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INTERVISTA A TOUIL: “GRAZIE ITALIA PER LE INDAGINI, I TERRORISTI SONO FOLLI ASSASSINI”

“IO ACCUSATO DELLA STRAGE DEL BARDO MI RIPRENDO LA VITA E SOGNO DI RESTARE QUI”

Muove la mano lentamente portandola dal ginocchio verso le guance. Al netto del gonfiore indotto dai farmaci, hanno ripreso carne.
“Vorrei fare il saldatore, il lavoro per il quale ho studiato. Intanto spero che la Tunisia, dopo quello che ho passato, mi riconosca un risarcimento”.
Gli occhi puliti, il sorriso largo e la felpa della tuta indossata sopra una maglietta rossa come il divano inondato di luce sul quale siedono anche l’avvocato e l’interprete. L’appuntamento con Abdel Mayid Touil è alle quattro del pomeriggio nella casa di Gaggiano: prima intervista da quando ha smesso di essere il “fantasma” della strage del Bardo.
Un terrorista, anzi, uno stragista che invece non era, perchè il 18 marzo 2015, alle 12.30 tunisine, le 13.30 italiane, mentre i bombaroli dell’Is spargevano sangue nel museo Bardo a Tunisi (24 morti tra cui quattro italiani), lui era qui e nemmeno sapeva cosa stava succedendo, nella camera condivisa col fratello, a vedere la televisione.
“Per le autorità  tunisine ero l’autista del commando. Guidavo la macchina con a bordo armi e cinture esplosive…”.
Affrettati furono i complimenti alle forze dell’ordine da parte del ministro degli Interni e del presidente del Consiglio: Touil – accerteranno poi le indagini, fino alla scarcerazione e all’archiviazione – era innocente.
Estraneo ai fatti.
Sorride. “Tutta colpa di una maledetta scheda telefonica…”. Gliela rubano assieme al passaporto gli scafisti ai quali il 22 marocchino – ora in attesa di permesso di soggiorno per motivi umanitari – si affida per venire in Italia con una barca salpata dalle coste libiche per Porto Empedocle.
La sfortuna nera di Touil è questa: uno dei trafficanti di uomini, Abdel Ghandri, è anche tra gli organizzatori dell’attentato del Bardo.
Usa la scheda del ragazzo, forse anche il passaporto. In più, sul cellulare di Ghandri, restano tracce delle telefonate che Touil fa nei giorni prima di imbarcarsi per sapere come muoversi nel “viaggio della speranza”. Risultato: cinque mesi di carcere a Opera e (dopo due giorni nel Cie di Torino) altri cinque mesi di cure per curare lo choc.
Come sta ?
“Meglio. Sto riprendendo la mia vita. A volte faccio ancora il sogno che, durante la detenzione, era diventato una fissazione: ci sono degli uomini incappucciati che mi portano via. Forse in Tunisia (dove se l’Italia lo avesse estradato Touil rischiava la pena di morte, ndr)”.
Chi sono, poliziotti o terroristi o chi altro?
“Non so. In questi mesi sono stato male: quando sono uscito dal Cie non riconoscevo nemmeno mia madre, ero diffidente con tutti, incattivito, non sapevo cosa mi stava succedendo. Anche se mi avevano appena liberato”.
Partiamo dall’arresto: 19 maggio 2015, qui sotto casa.
“Erano le 9 del mattino, ero appena uscito. Arrivo in fondo a via Pitagora e mi fermano due agenti della polizia locale. Un uomo e una donna, in divisa. Mi chiedono i documenti. Avevo solo la carta d’identità  marocchina, era sopravvissuta ai furti degli scafisti perchè l’avevo nascosta nei calzini. Mi portano a Vigano (frazione del Comune di Gaggiano), poi mi consegnano ad altri poliziotti che mi portano in questura a Milano”.
Spiegandole cosa?
“Niente. Io credevo fosse un controllo legato ai documenti (Touil era clandestino, ora ha un permesso di soggiorno di sei mesi, ndr). Alle sei di sera mi riportano qui (nell’appartamento dove vive con la madre Fatima, il padre Sidi Jader e la sorella quattordicenne Khadija). Dodici poliziotti perquisiscono casa fino alle 23: rovistano dappertutto, portano via due chiavette Usb, il mio cellulare e due schede, una italiana e una marocchina. Mi trasferiscono in carcere a San Vittore”.
Mandato di cattura internazionale. Primo interrogatorio, il 22 maggio.
“Mi dicono: ‘Lei è stato arrestato per la strage del Bardo'”.
Che cosa ha pensato?
“Ero sconvolto. Accusato di una strage di cui non sapevo niente. Scopro di essere un terrorista dell’Is. Io che non sono nemmeno particolarmente osservante: prego, sì, ma sono fermamente contrario a ogni forma di Islam radicale. In carcere non ho fatto nemmeno il Ramadan”.
Cinque mesi dietro le sbarre.
“Non mi sentivo più un essere umano. Non avevo rapporti con altri detenuti. Nè musulmani (le disposizioni antiterrorismo vietano i contatti tra carcerati di lingua araba) nè italiani. Unica eccezione: un anziano detenuto con cui facevo l’ora d’aria. Ma io non parlo ancora italiano. Provavamo a capirci a gesti”.
Il suo caso era diventato un mistero: per la Tunisia – che ha chiesto l’arresto – era un terrorista; per l’Italia – che ha eseguito – nei giorni della strage del Bardo lei era a Gaggiano.
“Sono sempre stato qui, tra casa e scuola (a Trezzano sul Naviglio, ndr). Come hanno   confermato da subito, oltre ai miei familiari, gli insegnanti. Il 18 marzo non sono andato a scuola perchè non c’era lezione. Il giorno prima e il giorno dopo, si”.
Difficile che un clandestino che ha impiegato quasi un mese per raggiungere l’Italia riesca a andare da Gaggiano a Tunisi e tornare in giornata.
“Evidentemente per le autorità  tunisine non era così difficile”.
Il problema era la ‘connessione’, a sua insaputa, coi terroristi. Per via della sim card. Quando, come e perchè è venuto in Italia?
“I primi giorni di febbraio decido di raggiungere la mia famiglia. Mi affido a un amico, Salah, che oggi vive in Spagna. Lui ha il contatto con gli scafisti. Pago 500 dollari per il viaggio in nave. Più le spese per l’aereo e gli alberghi. Da Bèni Mellal – la mia città , dove vendevo menta e prezzemolo per strada – parto per Casablanca. Poi in aereo per Tunisi. Dopo tre giorni raggiungiamo la Libia in auto. Aspettiamo dieci giorni e ci imbarchiamo, destinazione Porto Empedocle. La scheda con cui avevamo chiamato Abdel Ghandri – e chi poteva immaginare fosse un terrorista dell’Is – me l’hanno rubata gli scafisti prima di entrare in Libia: l’avevo comprata a Tunisi per chiamare i miei genitori e dire che stava andando tutto bene”.
Siamo al viaggio in nave.
“Eravamo in 300-400. Prima di salpare gli scafisti mi hanno sottratto il passaporto e il cellulare: fanno così con tutti. Via telefono e documenti. Ti rendono un fantasma, uno schiavo. Così diventa più difficile risalire a loro. E poi utilizzano i documenti per avere false identità . Siamo partiti alle due di notte di venerdì e arrivati il lunedì (è il 17 febbraio 2015) a Porto Empedocle. Alle cinque del mattino ci ha fermato la Marina, siamo stati in mezzo al mare fino al giorno dopo”.
La scheda di Touil – accertano le indagini – ha un “buco” di un mese: risulta silente, per poi riattivarsi quando Ghandri la utilizza per chiamare gli altri terroristi del Bardo. Porto Empedocle. Poi?
“Sono stato fotosegnalato, mi hanno dato tre carte e mi hanno lasciato andare. A Catania – con la carta d’identità  marocchina – compro una scheda telefonica e raggiungo Milano in pullman. Il 19 febbraio – un mese prima della strage – sono qui a Gaggiano. Ho iniziato a andare a scuola: ogni lunedì e giovedì pomeriggio. Rina e Flavia sono le insegnanti che mi hanno aiutato tanto, le voglio ringraziare. Adesso ho ripreso i corsi, tre volte la settimana”.
Che cosa pensa dell’Is e degli attentati che stanno insanguinando l’Europa e non solo?
“Questi terroristi non sono musulmani. Sono dei folli criminali assassini che non hanno niente a che vedere con l’Islam. I veri musulmani non uccidono. Ho paura anche io, quando vedi persone morire così è impressionante”.
Il suo rapporto con l’Islam?
“Prego, come tutti. Ma non frequento moschee. Quando vivevo a Beni Mellal andavo solo alla preghiera del venerdì”.
Lei è una vittima della giustizia: le autorità  tunisine avevano chiesto l’estradizione e, se l’Italia non avesse respinto la richiesta, lei rischiava la pena di morte.
“Ringrazio l’Italia perchè per fortuna le indagini hanno accertato la verità , e questo incubo è finito. Amo l’Italia, voglio vivere qui. Ora voglio regolarizzare la mia posizione (il permesso di soggiorno per motivi umanitari chiesto dal legale di Touil, Silvia Fiorentino, dovrebbe arrivare presto), stare con la mia famiglia e trovare un lavoro. Non vedo l’ora di poter iniziare a lavorare. Intanto vado a scuola, faccio jogging con mio padre e il pomeriggio, quando posso, vado a Milano con gli amici”.
Come l’hanno accolta?
“Con grande affetto. Sapevano che ero in carcere da innocente, mi vedevano in tv ed erano sbalorditi”.

Paolo Berizzi
(da “la Repubblica”)

This entry was posted on lunedì, Aprile 11th, 2016 at 21:53 and is filed under Giustizia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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