Settembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
“SE SALA CI RICEVE GLI SPIEGHIAMO COME FACCIAMO”… “QUANDO SOFFIA IL VENTO DEL CAMBIAMENTO, NON SERVE COSTRUIRE MURI MA MULINI”
“I soldi per i profughi ci sono. I progetti anche. Rendiamo trasparenti i bilanci a faremo grandi cose”. 
Antonio Calò, docente di Filosofia di Treviso non usa mezze parole, soprattutto dopo aver letto l’intervento del sindaco di Milano Giuseppe Sala, tanto che ha chiesto di incontrarlo subito.
È stanco di vedere i profughi seduti nei parchi o vagabondare per le strade senza fare nulla, ma soprattutto è stanco di vedere un’Italia che non sfrutta appieno le sue risorse. Da quindici mesi lui, la moglie Nicoletta Ferrara e i loro quattro figli, vivono con sei migranti africani. Una famiglia allargata di dodici persone.
Una scelta costata inizialmente una pioggia di insulti da parte di chi li accusava di speculare sui richiedenti asilo.
In realtà , è proprio grazie a questa esperienza che Calò ha elaborato un sistema di accoglienza per i migranti che non è passato inosservato.
E la sua proposta ha ricevuto proprio ieri l’elogio ufficiale dal presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker.
Oggi una struttura di accoglienza riceve circa 30 euro al giorno per migrante da finanziamenti europei e in parte italiani. Due euro e mezzo sono per i richiedenti asilo, il resto va alla struttura.
“Condivido ogni parola di Sala – spiega Calò, premiato per il suo esempio di generosità dal presidente Sergio Mattarella – Accogliendo sei migranti ci siamo ritrovati a gestire 5400 euro al mese. Noi siamo la dimostrazione che con quei soldi si può fare tantissimo e si può dare lavoro ad altre persone come abbiamo fatto assumendo una psicologa e una persona tuttofare per aiutarci”.
Calò sostiene che dovrebbe essere necessario un decreto governativo che approvi un modello organizzativo unico di accoglienza, applicabile su tutto il territorio e magari oltre.
“Se ogni Comune accogliesse sei migranti – prosegue – e nelle città più grandi ne fossero collocati sei per ogni quartiere in un appartamento, si creerebbero piccoli nuclei di persone che possono essere controllate e formate”.
I soldi dei Calò vengono suddivisi così: mille euro per le spese alimentari, 1400 per la signora tuttofare, 450 come paghetta, 600 euro in bollette e servizi casa, 300 per la cooperativa, 300 per spese sanitarie, 250 per benzina, 700 per la psicologa e i 400 che avanzano per altre voci come avvocato o ricongiungimento familiari.
“Qui arriva un’umanità ferita – continua – dobbiamo smetterla di considerarli ospiti, ma futuri cittadini”.
La novità del modello Calò è che contempla delle figure obbligatorie (la psicologa, l’insegnante di italiano, l’educatore) che attualmente sono facoltative.
La famiglia abita a Camalò di Povegliano, duemila anime nel trevigiano. Qui, tra le bandiere a favore dell’indipendenza del Veneto, sul tetto dei Calò ne sventola una blu con un cerchio di dodici stelle. È il sogno dell’Europa che vorrebbero.
E a chi domanda cosa ne pensano di un’Europa che invece alza gli scudi, rispondono: “Quando soffia il vento del cambiamento, c’è chi costruisce muri e chi mulini”.
Vera Mantengoli
(da “La Repubblica”)
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Settembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
IN PATTUGLIA LUNGO IL CONFINE TRA ITALIA E FRANCIA: “STIPATI COME BESTIE”… “HANNO UNA DETERMINAZIONE INCREDIBILE, NON LI FERMI IN NESSUN MODO”
L’appuntamento è alle otto di sera in un parcheggio poco illuminato. I migranti aspettano immersi nell’oscurità . Succede tutto in pochi secondi: arriva un’Alfa 147, si ferma dietro un camion, il conducente contratta senza scendere, salgono a bordo in quattro.
L’auto riparte e dopo poche centinaia di metri imbocca lo svincolo per l’autostrada, direzione Nizza. È appena sceso il buio su Ventimiglia e per i trafficanti di uomini inizia l’ennesima notte di lavoro.
Il complice che fa da piantone nei pressi della frontiera dà il via libera al telefono. L’auto staffetta passa senza problemi, ormai sembra fatta. E invece. Al casello la vettura con a bordo i migranti viene sorpassata e bloccata da una macchina civetta e da una moto della Polizia di frontiera. Fine della corsa. Il passeur sembra incredulo, scende con le braccia incrociate sopra la testa e si lascia ammanettare. Sfodera un ghigno beffardo.
I documenti dicono: 42 anni, cittadinanza portoghese, residente a Nizza. In tasca gli trovano 400 euro: la somma pagata dai disperati per un passaggio a vuoto verso l’Europa. La rete dei passatori
Le vie dei passeur sono infinite. Hanno auto, furgoni, camper, Tir. Percorrono l’autostrada, la statale del Tenda o le strade di montagna che nell’entroterra portano a Sospel, sopra Mentone. Per muoversi, di solito, prediligono la notte. Ma a volte tentano di confondersi nel traffico delle ore di punta.
Da inizio anno la polizia di frontiera di Ventimiglia ne ha arrestati 41 (di cui uno italiano). «Non sono balordi improvvisati, qui parliamo di una vera e propria organizzazione criminale», spiega il dirigente Martino Santacroce.
«C’è chi recluta i migranti, chi raccoglie i soldi, chi cura la logistica e chi guida le vetture oltre il confine». Il viaggio costa caro: per una manciata di chilometri i trafficanti di uomini chiedono dai 100 ai 500 euro a persona.
«È un viavai continuo», sussurrano gli anziani al bar sulla strada che da Ventimiglia s’inerpica verso il Tenda. In principio erano sigarette, caffè, cioccolata. Poi è stato il turno di soldi e droga. Oggi i migranti. Sono loro l’ultimo business degli spalloni. Nell’Europa dei nuovi muri e dei fili spinati gli essere umani diventano merce.
In fuga verso l’Europa
«Al campo del Parco Roja registriamo in media un centinaio di nuovi arrivi giornalieri», spiega Fiamma Cogliolo, operatrice della Croce Rossa.
Ma il numero complessivo degli ospiti resta stabile intorno a 700. «Significa che ogni notte decine di migranti tentano di attraversare il confine».
Come ha fatto Manu, 18 anni, eritreo e un sogno nobile nel cuore: diventare medico a Parigi. «È arrivato qui da noi, ma ci ha subito detto che voleva andare in Francia», raccontano i volontari del campo. «Aveva attraversato a piedi il deserto, aveva vissuto l’inferno delle carceri libiche. È stato qui una settimana. Una sera è sparito. Tre giorni dopo è arrivato un suo messaggio: “Sono a Parigi. Grazie di tutto”».
La maggior parte dei migranti tenta di raggiungere la Francia a piedi o con il treno. Non sempre il viaggio prevede un lieto fine.
La scorsa settimana un giovane è morto precipitando sull’autostrada appena oltre il confine. Si era inerpicato lungo il proibitivo sentiero del Passo della morte.
«Questi ragazzi hanno una determinazione incredibile – racconta Cogliolo -, non li fermi in nessun modo».
Chi se lo può permettere, invece, si affida ai contrabbandieri di uomini. Nella Calais italiana gli spalloni ronzano intorno alla stazione ferroviaria, vicino agli scogli del confine di San Ludovico o attorno alla chiesa delle Gianchette. Qui, da settimane, sono ospitati in cento tra donne e bambini.
«Da fine luglio abbiamo accolto almeno 600 persone», spiega Maurizio Marmo, direttore della Caritas. «Ogni sera c’è qualcuno che parte. La maggioranza viene respinta, qualcuno ce la fa. Noi proviamo a sconsigliarli, ma non ci ascoltano perchè ottenere l’asilo non è facile e richiede molto tempo».
Nel furgone senza aria
I contrabbandieri di uomini cercano di ridurre i rischi al minimo. I controlli a campione sono necessari, ma spesso inconcludenti.
Per un passeur che finisce in manette, decine la fanno franca.
«È fondamentale l’attività di intelligence: appostamenti, pedinamenti, conoscenza del territorio», spiega il dirigente della Polizia di frontiera.
La settimana scorsa è stato arrestato un cittadino bulgaro, trasportava sul camion sette migranti. Erano invece in 26 i disperati stipati dentro un furgoncino bloccato il 14 luglio a Sospel. «Ammassati all’inverosimile, chiusi dall’esterno con un lucchetto. Quando abbiamo aperto il portellone, alcuni stavano per soffocare», raccontano gli agenti.
Al volante c’erano due marocchini regolari in Italia. Pochi giorni prima a finire in manette era stato un cittadino tunisino che aveva nascosto nel bagagliaio della sua automobile un’intera famiglia afghana. Padre, madre e tre figlie. «Erano sporchi e stremati. I miei agenti hanno lavato le bimbe e sono andati all’Ovs a comprare vestiti decenti», racconta Santacroce.
A tarda notte i migranti, fermati qualche ora prima a bordo dell’auto guidata dal passeur, sonnecchiano sulle panche di legno negli uffici della Polizia di frontiera.
Tre hanno sedici anni. Arthur viaggia da solo, è partito sei mesi fa dal Mali. Ha il viso da bambino. La sua esistenza precaria sta dentro una sacca di tela: la maglietta di ricambio, il telefonino, la bottiglia d’acqua.
«Il mio sogno è vivere in Francia. Là non conosco nessuno, non ho parenti, ma almeno potrò studiare». Il maggiorenne è ivoriano. Ha la faccia stravolta dalla fatica, gli occhi arrossati, la voce impastata.
Dice: «Sono stanco, non ce la faccio più». Poi, come un disco rotto, smette di rispondere alle domande e ripete: «Voglio fermarmi, voglio solo fermarmi».
Gabriele Martini
(da “La Stampa”)
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Settembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
BARRIERE ARCHITETTONICHE, LA DENUNCIA DELLA CORTE DEI CONTI: “NEL 2008 LO STATO STANZIAVA 4 MILIONI, OGGI RIDOTTI A ZERO”
La barriera architettonica che ferma lo Stato è lo Stato. 
Alla fine degli anni Ottanta il governo italiano si impegnò coi suoi cittadini per rimuovere ogni ostacolo alla mobilità nei luoghi pubblici.
Si promisero anche contributi ai disabili che, in casa propria, volevano installare un ascensore, un servoscala, uno scivolo mobile. Nel 2016 il bilancio di tali promesse è la cronaca di un fallimento.
Come di fronte a un marciapiede troppo alto, l’attività del ministero delle Infrastrutture si è bloccata.
I due fondi statali creati ad hoc si sono prosciugati anni fa. I milioni stanziati per rendere accessibili gli edifici pubblici se li sono accaparrati, con scelta assai discutibile, le caserme della Finanza, dei Carabinieri, della Polizia.
E mancano ancora 300 milioni di euro per rimborsare i lavori che, nel frattempo, le famiglie hanno fatto completamente di tasca propria contando su una legge fantasma.
LA LEGGE DELLE FALSE PROMESSE
Torniamo al 1989, governo De Mita. La legge 13, promulgata a gennaio, introduce un principio rivoluzionario: chi è portatore di handicap e vuole abbattere una barriera architettonica nella sua abitazione può chiedere un contributo allo Stato.
Entro i 2.500 euro si viene rimborsati del tutto, il 25 per cento se la spesa non supera i 12.500.
La norma istituisce anche un fondo, che però è a secco dal 2004. La legge 13, infatti, è stata bocciata dalla Corte Costituzionale, con la motivazione che il superamento delle barriere architettoniche – dopo la riforma del Titolo V – diventa di competenza delle Regioni, compresa la copertura finanziaria.
La logica suggerirebbe di modificare quella legge svuotata e avvertire i cittadini, ma niente di tutto questo accade. Le domande di rimborso hanno continuato, e continuano tuttora, a impilarsi una sull’altra.
IN ATTESA DAGLI ANNI NOVANTA
Dal 2004 la palla è passata, inevitabilmente, alle Regioni. Nella Conferenza dei governatori del 3 febbraio scorso è stato calcolato che dal 2010 al 2015 sono arrivate richieste di rimborsi per abbattimento barriere architettoniche per 450 milioni di euro.
Di questi solo 150 milioni sono stati coperti dai bilanci delle Regioni.
In Emilia Romagna ci sono famiglie che hanno chiesto il contributo per un ascensore negli anni Novanta e ancora aspettano. Per dire.
All’ufficio “Politiche abitative” contano circa 8.000 pratiche da smaltire, per cui servirebbero 36 milioni.
Denaro che l’Emilia Romagna non ha, infatti dal 2012 l’erogazione dei rimborsi si è fermata e nel 2014 è stato deciso di ripartire da zero con nuove graduatorie basate sul modello Isee del richiedente.
Stessa storia in Veneto: dal 2014 la Regione non riesce più a mettere un euro per i disabili e l’ultimo finanziamento di una certa sostanza risale al 2012 con 3 milioni per l’accessibilità di chiese e nelle parrocchie.
La delibera più recente nell’archivio online del Lazio, invece, è datata 2011: si mettono 5,5 milioni per il 2011-2013, “considerato che in graduatoria risultano ancora 2.337 domande non soddisfatte per l’invalidità totale e 663 per quella parziale. A causa delle esigue risorse, per le precedenti annualità si finanziano solo le invalidità totali”.
I SOLDI ALLE STRUTTURE MILITARI
Interpellato da Repubblica, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio fa sapere di “stare valutando il rifinanziamento del fondo della legge 13, nella prossima legge di stabilità “.
Qualcuno però dovrà anche spiegare che ne è del Capitolo n° 7344 del bilancio del Mit, quello per l'”l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici pubblici”.
Nel 2012 è stato azzerato.
La Corte dei Conti ha ricostruito la destinazione dei 30,5 milioni assegnati ai Provveditorati tra il 2008 e il 2011. Puglia: “I lavori soprattutto in caserme di Carabinieri e Finanza, edifici della Polizia e la prefettura di Bari”. Basilicata: “Impiego prevalente presso caserme”. Piemonte: “Prevalentemente immobili di corpi militari e organi della sicurezza”. Sicilia e Calabria: “Lavori sempre per strutture militari e sicurezza”.
LE BRICIOLE AI MUSEI
Non va meglio a musei e luoghi di cultura. Su un totale di 4.588 siti, solo un terzo ha servizi per disabili.
Gli investimenti del dicastero dei Beni Culturali per il superamento delle barriere sono minimi: in cinque anni (2008- 2013) appena 420mila euro, il 18 per cento dei lavori previsti. La conclusione del magistrato contabile la dice lunga sulla solidità della promessa che lo Stato italiano ha fatto ai suoi cittadini disabili: “Non si riesce ad accertare come siano state prese queste decisioni, non è possibile sapere perchè gli stessi interventi in caserme diverse siano costati somme molto diverse”.
Fabio Tonacci
(da “La Repubblica“)
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Settembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
LA CORTESIA E L’EDUCAZIONE NON SONO INUTILI ORPELLI DI UN MONDO CORROTTO, SONO IL MINIMO CHE RIMANE QUANDO TUTTO IL RESTO MANCA
Noi a Roma quando siamo in ritardo diciamo che è colpa del traffico. Lo possono dire tutti tranne chi è responsabile del buon funzionamento della circolazione: per esempio il primo cittadino di Roma non lo può dire.
Infatti la sindaca Raggi per motivare la buca data al presidente del Coni Giovanni Malagò ha addotto “motivi istituzionali”: peccato fosse a mangiare un minestrone di verdure al Ristorante Cucina romana da Dino in zona Piazza Indipendenza.
E così le è rimasta la spiegazione più generica del mondo “ho avuto un contrattempo e non sono riuscita ad arrivare puntuale”, frase che non regge neppure se a dirla è lo studente che si giustifica per il ritardo alla prima ora.
Che poi la medesima persona chiami in causa “l’irresponsabilità ” per giustificare la rinuncia alla candidatura olimpica della capitale del paese è, a dir poco, un ossimoro. Perchè la Raggi non ha detto questo suo legittimo pensiero attorno al tavolo cui lei era attesa dalle persone che aveva chiamato a convegno ma ai giornalisti dopo che, a causa del suo ritardo, era saltato l’appuntamento con il presidente del Coni.
Giovanni Malagò uscendo ha spiegato: “Siamo entrati alle 14:23 in Campidoglio e ci hanno fatto accomodare nel salottino della sindaca. Attorno alle 15 ho chiesto per la seconda volta notizie della sindaca e mi è stato riferito che stava arrivando, aveva un incontro istituzionale con il ministro Delrio. Alle 15:07 abbiamo detto che magari se ci vuole parlare, ci dedica più attenzione e rispetto nei confronti del mondo che rappresentiamo. Ce ne andiamo perchè 35 minuti di attesa sono troppi, abbiamo stravolto le nostre agende per essere puntuali e per più di mezz’ora abbiamo aspettato… è troppo”.
“Ho avuto un contrattempo” è il più comune dei luoghi comuni e i luoghi comuni sono come i proverbi: non dicono tutto ma quello che dicono è vero.
Qui, quello che emerge, è semplicemente la maleducazione.
Non è tutta colpa del relativismo e del deserto di valori e dei conflitti economici tra le multinazionali e i partiti: a volte il motivo è una solida e ben radicata maleducazione, tutto qui.
Non si fanno attendere le persone, si saluta quando si entra in una stanza, non si dà del tu ai grandi e a chi non si conosce, se sbagli chiedi scusa e appena possibile ripari, e così via.
Piccole e poche regole che rendono una società , una “società civile”.
Che rendono la convivenza desiderabile, che rendono credibile la serietà di una persona. Che rendono possibile mettere intorno a un tavolo quelli del Sì e quelli del No, quale che sia la questione.
La cortesia e l’educazione non sono inutili orpelli di un mondo ipocrita e corrotto: sono il minimo che rimane quando tutto il resto manca.
E quando manca anche questo è davvero difficile ripartire.
Mauro Leonardi
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 23rd, 2016 Riccardo Fucile
L’ORO OLIMPICO A LOS ANGELES: “AVREBBE DOVUTO DIRE SI’ E GESTIRE I GIOCHI CON L’ONESTA CON CUI A PAROLE DICE DI VOLER AMMINISTRARE ROMA”
Tutto si giocò negli ultimi 200 metri. Un testa a testa al cardiopalma contro l’avversario storico, il
finlandese Martii Vanio. Ma ancora una volta, come agli Europei ad Atene del 1982, Alberto Cova riuscì a mettere la testa davanti al rivale: fu oro olimpico nei diecimila metri nel 1984 a Los Angeles. Dopo la carriera agonistica, Cova di Olimpiadi ne ha vissute due da protagonista e poi tante da tifoso. E commenta così il no della sindaca Virginia Raggi ai Giochi del 2024: “È stata persa una grande occasione”
Alberto Cova, che cosa intende?
“Da sportivo penso che sarebbe stato bello avere le Olimpiadi in casa. Sarebbe stata un’opportunità per fare bella figura agli occhi del mondo e un’occasione per gli italiani di assistere a un grande evento sportivo. Dal punto di vista politico, secondo me i Cinque Stelle hanno perso una grande occasione: organizzare i Giochi seguendo i loro principi di trasparenza e onestà e far vedere di che pasta sono fatti. Non vedo contro, ma solo pro a favore delle Olimpiadi se gestite in modo serio”.
E Roma sarebbe stata in grado di gestirle?
“Credo che tutte le città che si sono candidate e che poi hanno vinto la corsa all’organizzazione dei Giochi avessero dei problemi. Le Olimpiadi, però, possono essere un modo per risolvere alcune criticità perchè danno un incentivo alle amministrazioni per lavorare bene e velocemente. Ripeto, Raggi avrebbe potuto dire di sì e gestire la cosa con l’onesta con cui dicono di voler amministrare la città “.
Ma i cittadini di Roma hanno votato Raggi e il suo programma nel quale era chiaro il no ai Giochi
“Penso che l’enorme successo avuto alle amministrative sia dovuto a un’ondata di protesta contro la vecchia classe dirigente. Non credo che i Giochi fossero al centro dei pensieri dei romani. Organizzare le Olimpiadi avrebbe dato l’opportunità alla sindaca di dimostrare d’essere in grado di gestire un evento così grande in modo virtuoso con una ricaduta di benefici sulla città ”
(da “La Repubblica”)
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