Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
IRONIA DEL PD: “HANNO MESSO INSIEME LO SPONSOR DELLA FORNERO E QUELLO CHE VA A PROTESTARE SOTTO LA SUA CASA COI FORCONI”
A Milano è caccia al montiano. O meglio, agli ex montiani. Dopo l’ingaggio di Corrado Passera da parte
di Stefano Parisi, candidato di un centrodestra ormai larghissimo, il renziano Beppe Sala punta su un nome forte come numero uno della sua nuova lista, quella super moderata, che dovrebbe contendere al duo Parisi-Passera il voto dei salotti buoni , della borghesia del professionisti che per anni aveva sostenuto il forza leghismo e che, nel 2011, si è divisa tra l’astensione e il voto a Pisapia.
Del nome coperto Sala ha parlato oggi nella sua visita a Roma con il segretario di Scelta civica e viceministro all’Economia Enrico Zanetti: si tratta di Stefano Dambruoso, questore della Camera ma soprattutto ex pm antiterrorismo proprio nella procura milanese.
Per lui si ragiona su una delega pesante, probabilmente alla Sicurezza, per dare un segnale chiaro alla Milano moderata che potrebbe essere attratta dalle sirene securitarie di Salvini.
Un faccia a faccia in cui Zanetti ha chiesto garanzie su programmi e organigrammi, e ha chiesto a Sala di farsi garante delle ragioni dell’ala centrista.
“Finora dall’ala sinistra della coalizione sono arrivati troppi ostacoli e veti verso i moderati. Ma la partita a Milano si vince al centro”, è il ragionamento che si fa in ambienti montiani.
E del resto per Mr. Expo, candidato renziano simbolo della capacità del nuovo Pd di espandersi oltre i confini del centrosinistra, la strada si sta facendo in salita.
Da un lato, è costretto a esibire simboli di sinistra (prima la maglia di Che Guevara e oggi a “Un giorno da pecora” ha cantato Bandiera rossa ricordando i suoi trascorsi in piazza e di aver fumato una canna da ragazzo) per non deludere i nostalgici di Pisapia; dall’altro soffre la concorrenza dei colleghi suo terreno, quello dei salotti buoni e del mondo delle professioni.
E così Sala, manager finito nel tritacarne per non aver comunicato al Comune la sua casa vicino a St. Moritz (ma la denuncia al fisco è stata fatta, giurano i suoi), ha definito con sarcasmo Passera “un signore danaroso”.
Cortocircuiti.
Al di là delle percentuali che l’ex ministro montiano può portare in dote al centrodestra (gli ultimi sondaggi oscillano tra il 4 e il 5%), negli ultimi giorni Parisi e Passera si stanno muovendo come una coppia di fatto.
E all’unisono hanno bacchettato l’alleato Salvini per gli attacchi al Capo dello Stato. Dal fronte Pd-Sala la risposta tende a ribadire quanto già detto da Sala, e cioè che il vero leader della coalizione è il leghista, un pericolo per la Milano operosa e moderata. Sarà uno dei leit motiv che accompagnerà la sfida con tutta probabilità fino al ballottaggio del 19 giugno.
Per i dem la mossa di Passera non è stata una sorpresa. ”Pensavamo che si sarebbe schierato con Parisi al ballottaggio, ora hanno perso anche l’effetto sorpresa…”, commenta Barbara Pollastrini, grande esperta di politica milanese.
Emanuele Fiano è caustico: “In quella coalizione c’è il collega e sponsor della Fornero insieme con Salvini che va sotto casa della Fornero a protestare coi forconi”.
Ma a microfoni spenti, nel mondo degli affari e delle imprese si dice che “Parisi ha dimostrato di essere espansivo, e di avere capacità politiche che ha appreso alla scuola di Giuliano Amato. A sinistra invece hanno perso un mese dopo le primarie a discutere su chi doveva fare il capolista degli arancioni”.
“Non siamo un’armata Brancaleone”, protesta Parisi, “io so fare sintesi”.
La scelta per la guida della lista arancione pro-Sala, dopo il forfait di Francesca Balzani (seconda alle primarie) alla fine è caduta sull’ex girotondina Daria Colombo, moglie di Roberto Vecchioni.
Mentre nella civica di Sala sono entrati ex assessori arancioni e personalità vicine al Pd. Fuori dai giochi l’ex numero uno della Compagnia delle opere, Massimo Ferlini, vittima di un certo ostracismo da sinistra al grido di “no agli amici di Formigoni” . Insomma, Sala, candidato simbolo del “partito della Nazione” si trova scoperto sul lato moderato.
E così è partita la rincorsa: oltre a Dambruoso in lista dovrebbero entrare altri esponenti di Scelta civica e del gruppo “Fare”, che nel 2013 si è riunito intorno a Oscar Giannino.
Parisi, dal canto suo, continua lo scouting nel mondo delle professioni, e Maurizio Lupi, capolista in città per Ncd, annuncia la candidatura civica di Adriano De Maio, ex rettore del Politecnico, e dell’avvocato Diana Pesce.
Sul fronte del centrodestra però non tutto luccica.
Passera infatti non si candiderà , e i suoi spiegano che il suo ritiro è funzionale in una logica tutta nazionale, per entrare con i suoi uomini nel listone di centrodestra che si opporrà al Pd renziano alle prossime politiche. In città la sua scelta non è andata giù al fedelissimo Alessandro Rimassa, presidente del comitato elettorale, che ha definito la nuova truppa “una accozzaglia di centrodestra che sta insieme ‘contro’ e non ‘per’”. E non risparmia complimenti ai nuovi partner dell’ex numero uno di Intesa, citando “il qualunquismo della Gelmini, l’estremismo di Salvini, l’opportunismo di Lupi, l’arroganza di La Russa, l’ambiguità di Albertini”.
Se fosse uno spot del Pd, potrebbe persino funzionare. Ma in casa dem, in questa fase, c’è da fare i conti anche con i guai del governo: è chiaro che la spinta di Renzi finora è stato un assist fondamentale per Mr.Expo.
Ma nella capitale morale l’astro del giovane premier non brilla più come l’estate scorsa.
In casa Lega, invece, l’arrivo dell’ex ministro montiano viene tollerato a fatica, dopo aver già dovuto ingoiare l’accordo con gli alfaniani. Passera e Salvini negli ultimi mesi se sono dette di tutti i colori e tra gli uomini del leader leghista gli umori sono pessimi.
Ma ha vinto la realpolitik: “Se più gente possibile arriva a concordare sui nostri programmi sono solo contento”, taglia corto Salvini.
Passera, del resto, a rinnegare l’esperienza con Monti non ci pensa neppure. “Nel centrodestra porto la mia storia liberale…”.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
“IO ACCUSATO DELLA STRAGE DEL BARDO MI RIPRENDO LA VITA E SOGNO DI RESTARE QUI”
Muove la mano lentamente portandola dal ginocchio verso le guance. Al netto del gonfiore indotto dai farmaci, hanno ripreso carne.
“Vorrei fare il saldatore, il lavoro per il quale ho studiato. Intanto spero che la Tunisia, dopo quello che ho passato, mi riconosca un risarcimento”.
Gli occhi puliti, il sorriso largo e la felpa della tuta indossata sopra una maglietta rossa come il divano inondato di luce sul quale siedono anche l’avvocato e l’interprete. L’appuntamento con Abdel Mayid Touil è alle quattro del pomeriggio nella casa di Gaggiano: prima intervista da quando ha smesso di essere il “fantasma” della strage del Bardo.
Un terrorista, anzi, uno stragista che invece non era, perchè il 18 marzo 2015, alle 12.30 tunisine, le 13.30 italiane, mentre i bombaroli dell’Is spargevano sangue nel museo Bardo a Tunisi (24 morti tra cui quattro italiani), lui era qui e nemmeno sapeva cosa stava succedendo, nella camera condivisa col fratello, a vedere la televisione.
“Per le autorità tunisine ero l’autista del commando. Guidavo la macchina con a bordo armi e cinture esplosive…”.
Affrettati furono i complimenti alle forze dell’ordine da parte del ministro degli Interni e del presidente del Consiglio: Touil – accerteranno poi le indagini, fino alla scarcerazione e all’archiviazione – era innocente.
Estraneo ai fatti.
Sorride. “Tutta colpa di una maledetta scheda telefonica…”. Gliela rubano assieme al passaporto gli scafisti ai quali il 22 marocchino – ora in attesa di permesso di soggiorno per motivi umanitari – si affida per venire in Italia con una barca salpata dalle coste libiche per Porto Empedocle.
La sfortuna nera di Touil è questa: uno dei trafficanti di uomini, Abdel Ghandri, è anche tra gli organizzatori dell’attentato del Bardo.
Usa la scheda del ragazzo, forse anche il passaporto. In più, sul cellulare di Ghandri, restano tracce delle telefonate che Touil fa nei giorni prima di imbarcarsi per sapere come muoversi nel “viaggio della speranza”. Risultato: cinque mesi di carcere a Opera e (dopo due giorni nel Cie di Torino) altri cinque mesi di cure per curare lo choc.
Come sta ?
“Meglio. Sto riprendendo la mia vita. A volte faccio ancora il sogno che, durante la detenzione, era diventato una fissazione: ci sono degli uomini incappucciati che mi portano via. Forse in Tunisia (dove se l’Italia lo avesse estradato Touil rischiava la pena di morte, ndr)”.
Chi sono, poliziotti o terroristi o chi altro?
“Non so. In questi mesi sono stato male: quando sono uscito dal Cie non riconoscevo nemmeno mia madre, ero diffidente con tutti, incattivito, non sapevo cosa mi stava succedendo. Anche se mi avevano appena liberato”.
Partiamo dall’arresto: 19 maggio 2015, qui sotto casa.
“Erano le 9 del mattino, ero appena uscito. Arrivo in fondo a via Pitagora e mi fermano due agenti della polizia locale. Un uomo e una donna, in divisa. Mi chiedono i documenti. Avevo solo la carta d’identità marocchina, era sopravvissuta ai furti degli scafisti perchè l’avevo nascosta nei calzini. Mi portano a Vigano (frazione del Comune di Gaggiano), poi mi consegnano ad altri poliziotti che mi portano in questura a Milano”.
Spiegandole cosa?
“Niente. Io credevo fosse un controllo legato ai documenti (Touil era clandestino, ora ha un permesso di soggiorno di sei mesi, ndr). Alle sei di sera mi riportano qui (nell’appartamento dove vive con la madre Fatima, il padre Sidi Jader e la sorella quattordicenne Khadija). Dodici poliziotti perquisiscono casa fino alle 23: rovistano dappertutto, portano via due chiavette Usb, il mio cellulare e due schede, una italiana e una marocchina. Mi trasferiscono in carcere a San Vittore”.
Mandato di cattura internazionale. Primo interrogatorio, il 22 maggio.
“Mi dicono: ‘Lei è stato arrestato per la strage del Bardo'”.
Che cosa ha pensato?
“Ero sconvolto. Accusato di una strage di cui non sapevo niente. Scopro di essere un terrorista dell’Is. Io che non sono nemmeno particolarmente osservante: prego, sì, ma sono fermamente contrario a ogni forma di Islam radicale. In carcere non ho fatto nemmeno il Ramadan”.
Cinque mesi dietro le sbarre.
“Non mi sentivo più un essere umano. Non avevo rapporti con altri detenuti. Nè musulmani (le disposizioni antiterrorismo vietano i contatti tra carcerati di lingua araba) nè italiani. Unica eccezione: un anziano detenuto con cui facevo l’ora d’aria. Ma io non parlo ancora italiano. Provavamo a capirci a gesti”.
Il suo caso era diventato un mistero: per la Tunisia – che ha chiesto l’arresto – era un terrorista; per l’Italia – che ha eseguito – nei giorni della strage del Bardo lei era a Gaggiano.
“Sono sempre stato qui, tra casa e scuola (a Trezzano sul Naviglio, ndr). Come hanno confermato da subito, oltre ai miei familiari, gli insegnanti. Il 18 marzo non sono andato a scuola perchè non c’era lezione. Il giorno prima e il giorno dopo, si”.
Difficile che un clandestino che ha impiegato quasi un mese per raggiungere l’Italia riesca a andare da Gaggiano a Tunisi e tornare in giornata.
“Evidentemente per le autorità tunisine non era così difficile”.
Il problema era la ‘connessione’, a sua insaputa, coi terroristi. Per via della sim card. Quando, come e perchè è venuto in Italia?
“I primi giorni di febbraio decido di raggiungere la mia famiglia. Mi affido a un amico, Salah, che oggi vive in Spagna. Lui ha il contatto con gli scafisti. Pago 500 dollari per il viaggio in nave. Più le spese per l’aereo e gli alberghi. Da Bèni Mellal – la mia città , dove vendevo menta e prezzemolo per strada – parto per Casablanca. Poi in aereo per Tunisi. Dopo tre giorni raggiungiamo la Libia in auto. Aspettiamo dieci giorni e ci imbarchiamo, destinazione Porto Empedocle. La scheda con cui avevamo chiamato Abdel Ghandri – e chi poteva immaginare fosse un terrorista dell’Is – me l’hanno rubata gli scafisti prima di entrare in Libia: l’avevo comprata a Tunisi per chiamare i miei genitori e dire che stava andando tutto bene”.
Siamo al viaggio in nave.
“Eravamo in 300-400. Prima di salpare gli scafisti mi hanno sottratto il passaporto e il cellulare: fanno così con tutti. Via telefono e documenti. Ti rendono un fantasma, uno schiavo. Così diventa più difficile risalire a loro. E poi utilizzano i documenti per avere false identità . Siamo partiti alle due di notte di venerdì e arrivati il lunedì (è il 17 febbraio 2015) a Porto Empedocle. Alle cinque del mattino ci ha fermato la Marina, siamo stati in mezzo al mare fino al giorno dopo”.
La scheda di Touil – accertano le indagini – ha un “buco” di un mese: risulta silente, per poi riattivarsi quando Ghandri la utilizza per chiamare gli altri terroristi del Bardo. Porto Empedocle. Poi?
“Sono stato fotosegnalato, mi hanno dato tre carte e mi hanno lasciato andare. A Catania – con la carta d’identità marocchina – compro una scheda telefonica e raggiungo Milano in pullman. Il 19 febbraio – un mese prima della strage – sono qui a Gaggiano. Ho iniziato a andare a scuola: ogni lunedì e giovedì pomeriggio. Rina e Flavia sono le insegnanti che mi hanno aiutato tanto, le voglio ringraziare. Adesso ho ripreso i corsi, tre volte la settimana”.
Che cosa pensa dell’Is e degli attentati che stanno insanguinando l’Europa e non solo?
“Questi terroristi non sono musulmani. Sono dei folli criminali assassini che non hanno niente a che vedere con l’Islam. I veri musulmani non uccidono. Ho paura anche io, quando vedi persone morire così è impressionante”.
Il suo rapporto con l’Islam?
“Prego, come tutti. Ma non frequento moschee. Quando vivevo a Beni Mellal andavo solo alla preghiera del venerdì”.
Lei è una vittima della giustizia: le autorità tunisine avevano chiesto l’estradizione e, se l’Italia non avesse respinto la richiesta, lei rischiava la pena di morte.
“Ringrazio l’Italia perchè per fortuna le indagini hanno accertato la verità , e questo incubo è finito. Amo l’Italia, voglio vivere qui. Ora voglio regolarizzare la mia posizione (il permesso di soggiorno per motivi umanitari chiesto dal legale di Touil, Silvia Fiorentino, dovrebbe arrivare presto), stare con la mia famiglia e trovare un lavoro. Non vedo l’ora di poter iniziare a lavorare. Intanto vado a scuola, faccio jogging con mio padre e il pomeriggio, quando posso, vado a Milano con gli amici”.
Come l’hanno accolta?
“Con grande affetto. Sapevano che ero in carcere da innocente, mi vedevano in tv ed erano sbalorditi”.
Paolo Berizzi
(da “la Repubblica”)
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Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
TRA UNA SETTIMANA SI VOTA NELLO STATO IN CUI HILARY E’ STATA ELETTA SENATRICE
«La parola socialismo? A me piace. Non parlatemi di Cuba o dell’Unione sovietica, per favore: ho 27
anni». Roderick Lawrence, afroamericano, di mestiere fa l’attore.
Lo incontro mentre fa la fila sotto una pioggerellina gelida, sulla 125esima strada. Siamo nel quartiere di Harlem, sul marciapiede dell’Apollo Theater. Un luogo storico per la comunità afro-americana, un tempio del jazz e del blues.
Con la rinascita culturale di Harlem ci si viene sempre più spesso, di recente ero all’Apollo per un musical su Charlie Parker, ci torno giovedì per sentire Esperanza Spalding.
Anche stasera c’è una gloria musicale in scena: Harry Belafonte. Ma non per cantare. A 89 anni il maestro della musica calypso è qui per introdurre l’altra star della serata, Bernie Sanders.
È per ascoltare un 74enne bianco ed ebreo, che tanti ragazzi neri affollano l’ingresso dell’Apollo, e disciplinatamente si sottopongono ai controlli del Secret Service col metal detector.
La sfida di Sanders, almeno in teoria, è molto ardua. Mancano 8 giorni alle primarie democratiche di New York, sulla carta Hillary Clinton è favoritissima.
La Clinton è stata senatrice di New York quindi ha qui una solida base elettorale. Sanders, pur essendo nato a Brooklyn, ha fatto la sua carriera politica molto più a Nord, nel Vermont. Lui dovrebbe essere un estraneo nella cittadella afroamericana di Harlem: come si è visto nelle primarie del Sud, i neri tendono a votare per Hillary.
«Sarà vero altrove — mi dice Monet Merchand, 26 anni — o forse per la generazione dei miei genitori. Io sono afroamericana e Millennial, forse conta più l’età che il colore della pelle. E poi ho scoperto una cosa bellissima su Sanders».
Sotto la pioggia comincia a digitare lo schermo del suo iPhone, finchè trova una vecchia foto di giornali: «Eccolo qua, Bernie da ragazzo, in una manifestazione per i diritti civili guidata da Martin Luther King. Questo è il punto: la coerenza. Io non faccio politica attiva, ho votato per Obama l’altra volta e poi basta. Sono contenta di votare di nuovo per qualcuno che può cambiare le cose. Hillary mi sembra una che posa, una finta».
Con un’altra ragazza in fila per entrare all’Apollo, ritorna quella parola dèmodè qui in America, socialismo. «Per me — dice Darilyn Castillo, 24 anni, che si autodefinisce metà nera e metà ispanica — oggi socialismo vuol dire accesso all’istruzione e alle cure mediche per tutti. Siamo in una società dove tornano a contare i privilegi alla nascita. Le opportunità per studiare si stanno restringendo di anno in anno, se sei un figlio di poveri o anche della middle class»
Il mio è un campione molto piccolo, non posso confutare i sondaggi, che indicano un radicamento ben più forte di Hillary nella comunità nera. Però una spiegazione alternativa me la offre un ragazzo bianco venuto anche lui qui ad Harlem per il raduno elettorale. Michael Daley, 26 enne scrittore free-lance: «L’idea che Hillary fosse molto più forte tra i neri è datata. Risale all’inizio di questa campagna, quando Sanders era sconosciuto da queste parti. Via via che hanno imparato a conoscerlo, si sono accorti di quanto hanno in comune con lui»
C’è un tema sul quale il cuore di Harlem è decisamente contro la Clinton. Anzi, contro i coniugi Clinton. Me lo spiega, già seduta dentro l’Apollo, Joyce McMillan, una nera di 30 anni, che si definisce «attivista di quartiere per i diritti umani».
«Odio le politiche che applicò Bill Clinton da presidente — dice la McMillan — perchè hanno inflitto danni enormi alla mia comunità . È sotto un Clinton che cominciò l’incarcerazione di massa; e poi i tagli drastici al Welfare. La coppia Hillary-Bill per me rappresenta tutto il contrario dei nostri interessi. I due hanno preso casa qui ad Harlem, ed ecco che è partita le gentrification, l’espulsione di ceti popolari dal quartiere, di fatto sempre meno afroamericano».
La serata si scalda di canti (“ Power to the People”), l’Apollo rimbomba di applausi quando Sanders prende la parola ed esalta «la vittoria di voi tutti con l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, la prova che l’America cambia con i movimenti dal basso, la vostra mobilitazione».
Il test di Harlem è incoraggiante per Sanders. Ma il 19 non vota solo New York City, roccaforte liberal. Il resto di questo grande Stato, che arriva fino ai confini col Canada, è più moderato o conservatore. La macchina del partito, dal governatore Andrew Cuomo al sindaco Bill de Blasio, sta con Hillary.
E poi c’è lo spettro di Donald Trump, favorito qui nelle primarie repubblicane. «A un certo punto — ammette il giovane Lawrence — dovremo tutti interrogarci sul voto utile, su chi sia il candidato migliore per sbarrare la strada a Trump».
Federico Rampini
(da “La Repubblica”)
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Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
NELLA PROVINCIA PIU’ POVERA DELLA GIORDANIA STORIA DI CONVIVENZA TRA MUSULMANI E CRISTIANESIMO
Medici cristiani e musulmani che lavorano in corsia, fianco a fianco, uniti nella comune dedizione all’umano ferito.
Siamo in Giordania, a Karak, cittadina di 60.000 abitanti situata nella provincia più povera del Paese, a 160 chilometri a sud da Amman.
Qui, dove i cristiani sono il 3% della popolazione, sorge «l’ospedale italiano», istituzione non profit fondata nel 1935 dall’ANSMI (Associazione Italiana per Soccorrere i Missionari Italiani) e gestita sin da allora dalle suore missionarie comboniane, che per sostenerne i costi fanno affidamento sulle donazioni di associazioni, parrocchie e singoli benefattori.
La storia di questo ospedale — dove lo scorso anno sono state assistite oltre 22.000 persone — svela l’alleanza tenace, la complicità bella e operosa che si accende tra gli esseri umani quando non si rassegnano al male e si battono contro la malattia e la sofferenza.
L’ospedale dei poveri
«La nostra struttura fa ormai parte della storia di questa città » osserva la direttrice, suor Adele Brambilla, 65 anni, che lavora affiancata da cinque consorelle. «Ci sentiamo rispettate dalle autorità religiose musulmane, con le quali abbiamo un buon rapporto, e la popolazione si fida di noi e della professionalità del nostro staff».
In questo ospedale lavorano stabilmente 80 persone e 8 dottori (6 musulmani e 2 cristiani), cui si aggiungono 53 medici specialisti presenti diversi giorni alla settimana in qualità di consulenti esterni: 12 cristiani e 41 di fede islamica.
Uno di loro è il chirurgo musulmano Awadh Dmour, sposato e padre di sei figli, che della sua esperienza professionale in questo ospedale dice: «mi piace molto lavorare qui, sia perchè sono nato in questa zona e quindi ho l’opportunità di aiutare la mia gente, sia perchè questa è una realtà sanitaria di alto livello, con un’ottima reputazione, ha personale molto affiatato e offre cure di qualità garantendo assistenza a tutti, specialmente ai più bisognosi».
Una missione comune
Il rapporto fra gli operatori sanitari cristiani e musulmani, racconta suor Adele, è molto buono: «c’è un clima di grande rispetto e familiarità che, per esempio, ci porta a festeggiare insieme le rispettive ricorrenze religiose.
Condividiamo gioie, speranze e fatiche ma, soprattutto, lavoriamo tutti con dedizione nella consapevolezza di avere una missione comune: curare ogni persona, a qualunque etnia e religione appartenga, con una attenzione speciale ai più poveri.
Il principio della cura, che ha ispirato la fondazione di questo ospedale, anima ciascuno di noi». Le fa eco il dottor Adwadh, che afferma: «penso sia una cosa molto importante, vitale direi, che dottori cristiani e musulmani lavorino insieme prendendosi cura delle persone sofferenti. Fra noi vi è grande collaborazione, non si fa differenza tra chi è cristiano e chi è musulmano, nè vi sono pregiudizi o barriere di sorta. Ci sosteniamo reciprocamente e facciamo un ottimo lavoro di squadra: per me questo ospedale è come una famiglia».
I profughi siriani
La maggior parte dei pazienti cristiani e musulmani appartiene ai ceti medio-bassi ma ci sono anche persone molto povere che non possono accedere al nosocomio governativo presente in città . E poi ci sono i profughi.
Nel corso dei decenni l’ospedale ha accolto dapprima quelli palestinesi, in seguito gli iracheni. Negli ultimi tempi, in collaborazione con la Caritas giordana e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), viene offerta assistenza sanitaria ai profughi siriani.
Molti giungono in questa regione per cercare di ricostruirsi una vita dopo aver abbandonato i campi allestiti nel nord della Giordania: «sono famiglie che hanno perso tutto, sono molto povere e cercano lavoro», dice suor Adele.
«Spesso decidono di vivere insieme, in condizioni di grande disagio: anche 15 persone in appartamenti di tre locali. Molti altri profughi cristiani e musulmani arrivano invece direttamente dalla Siria, dopo viaggi massacranti: e sono stremati. Un giorno giunse qui una donna al nono mese di gravidanza: era scappata da Homs, dove abitava, e aveva raggiunto Aleppo, poi era fuggita in un’altra città siriana e da lì aveva attraversato il confine per arrivare sino a Karak. Quando la ricoverammo era sfinita. Le chiesi perchè avesse affrontato quel viaggio terribile nelle sue condizioni e lei mi rispose con semplicità : “perchè mio figlio potesse venire alla luce in un posto sicuro”».
Le conseguenze della guerra
Alle molte malattie si aggiungono le ferite dell’anima: «nei loro occhi si leggono tutto l’orrore e il dolore che hanno vissuto», prosegue suor Adele.
«I bambini, in particolare, sono sotto shock: ricordo ancora una piccola che per lo spavento aveva perso di colpo tutti i capelli. A prostrare e avvilire profondamente gli adulti è soprattutto lo stato di precarietà e di incertezza nel quale sono costretti a vivere: non sanno cosa sarà di loro, nè se potranno mai fare ritorno nella loro terra».
Il dottor Awadh aggiunge: «la loro situazione suscita in me grande compassione; come medico sono molto preoccupato della loro salute perchè fanno fatica ad accedere all’assistenza medica che in Giordania, per chi non ha l’assicurazione, è a pagamento: sovente, quando sono ammalati, si rivolgono alle Ong locali per coprire le spese, ma non tutte le loro necessità trovano risposte immediate. Molto spesso devono aspettare a lungo. Questo è il motivo per cui noi, qui, facciamo tutto il possibile per aiutarli, soprattutto per le emergenze che non trovano risposta altrove».
Cristina Uguccioni
(da “La Stampa”)
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Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
MA SALVINI NON PUO’ SFRUTTARE LA NOTIZIA: ERA UN ITALIANO CHE A LONDRA HA UCCISO UN INGLESE E NE HA BOLLITO IL CORPO
La vittima, Gordon Semple, un poliziotto londinese di 59 anni, era scomparsa il 1 aprile. È stato trovato
dopo una decina di giorni in una vasca piena di acido, il corpo smembrato e fatto a pezzi.
Dopo giorni di indagini serrate ma infruttuose (anche amici e parenti di Semple avevano creato una pagina facebook per le segnalazioni) la svolta è arrivata grazie a una segnalazione dal quartiere di Southwark.
E nell’appartamento di Stefano Brizzi, 49 anni, assistente sociale originario di Pistoia, gli investigatori hanno rinvenuto i resti del cadavere di Semple, in avanzato stato di decomposizione.
Brizzi, da sei anni trasferitosi nella capitale inglese, è stato arrestato con l’accusa di omicidio. Il delitto sarebbe maturato all’interno della comunità gay londinese.
A lanciare l’allarme sulla scomparsa del poliziotto era stato il compagno, Gary Meeks. Semple era scomparso mentre stava andando al lavoro, a Westminster.
Era il primo aprile e non era tornato a casa. Una telecamera a circuito chiuso aveva ripreso l’agente lo stesso giorno proprio nella zona di Southwark, dopo una sosta all’hotel Shangri-La, all’interno dello Shard, uno dei nuovi grattacieli di Londra.
Nei giorni successivi alla sparizione alcuni vicini di casa di Stefano Brizzi avevano sentito cattivo odore provenire dall’appartamento dell’assistente sociale, situato nella Peabody Estate.
Martin Harris, 49 anni, ha parlato di «puzza di morte insopportabile». Aveva bussato alla porta di Brizzi per lamentarsi dell’odore.
«Mi ha aperto in costume e con un paio di occhiali – ha raccontato Harris ai media inglesi – Gli ho chiesto cosa stesse succedendo e mi ha detto che stava cucinando per un amico».
Alla minaccia di chiamare la polizia, Brizzi non si sarebbe scomposto più di tanto e avrebbe richiuso la porta.
Secondo gli inquirenti, il cadavere di Semple sarebbe stato messo a bagno nell’acido dopo il delitto, ma questo non sarebbe bastato per liberarsi del corpo, e Brizzi avrebbe cercato di bollire le parti rimaste.
Quando la polizia ha perquisito l’appartamento ha trovato i resti smembrati di Semple in una vasca piena di acido.
Scotland Yard non ha diffuso i dettagli sul tipo di ferite rinvenute sul cadavere, ma ha fatto sapere che «date le condizioni del corpo, sarà necessario del tempo per accertare la causa della morte».
Stefano Brizzi si è laureato all’università di Firenze, per poi trasferirsi a Londra circa sei anni fa. È stato prima programmatore per la Morgan Stanley e da qualche tempo lavorava come assistente sociale freelance per un’altra compagnia.
(da “il Tirreno“)
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Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
“SE TUTTI LO FANNO, POSSO ANCHE RITIRARE LA MIA CANDIDATURA E CONVERGERE SULLA MELONI”… MA NON CI SPIEGA PERCHE’ NON DOVREBBE RITIRARLA ANCHE LA MELONI… ALTRO CHE PELLEGRINAGGI A ORVIETO, LA VECCHIA CLASSE DIRIGENTE EX AN VA SPAZZATA VIA PER RICOSTRUIRE UNA DESTRA CREDIBILE
In una intervista al “Tempo”, Francesco Storace, candidato di se stesso e degli ex An confluiti in Azione Nazionale perchè non hanno trovato spazio altrove, ci illumina sulla futura strategia: “Sto incontrando tantissime persone per strada che mi dicono: “Però dovete stare uniti”.
Per sua fortuna non incontra chi pensa invece che sarebbe tempo che tutta la vecchia nomenklatura di ex An si ritrovasse “unita” ai giardinetti, a portare a spasso Fido.
Dopo averci propinato per mesi la teoria che Fdi e la Meloni sarebbero “divisivi”, salvo cavalcarne gli stessi temi, quelli che peraltro ripetono da 40 anni tutte le sedicenti destre italiche, Storace dal palco di Orvieto ora dice: “Meloni vuole fare il sindaco? Parliamone. Se da quattro candidati dobbiamo averne uno, voglio vedere anche gli altri andarsene”.
A parte che chi, come Marchini, non è “organico” al centrodestra non se ne andrebbe in ogni caso, visto che lavora alla sua lista civica da anni, prendiamo per buona l’idea: Bertolaso, Storace e la Meloni dovrebbero quindi fare un passo indietro.
E poi? Si andrebbe a ricercare un nome nuovo, capace di riunire il centrodestra?
No, sentite la brillante idea di Storace: “Se gli altri si ritirano io sono disponibile a ritirare a mia volta la candidatura per Giorgia Meloni, se tutto ciò avviene in un quadro unitario. Se gli altri però non hanno intenzione di ritirarsi e lei non dice nulla in proposito, è chiaro allora che noi ci candidiamo”.
Quindi scopriamo che si dovrebbero ritirare solo due su tre, e tutti a sostenere la Meloni.
Un’unione di rinnovato amore? Non proprio, si legge tra le righe: «Voglio capire se la Meloni vuole il consenso o meno, perchè per grazia ricevuta non si ottiene niente.”
Insomma dipende dall’offerta, gratis non si fa nulla.
Poi il messaggio: “Si va al ballottaggio con noi, senza non ci si va. Non ti puoi permettere di perdere nemmeno lo 0,1, figuriamoci il 5%”.
Quindi, in pratica, non c’è alcuna differenza sostanziale tra lui, la Meloni e Salvini: per la serie “Scherzi a parte” ha parlato del nulla per due mesi, divergenze politiche e culturali non ce ne sono, solo questioni di fondi della Fondazione An.
Ma soprattutto gli Alemanno e i finiani confluiti in Azione nazionale, quale “Grande destra” vogliono ricostruire?
Con Meloni e Salvini, giusto un circo Barnum con belve, illusionisti, clown e mangiafuoco.
Per non parlare di certi nomi da brivido che abbiamo visto pontificare a Orvieto, personaggi in attesa di giudizio (non degli elettori, ma dei magistrati).
E quale sarebbe la “destra moderna inclusiva” che vogliono costruire?
Quella che non ha una sola idea nuova e sa solo raccontare palle sulle ruspe ai campi nomadi?
O che picchia forte i battenti del portone (un tempo di palazzo Grazioli, ora quello dei cognati d’Italia) sperando che la mensa della Caritas gli assegni un buono pasto?
No, noi preferiamo che restino a digiuno: qualcuno ha pure riacquistato una linea decente, la mantengano.
Meglio una dieta autonoma che costringere gli italiani a tagliargli i viveri una volta per tutte.
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Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
“IL VECCHIO CENTRODESTRA NON ESISTE PIU’, L’UNICA PROPOSTA CREDIBILE E’ LA MIA LISTA”
È la Lista Marchini l’unica alternativa credibile per Roma, tuttavia sarebbe ben lieto di trovare
un’intesa con il candidato di Forza Italia Guido Bertolaso, purchè quest’ultimo accetti un ruolo puramente tecnico, seppur supportato da un ampio consenso politico. Parole e pensiero di Alfio Marchini, candidato sindaco della Capitale.
L’imprenditore apprezza le ripetute aperture effettuate nei suoi confronti dall’ex capo della Protezione Civile.
L’ultima ieri nel corso del programma In Mezz’Ora , dove, intervistato da Lucia Annunziata, Bertolaso dice: «Marchini è un altro candidato che ha una storia più simile alla mia. A Roma un binomio Bertolaso-Marchini sarebbe formidabile. Bertolaso sindaco e Marchini presidente del Consiglio comunale. Lui ha già esperienza di Assemblea capitolina, c’è stato per tre anni».
Bertolaso – che spiega come avrebbe voluto essere un candidato unitario, specificando però di non «aver spaccato io il centrodestra» – aggiunge che con Marchini «non c’è trattativa in corso» ma lascia aperto più d’uno spiraglio aggiungendo: «Magari ci sarà nei prossimi giorni, sulla base dell’esperienza del caso Passera a Milano».
Bertolaso ribadisce di non aver intenzione di ritirarsi ma, con Marchini, condivide l’idea sui partiti tradizionali: «Roma è stata terremotata dalla cattiva politica che in questi anni l’ha massacrata. Io non assolvo nessuno, nè centrodestra nè centrosinistra, e mi domando dove erano tutti questi signori che oggi parlano di legalità , pulizia, ripristino dei mezzi pubblici, negli anni passati. Non possiamo certo assolvere la giunta Alemanno e gettare la croce addosso al solo Ignazio Marino, che pure è stato imbarazzante».
Pensieri più volte rimarcati dallo stesso Marchini con i ripetuti attacchi a quel consociativismo ci cui sarebbero stati caratterizzati i rapporti tra maggioranza e opposizione negli ultimi anni.
Alfio Marchini risponde alle domande de Il Tempo sulla situazione della campagna elettorale in vista delle amministrative a Roma, ponendo alcuni paletti fermi: non ha intenzione di fare passi indietro, tiene aperto il dialogo con Bertolaso e Storace e a Giorgia Meloni chiede un gesto da leader, cioè il ritiro per convergere su un candidato unitario.
Marchini, ieri Bertolaso, ospite di In Mezz’Ora da Lucia Annunziata, ha attaccato centrosinistra e centrodestra indicandoli come corresponsabili di anni di mal governo. Accordo con lei in vista?
«Bertolaso ha confermato che il vecchio centrodestra non esiste più e che oggi a Roma l’unica proposta credibile è la Lista Marchini. Non posso che apprezzare»
Le ha anche mandato una proposta di alleanza. Cosa risponde?
«Porte aperte a chi con il proprio impegno ed esperienza vuole contribuire alla rinascita di Roma. La Lista Marchini lo fa da tre anni. Ma prima si studi il programma che presenteremo questo pomeriggio. Basta parlare di astrazioni politiche».
In caso di accordo comunque uno solo potrà essere sindaco. E l’altro cosa farebbe nel caso?
«Bertolaso ha dimostrato nella sua vita di non essere attaccato alle poltrone o ansioso di riconoscimenti formali. È un uomo che si realizza nell’azione. Nella risoluzione delle emergenze. Ma per farlo bisogna prima esser capaci anche di creare le condizioni e il consenso politico. Altrimenti si va a sbattere come Marino…».
Ma Bertolaso ha ben altra esperienza rispetto al chirurgo. Non trova?
«Assolutamente sì, ma è un tecnico puro. Ha sempre dato il massimo quando ha avuto le spalle coperte da una solida delega politica e credo che sia lui il primo ad esserne consapevole. In passato era garantito dal presidente del Consiglio di turno e domani dovrà esserlo dal sindaco»
Cosa intende dire con il suo slogan «liberi dai partiti?».
«Che voglio liberare le risorse e le migliori energie di questa città soffocate per decenni dai partiti. Non li demonizzo ma a Roma i fatti dicono che la destra e la sinistra hanno fallito. Devono aprire alle energie della società civile».
E lo stanno facendo?
«No. Si arroccano sempre più per difendere il loro fortino di privilegi e inefficienze. Se non si aprono verranno travolti e allo tsunami grillino che lascerà macerie dovrebbero preferire la nostra rivoluzione civile per cambiare davvero Roma»
La Meloni sostiene di essere il candidato più forte nel centrodestra ma il dialogo, con lei e Bertolaso non è mai decollato. Per colpa di chi?
«Umanamente la Meloni mi sta simpatica. Ma la sua grande debolezza è di essere organica a chi in passato ha gestito da protagonista questa città . Anche per questo non voleva candidarsi e per di più incinta. Su questo ultimo dettaglio, però, la hanno messa nelle condizioni umane di non poter non gettare il guanto di sfida. Ora deve dimostrare di essere un vero leader nazionale».
Come?
«Prendendo l’iniziativa per una sintesi che vada oltre il vecchio centrodestra e il legittimo interesse del suo partito. Ha l’occasione per riscattare una gestione di questi mesi un po’ confusa. Ma non credo lo farà ».
Dall’intesa con Bertolaso a Roma che da sempre è metafora del Paese, potrà nascere una nuova coalizione nazionale?
«Quando il candidato di Berlusconi punta il dito anche sul centrodestra per il fallimento di Roma e indica nella lista Marchini l’unico interlocutore credibile, si è già oltre i vecchi schemi politici nati a Roma nel 1993».
Parliamo dei problemi di Roma. Bertolaso le da atto di essere un uomo del fare. Cosa fareste insieme in caso di vittoria?
«La mia priorità è ridurre subito le tasse recuperando risorse nelle mille inefficienze. Sono tre anni che studio ogni dettaglio contabile e industriale. Si può e si deve fare. Su questo sbagliano clamorosamente sia la Raggi che Meloni. L’economia è ferma e continuare a pagare la spesa corrente con patrimonio e tasse vuol dire solo comprare tempo per un fallimento inevitabile. E nel frattempo, stiamo dissanguando cittadini e imprese. Basta».
Daniele Di Mario
(da “il Tempo”)
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Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
OGNI ANNO SPESI 87 MILIARDI PER BENI E SERVIZI, SOLO IL 17% DELLA SPESA E’ FATTA TRAMITE LA CENTRALE UNICA DEGLI ACQUISTI
Personal computer che potevano essere pagati 310 euro e che invece ne sono costati 373. Bollette annuali di un punto luce liquidate a 210 euro invece di 135. Stampanti in bianco e nero acquistabili per 36 euro e per le quali invece si è staccato un assegno di 103 euro.
Storie di tutti i giorni in buona parte delle amministrazioni pubbliche italiane, che spesso sprecano denaro pubblico senza cercare le migliori soluzioni sul mercato e sono poi costrette a rivalersi sui cittadini aumentando il prelievo fiscale o riducendo i servizi erogati alla collettività .
Comuni, Province, Regioni, Asl, Università , ministeri e organi costituzionali costituiscono un esercito di migliaia di soggetti che ogni anno spende più di 87 miliardi di euro per acquistare beni e servizi indispensabili al funzionamento della macchina pubblica.
E che non sfrutta le opportunità offerte dall’esistenza di una centrale unica di acquisto, gestita dal ministero dell’Economia tramite la Consip.
Soldi al vento
Nel 2015 – in base all’ultimo rapporto Mef-Istat – la Consip ha attivato strumenti di acquisto che hanno coperto forniture di beni e servizi presidiando 40 miliardi, mettendo in vetrina 7,5 milioni di articoli.
Le amministrazioni si sono rivolte alla centrale unica per un giro d’affari che ha intermediato 6,6 miliardi, il 17 per cento della loro spesa: cioè ancora soltanto un euro su sei transita da lì.
Da sola però questa percentuale ha generato risparmi per 3,2 miliardi di euro.
Se tutte le amministrazioni si fossero rivolte alla Consip o agli altri enti appaltanti, il risparmio per il bilancio dello Stato si sarebbe avvicinato virtualmente a 20 miliardi, quanto un’intera manovra.
Macchine d’oro
Sono tante le amministrazioni che non badano a spese quando si tratta di comprare automobili.
Il fatto che la maggior parte degli acquisti non siano per auto di fascia alta sembra far dimenticare che si può risparmiare anche su quelle piccole.
Così mediamente per una citycar i comuni pagano 9.707 euro, quando potrebbero comprare la stessa auto tramite Consip sborsando 7.911 euro, il 18 per cento in meno. Stesso discorso per le piccole 4×4: assegno medio di 13.099 euro contro i 12.139 di quello che si paga se si ricorre alla convenzione.
Lo spreco è ancora più evidente per i furgoni, che le amministrazioni locali acquistano pagandoli 15.945 euro quando potrebbero averli per 11.847: il “regalo” ai fornitori è pari al 25 per cento del valore.
Energia salata
Anche l’energia presenta un conto spesso ingiustificato. Se il canone annuale di un punto luce fuori convenzione è superiore del 35% rispetto a quello ottenibile tramite convenzione, è più caro anche il gas naturale, pagato 0,746 euro a metro cubo (Iva esclusa) contro 0,694 euro in convenzione Consip: quasi il 7% in più.
Denaro pubblico sprecato anche per il gasolio da riscaldamento: nell’insieme le amministrazioni lo pagano 0,68 euro al litro (Iva e accise escluse), il 5,66% in più di quanto potrebbero fare.
E in questo comparto spiccano per sprechi i ministeri, che lo pagano 0,699 euro, quasi il 10% in più del prezzo in convenzione.
Mani bucate anche per l’energia elettrica in bolletta: sono ancora i ministeri i più generosi e lasciano sul tavolo una “mancia” pubblica di oltre il 7%.
Caro fotocopie
L’amministrazione pubblica è notoriamente grande produttrice di documenti che riempiono faldoni su faldoni. Una morigeratezza sulle copie sarebbe doverosa. Invece lì la spesa corre.
Le amministrazioni locali nel 2014 hanno speso per ogni copia fatta da una macchina fotocopiatrice a noleggio capace di 35 copie al minuto 0,1158 euro per ogni foglio riprodotto.
Se si fossero servite dei servizi in convenzione avrebbero speso 0,0658 euro, il 43% in meno. Ancora peggio per le copie in bianco e nero: quelle fatte con appalti propri sono costate il 52,2% in più.
Hi tech fuori mercato
Se non tutti hanno dimestichezza con i prezzi delle fotocopie, più facile è capire il livello degli sprechi se si affronta il comparto dei computer.
Un desktop ultracompatto comprato da un ministero ha un prezzo medio di 403 euro, mentre con l’acquisto agevolato lo si può avere a 310 euro, il 23 per cento in meno: ogni 4 acquistati, in pratica, uno sarebbe gratis, ma le amministrazioni centrali non lo sanno o preferiscono non saperlo.
E chiudono gli occhi anche sui server: 2.690 euro per un midrange rack da 19 pollici sono troppo pochi, meglio pagarlo 3.765 euro, il 28 per cento in più. Tanto paga Pantalone.
Fabio Bogo
(da “La Repubblica”)
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Aprile 11th, 2016 Riccardo Fucile
IL RICORSO DEGLI ESCLUSI RISCHIA DI RIMETTERE IN FORSE LA VITTORIA ANNUNCIATA
Una spada di Damocle pende sulla testa del M5S a Roma. 
Nel processo civile che s’è aperto nella capitale sul ricorso degli esclusi dalle liste, il giudice ha respinto la prima istanza degli avvocati di Grillo e Casaleggio (spostare il processo a Genova, molto probabilmente scavallando le elezioni amministrative), e dunque deciderà a inizio settimana.
Il giudice potrebbe – nell’ipotesi peggiore per Casaleggio e il direttorio – sentenziare che le primarie di Roma vanno rifatte. Nell’ipotesi più lieve, limitarsi a reintegrare gli espulsi dalle liste. Improbabile una terza opzione.
La storia merita di essere raccontata nel dettaglio perchè potrebbe avere conseguenze politiche molto rilevanti, e delinea un’opacità politica (forse anche giuridica) nella presentazione delle liste e nella costituzione dell’associazione (anzi, le associazioni) che stanno dietro al Movimento e alle sue competizioni elettorali.
I fatti sono questi: lunedì scorso la terza sezione del tribunale civile di Roma ha discusso il ricorso di una serie di espulsi, il più noto è Roberto Motta – uno dei fondatori del Movimento romano, a lungo il braccio destro di Roberta Lombardi – su una serie di questioni giuridiche potenzialmente dirompenti.
Gli espulsi (ed esclusi dalle liste), difesi dall’avvocato Lorenzo Borrè, obiettano che l’associazione giuridica che li ha espulsi non è la stessa a cui sono iscritti.
Quella a cui sono iscritti è “MoVimento cinque stelle” (l’associazione originaria, nata il 4 ottobre 2009, trentamila iscritti), quella che li fa fuori è “Movimento cinque stelle” (con la v minuscola, nata il 14 dicembre 2012, con solo quattro iscritti fino al 2015: Beppe Grillo, Enrico Grillo, Enrico Maria Nadasi e Gianroberto Casaleggio). Traduzione: la seconda associazione espelle gente che non è iscritta a quell’associazione ma a un’altra; e lo fa in base a un regolamento che secondo gli espulsi è fittizio (varato il 23 dicembre 2014, sarebbe giuridicamente inesistente perchè si configura come una modifica del non-statuto dell’associazione originaria; ma una modifica, in assenza di altre prescrizioni, richiede – secondo il codice civile – un voto dell’assemblea. Voto che non c’è mai stato, e assemblea che mai s’è riunita).
La Casaleggio ha spedito al processo quattro avvocati; segno di quanto sia cruciale la partita: Andrea Longo (figlio di Ugo, che fu avvocato di Sergio Cragnotti e fu presidente della Lazio – insomma, come nel caso di Raggi, siamo nei dintorni del giro laziale-Romanord), Massimo Togna (sempre dello studio Longo), Francesco Bellocchio (del foro di Milano) e Paolo Moricone (avvocato per il M5S Lazio).
I quali obiettano che le due associazioni sono «in continuità giuridica», e per questo chiedevano di spostare il processo a Genova (dove ha sede la nuova associazione; la prima non ha sede). Il giudice su questo ha dato loro torto.
Le richieste degli espulsi sono serissime: sancire l’illegittimità della costituzione dell’associazione che fa le espulsioni, per «difetto d’interesse giuridico»; sancire quindi l’illegittimità delle espulsioni; infine indire il rinnovo delle primarie di Roma (quelle della Raggi candidata sindaco).
Gli avvocati della Casaleggio replicano che la presentazione della seconda associazione era «necessaria» perchè la nuova legge così prescriveva, per potersi presentare alle politiche.
Certo la vicenda avviene nella totale non trasparenza, politica e giornalistica, su un aspetto decisivo di democrazia che va molto oltre i casi degli esclusi dalle candidature.
C’è un dulcis in fundo: la seconda associazione – quella di cui gli espulsi contestano la legittimità – il 12 dicembre del 2015 cambia nome e assume, guarda caso, il nome della prima – “MoVimento cinque stelle” con la V maiuscola.
Siamo stati in grado di consultare l’atto notarile con cui questo avviene, presso il notaio Valerio Tacchini, di Milano, al numero 135306/18791.
Ma perchè l’associazione dei quattro (Beppe Grillo-Enrico Grillo-Nadasi-Casaleggio) sovrappone il vecchio nome alla nuova associazione solo in un secondo momento? Casaleggio scrive che nel Movimento «non ci sono capi». Ma proprio il Regolamento contestato (leggibile comodamente online all’indirizzo http://www.beppegrillo.it/movimento/regolamento/) fissa, al punto 3, che esiste un «capo politico»: colui che, tra l’altro «indice l’assemblea per le pronunzie sulle espulsioni».
Un groviglio di contraddizioni politiche. Se siano anche giuridiche, decideranno i giudici.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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