Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
A CATANIA, NELLO STESSO GIORNO, DUE COMIZI DISTINTI… L’IMMAGINE E’ L’ANTICIPAZIONE DI COME E’ RIDOTTO IL CENTRODESTRA
Catania come anticipazione del centrodestra che sarà . 
Matteo Salvini è sul treno, quando apprende dalle agenzie che Silvio Berlusconi sarà a Catania, per la chiusura della campagna elettorale giovedì alle sei di pomeriggio, alle Ciminiere.
Scuro in volto, si attacca al telefono: “Ma come, noi chiudiamo alle sette e mezza al Teatro Massimo e non sappiamo nulla?”.
Comizi separati, a distanza di un chilometro e mezzo, dieci minuti a piedi. Non è proprio la foto migliore, a tre giorni di una vittoria possibile, annunciata e vissuta come l’anticipazione di ciò che accadrà in Italia: “È il solito Berlusconi, cambia idea, non dice nulla”.
Il leader della Lega chiama Musumeci, ottiene la sua disponibilità a un comizio congiunto. Affida, giocando d’anticipo, la sua proposta alle agenzie: “Se c’è una piazza comune è meglio”. Come a dire: io sono pronto, se non si fa andate a chiedere spiegazioni ad Arcore.
Ad Arcore la coincidenza temporale produce un certo fastidio, come la dichiarazione furbesca di Salvini.
Troppo tardi per annullare, senza creare un caso. Ma, al momento, il programma non cambia: il Cavaliere sarà a Palermo il mercoledì e giovedì a Catania alle Ciminiere, punto.
L’episodio dice tutto: l’assenza di contatti addirittura tra gli staff, che apprendono le notizie a mezzo stampa, e una malcelata insofferenza tra i leader.
Anticipazione, appunto, di un centrodestra che politicamente non c’è come coalizione, nè a Catania nè a Palermo nè a Roma, ma che con poca poesia sta assieme perchè conviene numericamente.
In fondo sembra andare bene a tutti così, in questa lunga marcia di avvicinamento alle politiche che tanto assomiglia a una fiera dell’ipocrisia con schieramenti che esistono solo sulla carta. Secondo la legge elettorale appena approvata non c’è l’obbligo di scegliere il premier, nè di presentare un straccio di programma comune; e i cosiddetti alleati delle coalizioni possono comportarsi come i famosi ladri di Pisa, che si azzuffano di giorno per poi spartirsi di notte il bottino dei “nominati”.
E l’Italia del centrodestra già assomiglia a una grande provincia di Catania.
Basta mettere in fila le parole di oggi. Salvini contro gli “impresentabili” di Forza Italia, Salvini che occhieggia ai Cinque Stelle, nella speranza di sedurre l’elettorato grillino, Salvini che mai nomina Berlusconi, e già dice che se il centrodestra vince, bene, sennò non sarà mai disponibile a fare “inciuci”. Il che significa, al netto della propaganda, che si tira fuori dall’ipotesi obbligata con questa legge elettorale che non produce maggioranza, ovvero un “governo del presidente” sostenuto in Parlamento da uno schieramento ampio.
E Berlusconi che invece, proprio oggi, in un’anticipazione del libro di Bruno Vespa, torna alla carica col nome di Antonio Tajani, tirandosi proprio dentro la dinamica del governo del presidente: “Sarebbe un ottimo premier”.
Tajani, che come noto è l’esponente di Forza Italia vissuto politicamente e umanamente da Salvini con più fastidio, proprio oggi ha reso omaggio ad Hammamet alla tomba di Bettino Craxi. Quando Salvini aveva i pantaloni corti Bossi lo chiamava “Alì Bobò con i quaranta ladroni”, “per metà un uomo di Stato e per metà un farabutto”, evocando addirittura l’immagine della ghigliottina.
Ecco la fotografia del centrodestra.
E a fine giornata tra i due nessuno contatto. Nemmeno tra gli staff per la chiusura a Catania.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
LA VISITA NON GRADITA AL PALAZZO DELLE POSTE, CONFONDE LA LIBIA CON LA TUNISIA… E POI SBOTTA: “NON C’E’ CAMPO, NON C’E’ SAPONE, NON C’E’ ACQUA, E’ UN VAGONE A GASOLIO”
Treno regionale siciliano, di quelli che ci mettono un’eternità : “Sono in viaggio dalle 5.43 di questa mattina. Ci vogliono nove ore per arrivare da Trapani ad Agrigento. È una follia”.
Da Trapani ad Agrigento, per dimostrare che i trasporti non funzionano — un classicone, di tante campagne elettorali e di tanti servizi in tv — poi Palermo, poi Catania, per il gran finale.
Almeno fino a giovedì il leader della Lega, che ha tolto il Nord dal nome simbolo, sarà in Sicilia. Perchè è chiara la valenza politica nazionale di questa elezione, per la Lega nazionale che deve esistere anche sotto il Po. E finora, è andata male. In parecchi ricordano che, in primavera, a Palermo, prese un tre per cento scarso.
Salvini sul treno twitta, telefona, parla, non sta fermo un attimo.
Di stazione in stazione si arriva a Palermo, dove c’è un palazzo delle Poste, alcuni dipendenti si affacciano alla finestra per salutarlo, lui alza il braccio destro: “No, meglio di no. Poi dicono che sono fascista. Scendete, venite qui con noi”.
Gli viene fatto notare che queste persone però non possono lasciare il posto di lavoro, così Salvini nell’attesa della coincidenza per Agrigento decide di andarli a trovare, con tanto di sostenitori e bandiere a seguito.
Una, due rampe si scale, ed ecco un impiegato che alza gli occhi dal computer, perplesso: “Prego…”. “Sono venuto a parlarvi, mi avete salutato, no?”, risponde Salvini. E l’altro: “Lei non potrebbe entrare, dovrei chiamare il capoufficio”. “Ma siete stati voi a chiamarmi”. “No, veramente no. Lei qui non potrebbe entrare”. Un paio di minuti fino a quando Salvini dice: “Vabbè, vi saluto lo stesso e vado via… Qua sono pignoli come a Milano…”.
La trovata scenica non riesce, in compenso qua e là ci sono molti curiosi e sostenitori che si avvicinano per un selfie
Di nuovo sul treno. Ultima tratta verso Agrigento
Mentre passa nel vagone accanto un signore esclama: “E cistu chi voli?”. Che tradotto significa: “E lui cosa vuole qui?”. Salvini si ferma, gli sorride: “Avete bellezze infinite, altrochè che le Seychelles. Bisogna valorizzarle”. L’anziano signore: “Eh sì, qui ci sono le Ottochelles. Tanto io non voto, nessuno mi piace”.
Dopo nove ore di viaggio, qualcuno dello staff dice : “Basta, non ce la faccio più. È un carro bestiame, neanche quando ero militare”.
Poi sbotta mentre parla al telefono: “Non c’è campo, non c’è sapone, non c’è acqua, come si fa? Io non viaggio come Renzi su un super treno, io in un vagone a gasolio”. E infine il treno arriva ad Agrigento: “Sbarchiamo…vedo la Libia”.
E un passeggero: “No, in realtà c’è la Tunisia”.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
L’ORA X E’ IL 17 DICEMBRE… E L’ITALIA NE USCIRA’ CON LE OSSA ROTTE PER AVER APPOGGIATO IL LEADER SBAGLIATO… E DOVRA’ PAGARE HAFTAR
L’Italia seleziona le Ong per impegnarle a rendere umani i centri di accoglienza in Libia,
mentre il generale Haftar pianifica il golpe con il sostegno dei suoi grandi sponsor esterni.
Il conto alla rovescia è già iniziato. L’ora X fissata: il prossimo 17 dicembre.
Quel giorno scadranno gli accordi negoziati in Marocco che portarono alla formazione del governo di unione nazionale guidato da Fayez al-Sarraj.
Un governo che è stato sempre inviso all’uomo forte della Cirenaica e al parlamento di Tobruk che lo sostiene. Scaduto il tempo della verifica, l’esercito di Haftar (trentamila uomini in armi) marcerà su Tripoli per insediare al potere l’ex ufficiale di Gheddafi.
Il suo pensiero è tagliente: “Continuate pure con incontri, road map, emendamenti agli accordi vigenti, in quella data (il 17 Dicembre, ndr) scatterà la sollevazione, interverrà l’Esercito nazionale libico al quale il popolo chiederà aiuto, e io alla testa dei militari prenderò il controllo della Libia. A quel punto sarò l’unico vero interlocutore credibile del Paese”.
Nel frattempo, Haftar sta consolidando le sue alleanze con alcune delle tribù più potenti, avanza in Tripolitania e cementa i suoi rapporti internazionali: direzione Il Cairo e Parigi, non certo Roma.
Inoltre, l’ambizioso generale può contare sui petrodollari degli Emirati Arabi Uniti. La forza di Haftar è anche nella debolezza del suo rivale tripolino.
“L’unica autorità che sembra conferire qualche valore a Fayez al-Sarraj è il governo italiano, ai cui occhi sembra godere di una credibilità maggiore rispetto a quella di cui gode in patria visto che lo hanno riconosciuto e di tanto in tanto gli fanno firmare anche dei documenti. In Italia è come uno dei Rolling Stones, ma nel suo paese la sua somiglia di più a una band underground…”, annota nella sua rubrica Cartoline da Tripoli su Internazionale il regista e sceneggiatore libico Khalifa Abo Khraisse.
Entro l’anno Haftar vuole mettere il mondo di fronte al fatto compiuto: chiunque intenda contrastare il traffico di migranti e combattere l’Isis in Nord Africa, deve avere lui come punto di riferimento, “innalzandolo”, con il dovuto sostegno economico, militare e politico, a Gendarme del Mediterraneo.
Cosa voglia Haftar dall’Italia, il generale lo ha spiegato molto bene in una intervista al Corriere della Sera in occasione della sua missione a Roma, il 29 settembre scorso, nel corso della quale ebbe incontri con i ministri della Difesa Roberta Pinotti e dell’Interno Marco Minniti, con il Capo di Stato Maggiore Claudio Graziano e con i vertici dei servizi: “Quanto al controllo delle frontiere Sud, le mie forze possono fornire manodopera, ma voi europei dovete inviare aiuti: droni, elicotteri, visori notturni, veicoli”, dettaglia Haftar.
La richiesta di invio di materiale militare si scontra però con la decisione dell’Italia di rispettare l’embargo Onu sul materiale bellico in Libia.
“Da tempo dico che tale embargo va cancellato nei riguardi del nostro esercito nazionale. Tutti i Paesi europei interessati a fermare i migranti dovrebbero revocarlo”, sentenziò il generale.
In questo schema, al-Sarraj è un “signor nessuno” — definizione non proprio elogiativa coniata dallo stesso Haftar – senza futuro.
Haftar va preso molto sul serio anche perchè dietro alle sue affermazioni c’è il patto di ferro stretto dall’inquilino dell’Eliseo, Emmanuel Macron, e dal suo omologo egiziano, Abdel Fattah al-Sisi.
Un accordo in cui geopolitica e affari sono saldati indissolubilmente. La riprova si è avuta qualche giorno fa, quando il responsabile di Naval Group, il potentissimo Hervè Guillou, si è aggiudicato l’ammodernamento della flotta egiziana.
Il Cairo diventa così il secondo maggior cliente del gigante dell’industria navale militare transalpina. Cliente e partner nel piano che prevede un rafforzamento della presenza della francese Total in Libia, con una partnership egiziana.
Il patto euromediterraneo evocato dall’Italia ne esce con le ossa rotte.
“Il fatto è — si lascia andare una fonte diplomatica di alto rango con l’Huffingon Post — che a Macron non interessa una Europa più forte sullo scenario internazionale ma una Francia più forte in Europa, a cominciare dal Mediterraneo, per estendere la grandeur al Medio Oriente e all’Africa”.
Insomma, siamo alle prese con i “fratelli-coltelli” transalpini. Gli interessi italiani rischiano di entrare in rotta di collisione con quelli francesi in Libia come in Algeria, in Egitto come in Libano.
Nei mesi scorsi, molto si è scritto e detto sulle minacce militari avanzate da Haftar e dai suoi comandanti contro la Marina militare italiana impegnata nel sostegno alla Guardia costiera libica. Ma la vera minaccia, quella più dolorosa, era contenuta in una direttiva, la numero 37, emanata, a metà agosto, dal ministro dell’Economia di Tobruk, Munir Asser, con la quale vietava “l’apertura e l’estensione di qualsiasi filiale di aziende italiane in Libia, così come la costituzione di joint venture di imprese libiche con aziende italiane”.
Nel frattempo, Roma avrebbe voluto che Haftar e il suo esercito fornissero protezione all’impianto petrolifero e di estrazione di gas situato a Mellitah, una stazione di pompaggio dell’Eni a 100 chilometri ad ovest di Tripoli.
La risposta? Scaricate Sarraj e il suo governo di incapaci e corrotti e poi ne parliamo…
Per fermare i trafficanti di esseri umani è necessario stabilizzare la Libia, ha più volte sostenuto il titolare del Viminale.
Il fatto è che l’Italia ha puntato sul “cavallo” sbagliato e quando se ne è resa conto ha provato a correggere il tiro, cercando un riavvicinamento con Haftar e finanziando, via Sarraj, alcune delle milizie operanti a Sabrata, la “capitale” degli scafisti.
Solo che nella stessa Sabrata a rivoltarsi contro le milizie anti-trafficanti “italiane” sono state le milizie che sostengono Haftar e che hanno vinto sul campo: Ahmed Amu Dabbashi, detto lo “zio”, il capo miliziano che controllava la città (e su cui aveva puntato l’Italia) nei giorni scorsi ha dovuto abbandonare Sabrata per rifugiarsi in aree più sicure.
E per mandare un avvertimento all’Italia, le milizie vincenti hanno fatto riprendere i viaggi dei migranti, destinazione Sicilia.
Il messaggio è chiaro: “quei 5 milioni di dollari spettano a noi”.
È il pizzo “anti-trafficanti”, Roma deve continuare a pagarlo, ma non allo “zio”. Ora le milizie vicine ad Haftar puntano su Zuara, un’altra delle zone dove partono i migranti. Dabbashi si sarebbe rifugiato presso una formazione che a sua volta lavora con la Guardia costiera libica contro il traffico di esseri umani.
Secondo fonti libiche un ruolo importante nella disfatta del clan Dabbashi l’hanno avuto le teste di cuoio francesi impegnate da tempo in Libia, ufficialmente per contrastare la costola nordafricana dell’Isis, in realtà per presidiare gli interessi (petroliferi) francesi e rafforzare l'”uomo di Parigi”: il generale Khalifa Haftar.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
PAURA E SOLIDARIETA’, MA FAVOREVOLI ALLA CITTADINANZA… PER L’ACCOGLIENZA IL 53,7%, CONTRO IL 16,7%… GIOVANI E ISTRUITI A FAVORE, RINCOGLIONITI E IGNORANTI CONTRO
I fenomeni migratori sono sempre più marcati dal segno del dubbio. Anche l’Italia, come il resto dell’Europa e del mondo occidentale, guarda ai migranti con un misto di timore e paura e, nello stesso tempo, di solidarietà e desiderio di aiutare. Solo che, per una parte crescente della popolazione, tendono a prevalere le prime istanze. Non sono prevalenti, ma crescono le emozioni ostili.
Sentimenti che si alimentano dell’amplificazione delle notizie, mentre gli esponenti politici sono pronti a cavalcare il malessere di parti della popolazione, esasperando ed esacerbando la polemica.
Si fatica ad affrontare il tema migratorio in modo pragmatico, senza farsi condizionare dal consenso immediato così come da atteggiamenti moralistici.
Da ultimo, è sufficiente rinviare al dibattito sviluppatosi attorno al tema della legge sull’integrazione dei figli dei migranti presenti in Italia (lo «ius soli») per avere la misura delle difficoltà che attraversano la classe dirigente: si rinvia la decisione per i timori legati al consenso alle prossime scadenze elettorali.
Insomma, non esercita il ruolo per cui è stata eletta: la responsabilità .
Il risultato è che se ne parla in modo gridato, raramente pacato e senza essere prigionieri degli stereotipi.
Sia chiaro: il fenomeno è complesso e contiene tanto questioni legate alla convivenza quanto le risorse di culture e competenze che sostengono la nostra economia e le nostre famiglie. Ma più si rimandano le soluzioni, maggiore è il problema.
Quanto siano mutate le percezioni degli italiani verso gli immigrati e quali siano gli orientamenti verso l’ipotetica legge sull’integrazione dei figli dei migranti è l’oggetto della rilevazione di Community Media Research*, in collaborazione con Intesa Sanpaolo per «La Stampa». Prendiamo le mosse da un dato di conoscenza oggettiva.
Gli italiani sanno quanti sono i migranti regolarmente residenti in Italia?
Solo un terzo (37,4%) risponde correttamente: come rileva l’Istat, sono 5.026.153. Poco più della metà (56,7%) sottostima il fenomeno (fino a 3 milioni), il restante 5,9% immagina ve ne siano oltre 10 milioni.
E qual è la religione più diffusa fra i migranti?
Solo poco più di un terzo (38,4%) risponde correttamente: quella cristiana (secondo l’Istat il 56,4% appartiene a questa religione), mentre la maggioranza crede siano soprattutto musulmani (56,8%).
Se sommiamo le due risposte, otteniamo che i «conoscitori» (chi risponde correttamente alle due domande) sono solo il 13,7%.
Presenta una «conoscenza parziale» (sbaglia una delle due) il 48,5%, mentre il 37,8% è un «non conoscitore» (con entrambe le risposte errate).
Questo livello di scarsa conoscenza non può non inficiare le opinioni. Ma andiamo per ordine.
Non c’è dubbio che fra il 2013 e oggi le percezioni degli italiani verso gli immigrati virino verso un sentimento negativo.
Se escludiamo l’opinione per cui chi delinque non ha distinzioni di cittadinanza, diminuisce ma resta indubbiamente alta l’idea che gli immigrati favoriscano la nostra apertura culturale (58,8%, era il 72,7%), così come siano una risorsa per l’economia (57,2%, era il 72,5%).
Per contro, lievitano le percezioni che siano una minaccia per la sicurezza individuale (31,4% dal 19,6%), un pericolo per le tradizioni (30,2%, era il 20,1%), una minaccia per l’occupazione (30,0% dal 21,2%).
Sommando queste opinioni, otteniamo che gli «accoglienti» (ovvero chi offre solo risposte positive) sono la maggioranza degli italiani (53,7%), in sensibile calo però rispetto al 2013 (66,1%).
Più che diminuire gli «ambivalenti» (29,6%, erano il 28,8%) – le cui risposte mettono l’accento ora su dimensioni positive, ora negative verso i migranti – aumenta la quota degli «avversi» (16,7%, era il 5,1%), che attribuiscono agli stranieri solo valenze negative.
Le generazioni più giovani, gli studenti e chi possiede una laurea manifesta orientamenti di maggiore apertura, mentre anziani, chi ha un basso titolo di studio e chi è ai margini del mercato del lavoro ha umori più negativi.
Ma è rilevante sottolineare come un’inclinazione di apertura o chiusura sia collegata con il livello di conoscenza posseduto del fenomeno. Quanto più lo si conosce, maggiore è l’orientamento accogliente verso gli immigrati.
Tuttavia, il mutare (in peggio) del «sentiment» verso gli stranieri fa cambiare la predisposizione verso un’ipotesi di legge?
Può apparire paradossale, ma la risposta è negativa.
Fra «ius soli» (30,9%, era il 29,3%) e «ius sanguinis» (21,6%, era il 20,4%), rimane prevalente l’idea di una cittadinanza proattiva da parte del migrante e a condizione di un percorso di acquisizione e adesione ai valori e alla cultura italiana (47,5%, era il 45,0%).
Solo il 5,4% non darebbe la cittadinanza ad alcuno.
Se serpeggia, ed è in crescita, un sentimento di ostilità verso i migranti, nello stesso tempo permane quindi la domanda di regolare l’integrazione degli immigrati, a cui solo la politica può dare risposta.
Se fosse disposta ad assumere, più che il consenso elettorale immediato, il criterio del bene comune.
(da “La Stampa”)
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Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
BOTTINO PER DECINE DI MIGLIAIA DI EURO, A CASA DEL MANAGER ROOM SERVICE STOCCATI 20.000 EURO DI MERCE
Gli investigatori del commissariato Garibaldi-Venezia hanno denunciato sette dipendenti
dell’hotel cinque stelle “Principe di Savoia” di Milano accusati di aver rubato cibi gourmet, champagne, distillati, liquori, vini pregiati e argenteria per decine di migliaia di euro dalle dispense dell’albergo.
Secondo quanto riferito dalla polizia, è stata proprio la direzione a chiedere, ai primi di ottobre scorso, l’intervento della polizia segnalando ripetute sparizioni di vivande dai magazzini della cucina, e di posate, vassoi e altra argenteria di servizio.
Dopo un rapido monitoraggio, il 5 ottobre, gli agenti hanno fermato per un controllo il 63enne “manager room service” che lasciava l’hotel per tornare a casa, trovando nel suo zaino diverse confezioni di porcini e pomodori essiccati.
E’ così scattata la perquisizione nell’abitazione di Lomazzo (Como) dove l’uomo vive con la famiglia, trovando stoccata in cantina circa 20mila euro di merce.
Da un rapido controllo del cellulare del manager, gli investigatori sono risaliti agli altri sei impiegati dell’area ristorazione (quattro milanesi, un lodigiano e un comasco), che il successivo 20 ottobre si sono visti perquisire le rispettive abitazioni.
In una di queste, i poliziotti hanno sequestrato altre 30 costose bottiglie di vino, alcune delle quali del valore di oltre 300 euro.
Sempre secondo quanto sarebbe emerso dalle indagini coordinate dal Pm meneghino Luigi Luzi, i sette avrebbero agito come una vera e propria banda appropriandosi sistematicamente di parte della merce che i fornitori consegnavano periodicamente al lussuoso hotel, agendo anche su commissione per conto di amici e conoscenti.
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
LA VITTIMA ABUSATA CON UN OMBRELLO, LA VITTIMA AVEVA SEDICI ANNI ALL’EPOCA DEI FATTI
Condannati a 8 anni e 6 mesi di carcere di due bulli che erano finiti a processo per aver violentato e perseguitato un compagno di classe a Torino.
Questa mattina il tribunale di Torino ha letto la sentenza di condanna contro i due aguzzini, all’epoca dei fatti (nel 2013) sedicenni, di un giovane che era stato costretto a qualsiasi sevizia, dall’ingoiare escrementi di cane, alle lumache vive, fino ai ripetuti abusi con un ombrello.
I due sono stati condannati per stalking, lesioni e abusi sessuali.
Il pm Dionigi Tibone aveva chiesto 8 anni per entrambi, ma il collegio è stato ancora più duro, decidendo sei mesi in più di carcere, oltre all’interdizione dai pubblici uffici e dal sistema scolastico: “Questa è una sentenza esemplare che dà finalmente una risposta alle vittime di bullismo. Penso sia una delle prime in Italia di questo tenore e credo mostri come la situazione per chi è vittima di violenze stia cambiando”, commenta l’avvocata Giovanna Musone, che assieme alla collega Maria Rosaria Scicchitano, si è costituita parte civile per conto della vittima e della sua famiglia.
Il ragazzo, che era stato costretto anche ad avere un rapporto sessuale con una prostituta, mentre i due bulli guardavano a poca distanza.
Un’altra volta era finito in ospedale per una intossicazione da alcol, quando i suoi carnefici lo avevano obbligato a bere tre litri di vino.
“Il mio assistito ancora oggi non si è ripreso da quel biennio di violenze e soprusi — continua Musone — Anche solo dover ripercorrere quanto era successo durante il processo gli ha provocato ulteriori traumi”.
(da “La Stampa”)
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Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
OGGI L’INTERVENTO CHIRURGICO: “HANNO SPINTO VIA I PIACCHIATORI, MI AVREBBERO UCCISO”
«Se non ci fossero state quelle ragazze, probabilmente mi avrebbero ucciso». Kartik
Chondro ne è sicuro. «A salvarmi sono state due ragazzine che stavano con quelli che mi hanno pestato», precisa il cameriere bengalese massacrato di botte sabato notte in piazza Cairoli, a due passi dal ministero della Giustizia, da un branco di bulli razzisti.
Chondro, 27 anni, è ricoverato con 30 giorni di prognosi nel reparto maxillo-facciale dell’ospedale San Camillo.
Ha il volto devastato: mandibola, orbite oculari e naso fratturati.
A ridurlo così – già oggi forse sarà sottoposto a intervento chirurgico – è stato per la polizia Alessio Manzo, studente di 19 anni di un istituto alberghiero dell’Ardeatino, ma residente ad Acilia. È stato arrestato per tentato omicidio aggravato dall’odio razziale.
Kartik, cosa è successo?
«Avevo finito di lavorare da poco. Ero uscito dal ristorante a Campo de’ Fiori con un collega egiziano e insieme ci siamo incamminati come sempre verso la fermata dell’autobus per tornare a casa. All’improvviso ho sentito uno che ci diceva “negri di m…, immigrati dovete sparire, andate via!”».
E voi cosa avete fatto?
«Niente, ho solo cercato di rispondere a quelli che ci insultavano. Non ho mai fatto male a nessuno, penso solo a lavorare e a tornare a casa. Non ho mai avuto problemi, nemmeno ne voglio. Non capisco perchè mi hanno ridotto così».
Ma non è bastato.
«No, solo un ragazzo ha cercato di proteggermi, tutti gli altri mi hanno picchiato. Mi arrivavano colpi dappertutto, soprattutto in faccia. Erano in 12-13».
C’erano anche delle ragazze?
«Io me ne ricordo un paio. Sembravano più piccole dei loro amici. Devo dire però che sono state brave: si sono messe in mezzo, tiravano via quelli che mi picchiavano. Credo che senza di loro sarebbe andata molto peggio».
E il tuo amico?
«Hanno picchiato anche lui, lo hanno spintonato e preso a pugni. Ma poi non l’ho più visto, non so che fine abbia fatto. Spero solo che sia riuscito a scappare».
Kartik Chondro è il quarto bengalese aggredito in meno di un anno in episodi di razzismo e bullismo a Roma. L’ultimo era stato un lavapiatti di Prati malmenato da un gruppo di ragazzi a Tor Bella Monaca dove era andato a vedere la casa popolare dove doveva andare ad abitare.
Un’escalation che preoccupa.
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
CON L’AIUTO DI UNA ONG INAUGURATO IL RISTORANTE GESTITO DA RIFUGIATI SCAMPATI ALLE PERSECUZIONI DELL’ISIS
Aysen aveva un ristorante a Baghdad, prima della guerra. Nashwan ne gestiva uno a Mosul, prima dell’arrivo dell’Isis.
Wisam, Majid, Zeyad, Raad e Haitham invece vivevano tra Kirkuk e Qaraqosh.
Oggi i cinque rifugiati iracheni che hanno trovato asilo, ad Amman, in Giordania hanno aperto la pizzeria Mar Yousef, prima pizzeria al taglio italiana della città .
Ad aiutarli la ong italiana «Un ponte per..» che ha organizzato un corso di formazione per pizzaioli tenuto da un italiano.
La pizzeria, che sarà ospitata negli spazi della parrocchia di Mar Yousef nel quartiere centrale di Jabal Amman, è stata ristrutturata ed equipaggiata grazie al sostegno della Nunziatura Apostolica e al Convento dei Frati di Assisi.
E permetterà ai neo pizzaioli di mettere alla prova le loro capacità .
Secondo le Nazioni Unite i rifugiati iracheni in Giordania dal 2007 sono oltre 500 mila, la maggior parte dei quali di fede sunnita. In molti casi si tratta di uomini disoccupati, con un’età media di 29 anni, che faticano dunque a ricostruirsi una vita dopo aver abbandonato la loro casa.
Tra gli obiettivi dell’apertura del ristorante infatti anche quello di consentire ai membri delle comunità vulnerabili, rifugiate da Iraq, Siria, Somalia e Sudan, di usufruire della pizzeria come mensa gratuita.
Creando coesistenza, integrazione e solidarietà grazie al cibo.
(da “il Corriere della Sera“)
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Ottobre 30th, 2017 Riccardo Fucile
DODICI CAPI D’ACCUSA PER MANAFORT, TRA QUESTI EVASIONE FISCALE E RICICLAGGIO, SU SUOI CONTI OFFSHORE 75 MILIONI DI EURO NON GIUSTIFICATI
Paul Manafort, l’ex capo della campagna elettorale di Trump indagato nel Russiagate, si è
presentato nella sede dell’Fbi di Washington nel giorno in cui, come anticipato dalla Cnn nei giorni scorsi, sarebbero scattati i primi arresti.
Tra i dodici i capi d’accusa che gli vengono imputati, c’è anche la cospirazione contro gli Usa alla quale si aggiungono evasione fiscale, il non essersi registrati come agenti di uno Stato straniero, aver fatto dichiarazioni false e fuorvianti, riciclaggio e omessa denuncia di conti su banche straniere.
Sui conti offshore suoi e del suo ex socio in affari Rick Gates — che come lui si è presentato all’Fbi questa mattina — sono transitati oltre 75 milioni di dollari. Manafort avrebbe riciclato oltre 18 milioni di dollari.
Il Bureau si è limitato a confermare che Manafort si è consegnato alle 8.15, ora locale, senza fornire altre indicazioni.
L’atto di accusa contro di lui, secretato venerdì da un giudice, dovrebbe essere diffuso in giornata, ha riportato il New York Times.
Finito da subito nel mirino del procuratore speciale Robert Mueller per i suoi sospetti contratti di consulenza con l’ex presidente filorusso ucraino Viktor Yanukovych, l’ex manager della campagna di Trump ha in precedenza negato ogni irregolarità nei pagamenti ricevuti da Kiev, o nei conti aperti in paradisi fiscali offshore nè nelle diverse transazioni immobiliari, che hanno anche attirato l’attenzione dell’Fbi.
A compromettere la sua posizione sarebbero stati i documenti emersi da un libro paga segreto del Partito delle Regioni che provano come la società di consulenze di Manafort ha ricevuto oltre 12 milioni dal partito filorusso tra il 2012 e il 2014.
Un segnale del fatto che l’attenzione degli inquirenti si stava concentrando intorno a Manafort era arrivato lo scorso 26 luglio quando, all’indomani quindi della sua deposizione, a porte chiuse, di fronte alla commissione intelligence del Senato, agenti dell’Fbi avevano condotto un plateale blitz all’alba nella sua casa di Alexandria per sequestrare documenti ed altro materiale
Secondo quanto rivela ancora la Cnn, Manafort si è presentato oggi negli uffici dell’Fbi di Washington, e dovrebbe essere trasferito nel tribunale federale distrettuale per la notifica dell’incriminazione, insieme a Gates che anche, riporta l’emittente, si è costituito.
Secondo quanto rivela oggi il Wall Street Journal, tra le accuse che verranno contestate vi sarà anche quella di evasione fiscale.
Questo sviluppo segna una svolta netta nell’inchiesta di Mueller, dal momento che per la prima volta finiscono agli arresti due ex membri della squadra elettorale di Trump. Un portavoce della Casa Bianca ha detto che l’amministrazione Trump “potrebbe non avere nulla da commentare” riguardo a queste incriminazioni.
Oltre alle interferenze russe con le elezioni, e le possibile collusioni con il governo russo da parte della campagna elettorale di Trump, Mueller ha anche il compito di indagare su possibili azioni condotte dall’amministrazione per intralciare il corso della giustizia, in particolare riguardo al licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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