hanno chiesto strade, collegamenti, porti, interporti ma non il ponte. L’idea del project financing per il Ponte non ci piace perchè non consente controllo di legalità e sicurezza. Nell’idea del Ponte c’è sotteranea l’idea minoritaria e perdente che la Sicilia sia l’ultima provincia dell’Impero”.
Un anno dopo, Finocchiaro non ha cambiato idea: “Se mai verrà realizzato, è chiaro che il Ponte costerà molte decine di miliardi di euro ed è altrettanto chiaro, a questo punto, che la spesa graverà sui cittadini italiani, anche se non è affatto una priorità “.
Il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, in un’intervista a Formiche.net, parlò dell’infrastruttura in questi termini: “Bisogna superare la gestione dissennata dei fondi comunitari, oscillante tra opere faraoniche, miliardarie e inutili come l’Alta velocità o il Ponte sullo Stretto e investimenti da poche decine di milioni di euro. Entrambi finalizzati a un immediato consenso politico”.
Gennaro Migliore è andato oltre. L’ex capogruppo di Sel folgorato dal renzismo infatti non solo in passato ha aspramente criticato il progetto ma è anche sceso in strada per protestare, fianco a fianco, con il comitato “No Ponte”.
L’8 agosto 2009, Migliore fa parte del fiume di gente che, radunatosi a Piazza Cairoli, ha attraversato Messina per dire no al progetto: “Siamo qui – disse l’ex vendoliano – per opporci ad un capriccio del governo che vuole realizzare un’opera inutile. Si tratta di un’infrastruttura pericolosa per i cittadini e per le casse dello Stato, della quale non abbiamo bisogno”.
Pericolosa o meno, la porta d’acceso al “corridoio Palermo-Berlino”è comunque entrata di diritto nell’agenda di Matteo Renzi.
A novembre 2015.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
LA RICHIESTA DI CHIARIMENTI DI CANTONE: “PERCHE’ AFFIDATE LE CAUSE A STUDI ESTERNI?”…L’ATAC: “I NOSTRI AVVOCATI SONO SOLO OTTO E ABBIAMO ABBASSATO LE SPESE ESTERNE DEL 30%”
Atac nel mirino. La municipalizzata dei trasporti di Roma ha speso, tra il 2011 e il 2015, 2.5
milioni di euro in servizi legali, una cifra pagata a studi esterni nonostante la società abbia già un ufficio ad hoc interno con 21 persone stipendiate.
Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione, ha scritto all’azienda per chiedere conto di queste spese.
Cantone, in particolare, vuole sapere perchè Atac si sia affidata a studi esterni nonostante il corposo ufficio legale interno.
Il presidente ha così chiesto una relazione e chiarimenti dettagliati ai vertici dell’azienda.
La richiesta del presidente dell’Anac parte da una lettera che l’ex assessore ai Trasporti di Roma, Stefano Esposito, gli ha inviato segnalandogli la situazione e la presenta dell’ufficio legale interno in cui Atac ha assunto 21 persone, tutti avvocati abilitati all’esercizio della professione.
La richiesta di Cantone è indirizzata al Presidente di Atac, Roberto Grappelli, al Commissario di Roma Capitale, Francesco Paolo Tronca e allo stesso Esposito.
Nell’ambito delle procedure di verifica effettuate su Atac e sulle procedure di appalto, l’Authority vuole approfondire gli aspetti legati ai servizi legali affidati all’esterno, vista anche l’ingente somma spesa nel periodo preso a riferimento, che ammonta complessivamente a 2.519.607,20 euro.
Nel dettaglio nel 2011 ne sono stati 7.850,07; nel 2012 la somma è stata di 184.747,54 euro; l’anno successivo è salita a 1.088.958,68 euro; nel 2014 sono stati spesi 737.800,72 euro; e nel 2015, infine, 500.250,19.
Raffaele Cantone ha chiesto quindi di acquisire le delibere con cui il Consiglio di Amministrazione di Atac rinvenuto la necessità di acquisire tali servizi all’esterno e le relative motivazioni.
E ha chiesto una relazione dettagliata sulle procedure poste in essere, corredata anche dall’elenco degli avvocati dipendenti di Atac.
A stretto giro arriva la risposta di Atac che parla di “drastica diminuzione” delle spese legali “a partire dalla seconda metà del 2013.
Tale risultato si è ottenuto grazie alla notevole opera di internazionalizzazione che ha consentito, solo nel 2014, di risparmiare il 31% rispetto al 2013, proseguendo tale trend anche nel corso del 2015.
In relazione poi al numero dei legali patrocinanti presenti in azienda, Atac precisa che gli avvocati patrocinanti in azienda sono otto effettivi, e non 21, e dalla metà del 2013 hanno patrocinato 925 nuove cause giuslavoristiche, oltre a diversi contenziosi in materia civile e amministrativa.
Gli affidamenti esterni sono stati quindi una parte minima e residuale di tale contenzioso motivata dalla peculiarità della materia trattata, che ha richiesto un supporto altamente specialistico”.
E ancora l’azienda spiega che “alcuni dati consentono di apprezzare la quantità di lavoro svolto dal servizio legale in Atac. Nel complesso dal 1° gennaio 2015 e fino allo scorso settembre sono stati affidati all’avvocatura interna di Atac 516 nuovi procedimenti in sede civile ed amministrativa, che portano a circa 2.400 i contenziosi attualmente gestiti dalla struttura. A ciò si aggiungano – sempre a settembre 2015 – 141 pareri legali resi in favore delle strutture aziendali interne, 223 visti di legittimità apposti a proposte di provvedimenti e delibere degli organi societari, 106 verifiche di sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi per l’esercizio del diritto di accesso agli atti e la partecipazione a 16 Commissioni di inchiesta”
(da “la Repubblica”)
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
“NOI DIAMO SANGUE PER STARE VICINO ALLA GENTE, FA MALE LEGGERE CHE C’E’ CHI SPRECA SOLDI”… “E’ GIUSTO CHE SI SAPPIA COME STANNO LE COSE, BEN VENGANO QUEI DUE LIBRI”
“Qui gira troppo sterco del diavolo. E allora è davvero il momento di cambiare. Se il Papa ha la forza di imporsi su chi contrasta la sua azione, alla fine la gran parte dei fedeli gli sarà grata”.
Oportet ut scandala eveniant, dice l’evangelista Matteo.
E dunque, se è necessario che gli scandali avvengano, perchè la verità , anche quella più dura, faccia bene alla Chiesa, la voce critica dei sacerdoti che in questi giorni guardano con stupore al Vaticano finisce per saldarsi con quella dei fedeli ugualmente sconcertati: “Il Papa, povero diavolo, si è trovato delle serpi in seno”.
A girare per cardinali, nei palazzi bellissimi e lussuosi che si susseguono uno in fila all’altro, fra abitazioni e uffici dicasteriali, percorrendo la via della Conciliazione che si allarga su Piazza San Pietro, alla fine gira sul serio un po’ la testa.
Bisogna allora scendere gli scaloni, rimettere i piedi a terra, allontanarsi dal centro, battere la periferia, visitare le parrocchie di zone meno cruciali. E parlare con i sacerdoti di qualche chiesa lontana da Roma.
Come il don Vincenzo di San Benedetto del Tronto, che si autodefinisce semplicemente “un prete”. L’altro giorno ha preso il telefono e chiamato un programma di Rai Radio3 per parlare di “questo benedetto Vatileaks, che mi appassiona tantissimo “.
Don Vincenzo non vede lo scandalo scoppiato come del tutto negativo: “Io, come prete, come faccio a non amare la mia Chiesa? La amo con passione, con lucidità . E proprio perchè amo la mia Chiesa non la voglio vedere sporca. Io voglio una Chiesa bella, pulita, voglio una Chiesa evangelica. Quindi, ben venga la chiarezza, la verità , la conoscenza anche dei fatti negativi. Si è detto di attacchi dall’esterno, di manovre ispirate da chissà chi. Ma quali manovre? Le facciamo da soli le cose brutte. Siamo noi, all’interno della Chiesa, che dobbiamo fare una pulizia”.
Così il malessere di questi giorni difficili, di accuse e tensione, di prime pagine che straboccano di titoli, di foto sui settimanali pieni di attici e terrazze nelle disponibilità dei prìncipi del Vaticano, erompe nelle parrocchie lontane da Piazza san Pietro. Dove i primi a storcere il naso non sono soltanto i credenti, ma i sacerdoti.
Un sentimento, questo, che comincia a essere pienamente avvertito da chi ha il polso della situazione fra i vescovi.
Dice a Repubblica una voce dentro la Cei, la Conferenza episcopale italiana: “Questa è una cosa che riguarda direttamente noi clero. E allora ben venga una Chiesa pulita. Perchè quello che emerge dai libri appena pubblicati è tutt’altro che carità , tutt’altro che povertà , è miseria umana. Di più: è commercio di beni sacri. È simonia!”. Dunque, è peccato.
Don Renzo Zocca, parroco di Santa Lucia a Pescantina, in provincia di Verona, ha avuto il suo momento di celebrità come “il prete della Renault 4” regalata a Papa Francesco, in Vaticano divenuta una papamobile inconfondibile.
L’altro ieri ha detto ad Avvenire: “La missione del Papa è grande, quello che sta capitando in questi giorni fa male, ma non deve offuscare nè quello che lui sta facendo nè quello che la Chiesa fa, anche seguendo il suo esempio. Se ci sono stati episodi disdicevoli in Vaticano, si faccia ordine, si chieda scusa. Ma sia ben chiaro che la Chiesa è un’altra cosa”.
Padre Sebastiano Giuseppe Lai, invece, a Roma è parroco di San Giuseppe all’Aurelio: “Noi sacerdoti siamo i più arrabbiati – afferma – in tanti diamo il sangue nelle nostre parrocchie, poi la gente scopre queste storie. È come per i preti pedofili: quella è la mia rabbia più grande. Io sto coi bambini, ridiamo e scherziamo, non vorrei mai che qualche genitore dicesse al figlio di stare attento”.
Aggiunge un ecclesiastico spagnolo – in questi giorni alcuni di loro sono spesso interpellati per via del presunto “corvo” in cella, il monsignor Lucio Vallejo Balda oggi nella guardina della Gendarmeria vaticana: “Lui non è affatto uno stupido. Era solo un po’ megalomane, si sentiva vicino al Papa. Qualcuno probabilmente lo ha usato. Ma questa vicenda, adesso, è diventata una questione di credibilità per la Chiesa. È vero che molti sacerdoti sono spesso ingenui, e questa purtroppo è una caratteristica di buona parte del clero: cadono in tranelli finendo per essere manipolati da altri. Ma che ci voglia pulizia all’interno, questo è poco ma sicuro “.
Insieme con i sacerdoti ci sono tanti fedeli arrabbiati. Alcuni, addirittura, disgustati dal tipo di Chiesa che esce a pezzi dal caso Vatileaks 2: “La gente – commenta qualcuno – è nauseata per quello che sta venendo fuori”. Commenta Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale del movimento riformista “Noi Siamo Chiesa”, un cristiano in prima linea e spesso critico: “Siamo d’accordo con gli autori dei due libri pubblicati. Siamo con Papa Francesco nella sua opera di pulizia. Bisogna che le cose si sappiano. Perchè qui la realtà supera ormai l’immaginazione “.
Marco Ansaldo
(da “La Repubblica”)
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
DALLA TIMIDA SECCHIONA A FRONT-WOMAN IN TACCO 12
Da “Papa girl” timida e secchiona, “paffutella e un po’ goffa” frequentatrice della parrocchia di
paese, perfetta per interpretare il ruolo della “Madonna” nel presepe vivente, a front-woman in tacco 12 del governo Renzi, vicepremier de facto, regina delle copertine, l’incarnazione femminile del potere renziano.
Dalla sua scrivania passano i dossier più scottanti dell’esecutivo, ha dato il nome alla riforma più controversa della legislatura sotto il governo Renzi, quella che modifica alcuni pilastri della Costituzione (in primis il bicameralismo perfetto).
E non solo: tutte le leggi sulle quali il premier si gioca la faccia sono sotto la sua supervisione, attraverso l’ufficio che guida e che monitora l’attuazione del programma di governo.
E’ lei che fa il punto delle riforme all’inizio di ogni Consiglio dei ministri.
E’ lei che prova a rimediare quando qualcuno del governo incappa in qualche pasticcio.
Il libro “Una tosta. Chi è e dove arriverà Maria Elena Boschi”, scritto da Alberto Ferrarese e Silvia Ognibene ed edito da Giunti (128 pp.), è un ritratto del volto sorridente del renzismo: quel volto che raramente si incupisce davanti alle telecamere e che risponde agli attacchi politici sfoderando sorrisi senza cedere alla tentazione di reagire con violenza (politica) alla violenza (politica), come a volte succede al suo superiore. Anche se non le vengono risparmiate critiche, e in certi casi allusioni.
Dove arriverà Maria Elena Boschi?, è la domanda che in tanti si pongono.
I maligni ipotizzano una sua corsa per Palazzo Chigi quando Matteo Renzi deciderà di passare il testimone.
Due mandati, secondo le previsioni del premier, e poi chissà forse toccherà a lei. Ma per capire dove vuole arrivare “la Mari” è opportuno approfondire le origini del “fenomeno” Boschi.
Nata il 24 gennaio 1981 a Montevarchi in Valdarno, è cresciuta a Laterina, paese dell’aretino di 3500 anime.
E’ figlia d’arte: anche sua madre Stefania Agresti, scrivono Ferrarese e Ognibene, ha lavorato in politica, quella locale, ed è stata vicesindaco di Laterina.
“Stefania parla molto, interviene, è presenzialista. È orgogliosa della figlia, che ha realizzato il suo sogno di una carriera politica importante”.
Il padre invece ha lavorato prima come dirigente della Coldiretti provinciale ed è poi diventato vicepresidente della Banca Etruria, commissariata da Bankitalia perchè sull’orlo del crack.
Proprio il ruolo di suo padre è stata la causa di una accesa polemica politica, quando si registrarono presunte operazioni anomale in Borsa alla vigilia dell’annuncio della riforma delle banche popolari.
Polemiche che investirono suo fratello Emanuele, anche lui con un ruolo di rilievo nella banca, che successivamente lasciò per fare il commercialista e revisore dei conti presso lo studio Bl di Firenze.
Tornando alla “Mari”, da giovane ha frequentato la scuola della borghesia aretina, il liceo classico Francesca Petrarca, dove pare che tutti le volessero bene.
Lei era una studente irreprensibile, racconta il libro, “sempre preparatissima, il giorno della prova scritta di latino alla maturità , nel 2000, dimenticò il vocabolario e un compagno che abitava vicino a scuola corse a casa per procurargliene uno. Una “disavventura” che non le impedì di diplomarsi con 100/100”.
Di vita sociale, a quei tempi, quasi non si conserva traccia, anche se oggi la “leggenda” parla di una passione per la discoteca.
«All’epoca di vita di paese ne faceva poca» ricorda un’amica «e non usciva molto. Una volta al mese riuscivamo a portarla in discoteca, al Mirage o al Grace», i locali preferiti dai “fighetti” aretini.
La carriera del ministro procede spedita: si laurea in Giurisprudenza “sempre con il massimo dei voti, 110 e lode”, poi un master in Diritto societario.
“Forte di questo curriculum”, approda nel più importante studio di diritto societario di Firenze, quello di Umberto Tombari, dove all’epoca “lavorava il suo ex fidanzato”, oggi tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi.
Tombari, avvocato civilista, professore ordinario di Diritto civile all’università , dal maggio 2014 è presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, lo “scrigno” della finanza fiorentina, che detiene il 3,2 per cento delle azioni di Intesa Sanpaolo.
Attuale vicepresidente dell’Acri, l’associazione delle Fondazioni bancarie, in passato è stato (nominato da Renzi) presidente della partecipata del Comune “Firenze mobilità ”, nel 2001 è stato membro della commissione ministeriale per la riforma del diritto societario voluta dall’allora ministro della Giustizia Michele Vietti ed è stato chiamato dal ministro Corrado Passera (governo Monti) a collaborare alla stesura del decreto “Sviluppo Italia”.
Il primo incontro con il renzismo non lascia alcun segno nella “Mari”.
Non c’è il colpo di fulmine con il futuro leader del Pd di Rignano: alle primarie per il sindaco di Firenze, Boschi e Bonifazi appoggiano il dalemiano Michele Ventura.
Non si spese molto, ammetterà , nella campagna elettorale che vide Ventura uscire sconfitto: “In verità l’impegno fu molto limitato, perchè in quel periodo stavo studiando per l’esame da avvocato ed ero praticamente in clausura”. Eppure Renzi, diventato sindaco, la notò, “pare, per una dettagliata relazione sulla privatizzazione dell’Ataf, l’azienda fiorentina dei trasporti pubblici”.
Così venne nominata nel Cda di Publiacqua.
Boschi, che visitava i cantieri indossando scarpe tacco 12, venne subito bollata come la “quota panda”. (…) Per Maria Elena la strada è subito in salita. Diffidenza, invidia, gelosie, pregiudizi sessisti che i colleghi del Cda e gli interlocutori con cui era chiamata a confrontarsi manifestavano con frasi beffarde come: «Suvvia, non si possono mettere le cose serie in mano ai ragazzini!».
Pregiudizi che non fermeranno la sua ascesa. L’approccio alla politica, quella vera, avviene però alla terza edizione della Leopolda, nel 2011.
A Publiacqua Boschi si fa le ossa, fa esperienza da manager.
Non si affaccia alla politica fino al 2011. Alla terza edizione della Leopolda, prende la parola dal palco. Pantaloni verdi attillati, camicetta e tacchi alti, un po’ impacciata, nei cinque minuti a sua disposizione affronta un tema che conosce bene: «Se fossi presidente del Consiglio, cercherei di riformare la «giustizia civile», che è il vero problema della giustizia «e non certo il legittimo impedimento e le intercettazioni telefoniche che meritano una risposta ma non interessano tutti i cittadini».
Nel 2012 fa parte del “dream team” tutto al femminile che accompagna Matteo Renzi in camper per l’Italia nella sfida (che perderà ) contro Pierluigi Bersani alle primarie, insieme a Sara Biagiotti e Simona Bonafè.
E sarà l’organizzatrice della Leopolda che precede la scalata di Renzi al partito, prima della competizione con Gianni Cuperlo e Pippo Civati.
Qui si lascerà alle spalle il suo passato da secchiona timida e devota, in virtù del tacco 12 leopardato che sfoggia sul palco della stazione fiorentina.
Prepara l’evento a puntino, passa da una telecamera all’altra, ribatte colpo su colpo agli attacchi degli avversari, dal palco fa la co-dj insieme a Renzi… e stupisce con i suoi abiti: giacca rosa shocking e jeans, ma anche tacco 12 leopardato che le vale il soprannome di “giaguara” della sinistra.
Uno dei segni con cui la si comincia a identificare: sulle scarpe come sui suoi frequenti sorrisi, siti come Dagospia ci sguazzano. La liceale goffa di Laterina è definitivamente archiviata.
Infine diventa ministro per le Riforme e i Rapporti con il Parlamento.
Un ruolo fino a ieri considerato di serie B, ma che con la “Mari” assume una posizione di primo piano, vista anche l’agenda del Governo che è già intervenuto sulla legge elettorale e sta portando avanti la riforma costituzionale.
Da ministro si ritaglia il suo ruolo da front-woman con lo stile che oramai tutti le riconoscono (tranne in pochi casi, come quando si lasciò andare alle critiche nei confronti dei “professoroni” che mettevano in dubbio la bontà delle sue riforme):
Boschi è pacata nella mimica e nell’eloquio, esprime gli stessi concetti del premier ma con un linguaggio più orientato al dialogo («Siamo disposti al confronto, ascoltiamo tutti, però poi decidiamo»).
Da lei è raro sentire battute fulminanti (la più riuscita è stata: «Giudicatemi per le riforme, non per le forme», rivolta a chi parlava solo della sua bellezza). Piuttosto, ci si aspetta una pacata determinazione.
Vederla sbottare in pubblico è un fatto più unico che raro, ma anche negli incontri riservati si dice mantenga sempre la calma. Dunque Renzi e Boschi si completano a vicenda e a vicenda si rafforzano, hanno ruoli diversi ma del tutto complementari.
Il suo look è diventato oggetto delle più accese diatribe politiche, perchè la politica è prima di tutto immagine politica.
Così si va dal “tubino nero corto e scarpe fucsia per l’incontro in ambasciata” al “tailleur ghiaccio e tacchi rossi per gli appuntamenti più istituzionali”.
Non solo scarpe e vestiti, anche i capelli della Boschi sono oggetto di venerazione.
A proposito, pare che i capelli di Boschi siano scolpiti nel marmo di Carrara: chi la segue da vicino giura che non porta mai il pettine nella borsetta e non se li aggiusta durante le trasferte in auto da un posto all’altro.
Eppure all’ennesimo appuntamento serale, magari a un’afosa festa dell’Unità , appare perfettamente truccata e pettinata come quando esce di casa al mattino.
Il ritratto del volto femminile del renzismo è fatto di sorrisi e riforme, che caricano di attese e di aspettative il futuro dell’attuale ministro Boschi. La celebrazione della stella più luminosa del firmamento renziano è servita.
Maria Elena Boschi, invece, ha una tempra incrollabile. Sorriso gentile e carattere di ferro.
Chi pensava al fiorellino messo lì per decorare il governo, alla “quota panda”, si è dovuto ricredere: la neoministra esercita la sua carica con piglio marziale, recitando senza battere ciglio le formule istituzionali davanti al Senato e alla Camera, senza fare una piega neppure davanti agli insulti personali e diretti.
Carattere volitivo e attitudine al comando.
Insomma, una tosta.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
“QUANDO IL COMANDANTE DELLA GUARDIA DI FINANZA L’HA PROPOSTO AL GOVERNO L’HANNO GUARDATO COME UN MARZIANO”
“Non è credibile. Dare un impulso all’economia alzando le soglie di punibilità per gli evasori o aumentando l’uso del contante non è credibile. Semplicemente perchè finora nessuno ha spiegato come. Piuttosto sono evidenti gli effetti negativi”.
Parla Piercamillo Davigo, negli anni 90 nel pool Mani Pulite e oggi magistrato di Cassazione.
Ma quali effetti negativi possono produrre?
Partiamo dall’innalzamento dei limiti per l’uso del contante e dalla sicurezza, di cui si fa un gran parlare. Vorrei che qualcuno mi spiegasse perchè si debba andare in giro pieni di contante, favorendo gli scippatori. E non dimentichiamo che l’uso senza controlli del contante agevola anche il riciclaggio.
Il governo assicura: alzare le soglie di punibilità e consentire un maggiore uso del contante dà impulso all’economia. Non sarete dei “gufi”?
Incentivare l’evasione non fa ripartire l’economia, trasferisce una parte di economia dal bianco al nero. Non basta. Chi usa il nero compirà un’altra serie di attività in nero: pagherà i dipendenti, comprerà , venderà tutto in nero. Guardate che qui stiamo parlando di cifre consistenti: alzare il tetto a 150 mila euro per l’omesso pagamento delle ritenute significa che stiamo parlando di redditi non dichiarati per 300 mila euro.
Niente reato, ma resta l’illecito amministrativo…
Certo, ma così è più difficile fare rogatorie internazionali. Se queste somme, a volte ingenti, finiscono in paradisi offshore è già difficile all’autorità giudiziaria raggiungerle. Figuriamoci per l’autorità amministrativa.
C’è chi sostiene che le nuove norme alleggeriranno il lavoro degli uffici giudiziari. La convince?
No. I numeri dei fascicoli per reati tributari non sono così consistenti, ne restano milioni. Il primo effetto che vedo è un altro: si azzerano migliaia di processi, si buttano al vento anni di lavoro.
Giustizia lenta, paralizzata.
Il governo si è mosso?
Io non vedo riforme efficaci. Non è che sia peggio di prima, si segue soltanto la scia.
Ma perchè ci sono troppi processi e perchè durano così a lungo?
Semplice, viene tutelato più chi viola la legge della vittima.Non ci sono sanzioni per chi tira in lungo i processi.
Esempi concreti?
Perchè un debitore in Italia dovrebbe pagare? Molto meglio finire in causa. Per male che vada, il debitore pagherà la somma che doveva con i normali interessi. Senza alcuna sanzione. In penale basta guardare il numero delle impugnazioni. In Francia soltanto il 40 per cento delle sentenze vengono appellate. In Italia praticamente tutte, perchè se l’imputato propone appello c’è il divieto della reformatio in peius (cioè di una sentenza più severa di quella di primo grado, ndr). È chiaro che tutti fanno appello.
Se fosse ministro della Giustizia…
Grazie a Dio non lo sono.
Facciamo finta. Cosa farebbe contro l’evasione?
C’è una misura efficacissima: applicare agli evasori la disciplina della confisca dei beni prevista dalle leggi antimafia. Quando il comandante della Guardia di Finanza è andato a dirlo in Parlamento lo hanno guardato come un marziano.
Come funziona?
Se hai dei beni incompatibili con i redditi dichiarati te li confischiamo.
Ma se i beni sono intestati a società , parenti o amici?
Basta che siano nella diretta o indiretta disponibilità . Non importa a chi è intestata la Ferrari o la villa. Una misura efficace, come quella di incrociare le banche dati.
Ne ha parlato anche il governo Renzi.
Vero. Ma occorre che nelle banche ci siano dei dati. E poi, per esempio, è molto importante utilizzare i dati delle spese compiute con la moneta elettronica.
E si torna al contante.
Si dice che i pensionati, la gente comune non ha familiarità con i pagamenti elettronici. Ma se è per questo non gira nemmeno con tremila euro in tasca.
E le operazioni a tappeto stile Cortina, i controlli degli scontrini?
Ci sono metodi più efficaci. Invece di passare al setaccio migliaia di scontrini di un bar, verifichi quanto caffè ha comprato, quanto ne manca. E vedi se ha dichiarato entrate compatibili
Ferruccio Sansa
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
ISTAT: IL 10,2% DELLE FAMIGLIE IN RITARDO NEL PAGAMENTO DELLE BOLLETTE PER LE UTENZE DOMESTICHE
Le famiglie italiane “in difficoltà “con il pagamento delle spese per la casa sono circa 3 milioni,
l’11,7% del totale.
E’ la stima dell’Istat, secondo cui tanti sono i nuclei familiari che nel 2014 si sono ritrovati in arretrato con il pagamento delle rate del mutuo, dell’affitto o delle utenze domestiche.
I dati emergono dalla documentazione consegnata dall’Istituto di statistica in Parlamento in occasione delle audizioni sulla legge di Stabilità , di cui la casa rappresenta uno dei punti chiave. In particolare, si legge nelle statistiche, il 10,2% delle famiglie si è trovata in ritardo con i pagamenti delle bollette per le utenze domestiche; tra le famiglie in affitto il 16,9% si è trovata in arretrato con il pagamento; il 6,3% delle famiglie con il mutuo da pagare si è trovato infine in arretrato con la rata.
L’esposizione delle famiglie al ritardo nei pagamenti delle spese per la casa, evidenziano i tecnici dell’Istat, “si associa nettamente all’onerosità delle spese stesse e, in particolare, alla loro incidenza sul reddito disponibile”.
Infatti, le categorie di famiglie maggiormente interessate dal problema sono quelle del quinto quintile, ovvero della fascia di reddito più povero (29,2% sono state in arretrato con le spese per la casa, pari a 1 milione e 505mila famiglie) e, più in generale, quelle in affitto (27,6%, 1 milione e 320mila) o quelle gravate da un mutuo per la casa (14,8%, 561mila).
Le spese per l’abitazione (condominio, riscaldamento, gas, acqua, altri servizi, manutenzione ordinaria, elettricità , affitto, mutuo) costituiscono infatti una delle voci principali del bilancio familiare.
Nel 2014, l’esborso medio di una famiglia per queste spese è stato di 357 euro mensili, a fronte di un reddito netto (al netto delle poste figurative) di 2.460 euro mensili, con un peso del 14,5%.
Le spese risultano più onerose nel Nord (15,2%) e nei comuni centri di aree metropolitane (16,1%).
(da agenzie)
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
RIPRENDE IL TERRORISMO VERBALE DI GRILLO: “LACRIME E SANGUE PER LA CAPITALE”… I SOLITI SEGNALI DI CHI VUOLE SOLO “CONGELARE” LA PROTESTA DEL PAESE
Si può imparare dai propri errori? Certamente sì, a patto di riconoscerli tali.
L’anno scorso — sabato 17 maggio, nel rush finale per le elezioni europee — ero come al solito davanti a un’edicola per fare il quotidiano pieno di carta stampata.
Mi precede un signora che chiede il Manifesto; testata indicativa di una precisa collocazione nel campo politico da parte dell’acquirente; non certo simpatizzante per i destrorsi. Eppure quella si volta, mi riconosce (forse per qualche comparsata nelle televisioni locali) e dice: “Spero che vinca Renzi”.
Sono stupefatto all’accoppiata a dir poco indebita organo di stampa/scelta elettorale; e lo lascio intravedere. Quella prova a spiegarsi: “Grillo mi fa paura”.
Erano i giorni in cui il personaggio-immagine dei Cinquestelle si aggirava per piazze e televisioni rifacendo sturmtruppen: “Arrendetevi!”, “siete circondati”, “siete morti”.
Poi sappiamo come è andata: il Partito Democratico che doppiava il M5S (40,81% a 21,16), con relativa incoronazione di un premier mai votato personalmente dagli italiani e il via libera alla sua opera restaurativa in senso reazionario; in un mix che assembla il peggio della tradizione politica italiota: la comunicazione a reality mendace di stampo berlusconiano, il decisionismo craxiano, il costituzionalismo piduista, il cinismo democristiano e la salsiccia con piadina nelle Feste dell’Unità .
Un vero disastro: l’autogol per chi prometteva la liberazione della politica dall’indebita occupazione da parte del ceto politicante e affaristico, la frustrazione in chi lo aveva sperato.
Fatto sta che la storia sembra ripetersi anche nel decisivo appuntamento romano odierno.
Una situazione favorevolissima, per cui l’amico direttore di una rivista della capitale a cui collaboro da quarant’anni, che sino a ieri mi imputava un eccesso d’acquiescenza nei confronti dei ragazzi pentastellati, ora manifesta il suo orientamento a votarli.
Ma ecco — sul più bello — che Grillo riattacca con il terrorismo verbale: “Una cura lacrime e sangue per Roma”, “se governeremo, ci saranno effetti collaterali pesanti”… Se l’intendimento è quello di invertire la tendenza per non vincere, lo si dica chiaramente.
Lo si dica che il disegno è quello di restare una pur importante minoranza per non doversi confrontare con le responsabilità di governo (e mantenere il controllo del giocattolo, che potrebbe essere sottratto al duo di attempati Saturno che si fanno i figli e se li mangiano).
Si dica che per le scarse capacità analitiche e progettuali della cabina di regia del movimento (il fantomatico Staff) è molto meglio lo scenario di un Alfio Beautiful Marchini vittorioso, in nome e per conto della immane ammucchiata chiamata “Partito della Nazione”.
Così da poter ricicciare all’infinito il repertorio dell’oppositore apocalittico. Lo si dica che il problema è quello di evitare che le seconde generazioni del Movimento tirino su la testa sovvertendo equilibri consolidati.
Non a caso parrebbe che l’astro nascente Luigi Di Maio abbia subito una ridimensionata in quel di Imola.
C’è una logica (seppure suicida) nel fatto che il golden boy Alessandro Di Battista non venga messo in pista nella competizione capitolina (dove sarebbe in pole position), per candidature mediaticamente poco spendibili; sulla base di rigidezze dottrinarie da Scientology (e come tali sottoposte all’arbitrio dei supremi sacerdoti).
Lo si dica, perchè se un parte dei voti che stanno determinando l’ascesa del M5S derivano dall’appartenenza di stampo religioso perinde ac cadaver (e scopro che i Cinquestelle raziocinanti definiscono “thugs” i colleghi fanatizzati, come nei romanzi di Emilio Salgari), il salto di qualità lo assicura il consenso d’opinione; interessata moltissimo allo sblocco del quadro politico e per nulla ai vaticini della Sibilla lombarda Casaleggio o i mugugni cosmici di Grillo.
Come ha scritto Flores d’Arcais nell’editoriale dell’ultimo numero di MicroMega, “il mood ideologico dei due, greve di ingredienti esoterico-reazionari”.
Questo è quanto mi conferma l’osservatorio ligure, con la gente di svariata provenienza che si avvicina al Movimento: dal vecchio piccista con tessera Uaar (l’associazione degli atei e agnostici), al funzionario pubblico consapevole che la giunta Toti rifà in peggio (se possibile) quella Burlando, l’operaio a rischio dell’Ilva che non si riconosce più in un sindacato ridotto a lobby.
Pierfranco Pellizzetti
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 7th, 2015 Riccardo Fucile
L’ASSESSORE ABRUZZESE MARCHEGIANI E’ MEDICO, NON SI VEDE IL NESSO CON IL SOSTEGNO A IMPRESE TURISTICHE
L’assessore Pd al Comune di Pescara, Paola Marchegiani, si è vista approvare un finanziamento
pubblico da 150 mila euro dalla Regione Abruzzo, guidata dal suo ex sindaco Luciano D’Alfonso, per ristrutturare la casa di famiglia e trasformarla in un “complesso turistico ricettivo”.
Marchegiani, come riporta Il Fatto Quotidiano – medico e titolare di un laboratorio di analisi – era già assessore al Comune abruzzese quando era sindaco Luciano D’Alfonso, oggi governatore della Regione.
Da qui i dubbi sollevati dal Fatto sull’iter burocratico che ha concesso l’ingente finanziamento e che verrà ora utilizzato per ristrutturare l’antica proprietà di famiglia, un casale immerso nel bucolico paesaggio di Città Sant’Angelo, vicino a Pescara.
Nel luglio 2014, la Regione Abruzzo stanzia 16 milioni di euro per “gli interventi di sostegno regionale alle imprese operanti nel settore del turismo”.
Un settore lontano dagli interessi dell’assessore, che, oltre a essere medico, è anche titolare di una ditta individuale dedita alla raccolta dei cereali, riso escluso.
Ma decide di partecipare ugualmente al bando indetto e spedisce la richiesta di finanziamento per il progetto di “riuso della ex rigattiera Coppa Zuccari a complesso turistico-ricettivo a Città Sant’Angelo”, l’antica proprietà di famiglia ereditata dal padre.
La graduatoria dei vincitori del bando è stata pubblicata da Abruzzo Indipendent pochi giorni fa: la pratica numero 32, registrata a nome Marchegiani, raggiunge la 45esima posizione su 146 approvate.
Ovviamente, molte altre vengono respinte. Finanziamento richiesto: 150 mila euro. Finanziamento ottenuto: la stesa cifra, 150 mila euro.
Ciò che incuriosisce è l’articolo 6 del bando, in cui viene specificato che a beneficiare dei finanziamenti siano soggetti di due tipologie: o “le piccole e le medie imprese, oppure “le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni dotate di personalità giuridica”. Non il singolo cittadino a titolo di persona fisica.
La risposta dell’assessore Marchegiani non aiuta di certo a farsi un’idea chiara: “Ha fatta tutto mio marito, è lui che va in cantiere tutti i giorni”, anche se è lei a essere l’intestataria del progetto.
Quando le viene chiesto se sapesse che la richiesta di finanziamento fosse stata fatta a titolo personale, come persona fisica, risponde: “Sì, almeno credo”.
Su una cosa è sicura: “La domanda l’ho fatta quando era presidente Giovanni Chiodi (Fi)”; la pratica, però, è stata approvata dal governo guidato da Luciano D’Alfonso. A legare i due, Marchegiani e D’Alfonso, anche un aneddoto particolare: tra il 2008 e il 2013, dalla data dell’arresto dell’attuale governatore della Regione, fino alla sua prima assoluzione (vicende giudiziarie tutte archiviate) – l’assessore decise di fare un fioretto: indossare solo calzature aperte “per sentire il freddo”, un gesto di solidarietà per “soffrire un po’ come lui (D’Alfonso)” che era stato arrestato.
“Non ho mai chiesto niente a nessuno – ha spiegato l’assessore Pd – ho un ruolo pubblico, sì, ma non è un conflitto d’interessi. Ho un laboratorio clinico, ma quando è stata fatta una gara per analisi del sangue, non mi sono presentata, perchè lì c’era un conflitto d’interessi, qui no”.
“Ho ereditato un bene, non voglio farlo crollare – ha concluso Marchegiani – abbiamo un’opportunità grazie ai fondi pubblici, non vedo perchè non dovrei usufruirne”.
(da “Huffingtpost”)
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