Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
I TRE PARTITI INDIPENDENTISTI PASSANO DA 72 A 70 SEGGI (MAGGIORANZA A 68)… CLAMOROSO EXPLOIT DI CIUDADANOS CHE ARRIVA AL 25,4% E PASSA DA 25 A 37 SEGGI… GLI INDIPENDENTISTI UNITI SI FERMANO AL 47,5%
A spoglio giunto oltre il 96 per cento, le tre forze indipendentiste che governavano il
“Parlament” catalano uscente incassano la maggioranza assoluta dei seggi, 70 su 135.
Il primo partito è però il centrista unionista di Ciudadanos con 37 seggi.
Dietro di lui, a quota 34, l’indipendentista ‘Junts per Catalunya’ dell’ex presidente Carles Puigdemont, fuggito in Belgio.
Ai suoi 34 deputati indipendentisti si aggiungono i 32 di Esquerra republicana di Oriol Junqueras, ex vicepresidente della Generalitat, rimasto in Spagna e quindi in carcere con l’accusa di sedizione e ribellione.
Sommati ai 4 seggi del Cup il raggruppamento indipendentista ottiene 70 deputati, inferiore ai 72 del 2015, ma con i numeri sufficienti a governare di nuovo la Generalitat.
Sul fronte unionista Ciudadanos da 25 deputati sale a 37; i socialisti catalani sono a quota 17; crollati da 11 a soli 4 deputati regionali i popolari locali, espressione del Partito del premier Mariano Rajoy, nemico n.1 del referendum illegale del primo ottobre sull’indipendenza della Catalogna.
Da rimarcare che la somma dei tre partiti indipendentisti non supera il 50%, ma si ferma al 47,5%, come dire che non ha la maggioranza nel paese reale.
Ma la vera vincitrice di queste elezioni, a detta di tutti i media, è la leader di Ciudadanos, la giovane destra spagnola rappresentata da Inès Arrimadas
Chi è Ines Arrimadas
Sposata con un ex deputato indipendentista, Xavier Cimas, è un avvocato e vive in Catalogna da una decina di anni. E’ perfettamente bilingue spagnolo-catalano, ma i suoi interventi in Parlament sono sempre rigorosamente in spagnolo, riconosciuta come una delle lingue ufficiali in Catalogna.
E’ una tifosa sfegatata del Barcellona-
Considerata una perfezionista, ha puntato la sua campagna elettorale, oltrechè sull’unità della Spagna, sulla frattura sociale della Catalogna, che spende milioni per un’indipendenza irraggiungibile invece che per i poveri e i disoccupati, in aumento specie tra i giovani catalani.
Ines ha messo subito in chiaro un paio di cose.
Primo, è un avvocato e dopo l’esperienza in politica tornerà a praticare la professione. Secondo, le donne devono guadagnarsi il loro spazio nella società con i denti.
Terzo, la Spagna è unica e indivisibile.
Quarto, destra e sinistra sono retaggi del passato, lei propone soluzioni concrete ai problemi reali della gente a partire dalla sanità , passando per il lavoro e il sostegno alle famiglie.
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
M5S 27,3%, PD 24,1%, FORZA ITALIA 15,4%, LEGA 13,4%, LIBERI E UGUALI 6,8%, FDI 5,1%…. CENTRODESTRA SOTTO IL 36%
Altra leggera flessione per il Pd: il partito guidato da Matteo Renzi fa registrare il peggior dato dell’anno, attestandosi al 24,1%
E’ quanto emerge dalla Supermedia settimanale elaborata da YouTrend per Agi.
Unica consolazione, per i dem, è che questo calo non si traduce in una crescita significativa dei principali competitor.
Il Movimento 5 stelle si conferma al primo posto fra le liste con il 27,3%, manifestando grande stabilità nei consensi. Eppure, anche stavolta il M5s non riesce ad andare oltre quella sorta di “soffitto di vetro” del 28% sotto il quale si mantiene da ben sei mesi.
Discorso analogo per il centrodestra, sostanzialmente fermo rispetto alla scorsa settimana e addirittura in lieve flessione rispetto a un mese fa.
Forza Italia si è ormai attestata al terzo posto (15,4%), due punti esatti sopra la Lega (13,4%), con Fratelli d’Italia stabile al 5,1%.
La notizia positiva per il centrodestra è costituita dal dato di coalizione (35,8%) che continua a essere molto superiore a quello delle altre due aree, complice soprattutto la sofferenza del Pd il cui dato di coalizione cala al 27,9%.
Questo vantaggio del centrodestra inteso come coalizione potrebbe rivelarsi decisivo nei collegi uninominali dove basta un solo voto in più degli avversari per vincere il seggio: un vantaggio consistente a livello nazionale potrebbe tradursi in una vera e propria “landslide”.
Tra i motivi dei recenti malumori di Salvini potrebbe esserci proprio questo: aver subito il ritorno mediatico di Berlusconi e il conseguente sorpasso di Forza Italia metterà la Lega in una posizione subordinata quando si tratterà di concertare le candidature di coalizione nei vari collegi uninominali.
Se si voterà a inizio marzo, questa concertazione dovrà essere ultimata praticamente entro un mese e il tempo per invertire la tendenza – salvo sorprese – non sembra esserci.
Intanto, il centrodestra beneficia anche della creazione della cosiddetta “quarta gamba”, la lista centrista che raccoglie varie micro-sigle che dovrebbe portare ulteriore acqua al mulino della coalizione.
Per ora, a dire il vero, i sondaggi non assegnano un valore a questo neonato mini-rassemblement; il beneficio viene piuttosto dalla dissoluzione di Ap, di cui, dopo il forfait di Alfano, sono rimasti solo alcuni esponenti a dichiarare di voler continuare l’alleanza con il Pd (tra cui il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin).
Molti altri sono andati con il centrodestra nella “quarta gamba”: ecco il motivo per cui Ap è sceso all’1,3% e anche questo contribuisce al calo del dato di coalizione del Pd.
Un ultimo cenno va fatto nei confronti di Liberi e Uguali, il movimento alla sinistra del Pd che si è scelto come leader Pietro Grasso.
Un mese fa i due principali soggetti fondatori (Mdp e Si) venivano stimati insieme al 5,4%: oggi sono al 6,8%.
Anche questo aumento potrebbe contribuire a spiegare il calo dei democratici.
C’è da sottolineare però come non tutti gli istituti siano concordi nel segnalare un aumento di Leu: istituti come Ipsos, Piepoli e Ixè non registrano alcuna variazione nelle rilevazioni più recenti, Emg per La7 parla di un +0,3% nell’ultima settimana, statisticamente non rilevante.
Le prossime settimane ci diranno se Liberi e Uguali saprà approfittare della crisi del Pd e dell’immobilismo del M5s o se, al contrario, ha già raggiunto il suo massimo potenziale.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
IL LEADER PD SI BASA SU SWG: PD STABILE al 25% MA ASPETTA ALTRE RILEVAZIONI
Al termine di una settimana di montagne russe in commissione Banche, dall’audizione
di Vegas giovedì scorso a quella di Ghizzoni ieri, Maria Elena Boschi resta candidata del Pd alle politiche di marzo, probabilmente in un collegio di Firenze, zona più o meno franca per il Pd renziano.
Matteo Renzi va in tv stamane apposta per cercare di chiudere il caso. Blindandola. Ma tra caso Boschi e caso Carrai, il peso elettorale del Pd rischia di calare. E quindi: se e come e dove la sottosegretaria sarà candidata, dipenderà dai sondaggi.
Oggi il segretario ha cominciato a inquadrare il lavoro su collegi e liste insieme a Matteo Richetti, al Nazareno. Ma si entrerà nel vivo il 27 dicembre, quando probabilmente Sergio Mattarella scioglierà le Camere. Poi c’è la pausa natalizia, Renzi tornerà a Roma solo dopo la Befana. Attende i sondaggi.
Per ora sulla sua scrivania Renzi ne ha solo uno di Swg, ultima rilevazione ieri: dunque a monte della settimana di fuoco in commissione.
Ebbene, secondo questo studio il Pd non avrebbe risentito del tifone Boschi e nemmeno della ‘bomba’ sganciata ieri da Ghizzoni sulla mail di Carrai che gli chiedeva di Banca Etruria.
Per la Swg, il Pd resta al 25 per cento. Lo stesso sondaggio stima la concorrenza di Liberi e Uguali al 6-7 per cento.
Un solo sondaggio chiaramente non basta. Tanto più che il Pd è spesso committente di Swg sui sondaggi. Renzi ne aspetta degli altri.
Aspetta che si depositi la polvere su tutto il caos di questa settimana.
Se da qui a un mese — cioè quando, a Camere sciolte, comincerà a mettere mano alle liste — i sondaggi daranno un Pd con la febbre alta per ‘virus Banca Etruria’, la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio potrebbe risultare meno blindata di quanto appaia oggi.
Chissà se con una candidatura con elezione a rischio: nel Pd c’è chi lo ipotizza ma questo significherebbe correre solo nel collegio, magari contro un candidato forte, senza poter essere ‘ripescata’ nel listino proporzionale in caso di mancata elezione.
Messa così, potrebbe essere un bagno di sangue per lei. Il monitoraggio avviato dal segretario non esplora questa possibilità al momento. Prevalgono gli scongiuri.
E la speranza che anche gli altri sondaggi confermino Swg. Se così fosse, per Boschi si aprirebbe decisamente la via della candidatura in un collegio sicuro come Firenze e nel listino proporzionale.
L’interesse di Renzi, lo ha spiegato ai suoi, è “mettere in campo candidature forti”. ‘Meb’ lo è? Nel Pd i dubbi ormai tracimano dalla minoranza fin dentro la cerchia renziana. E lo stesso leader ha messo il tutto ‘sotto osservazione’.
Primo passo: cercare di chiudere il balletto mediatico sul caso Boschi. Per questo va in tv, al Tgcom, a dire: “Saranno i cittadini a decidere se Boschi debba essere portata in Parlamento oppure no. Va tutto bene. Il Pd deciderà le proprie candidature a gennaio. Andremo sul territorio e vedremo”.
Secondo step: capire, con l’aiuto delle rilevazioni, se Boschi è una candidata forte, a monte di tutte le polemiche.
Lei non si sbilancia: “Se chiedono a me, io darò la disponibilità a correre in qualsiasi collegio con l’entusiasmo e la forza di chi non ha niente da temere. La decisione però spetta al Pd e ai cittadini: io nel frattempo lavoro e vado avanti”, dice in un’intervista alla Stampa.
Ma, ospite a ‘Otto e mezzo’ con Marco Travaglio la settimana scorso – proprio giovedì scorso quando la commissione ha cominciato a rivelarsi un boomerang per il Pd (etichetta che Renzi e i suoi respingono) – l’ex ministro delle Riforme si era sbilanciata ad annunciare la sua candidatura “in Toscana”. Dove probabilmente resterà .
Perchè l’altro paletto messo da Renzi nel momento in cui ha deciso di blindarla è che non si deve dare l’idea che stia scappando alla ricerca di un collegio sicuro.
Certo, di preciso il suo collegio è Arezzo ma “anche a Firenze ha svolto attività politica”, dicono i renziani del Pd per giustificare il fatto che lì, nell’aretino, fossa dei leoni di Banca Etruria, certamente Boschi non sarà candidata.
“Un politico si fa giudicare dai cittadini quindi saranno le elezioni a giudicare se qualsiasi politico, non solo Boschi debba tornare in Parlamento. E’ una discussione che non esiste”, dice ancora Renzi.
Già , ma ci sono diverse modalità per sottoporsi al giudizio degli elettori, diverse sfumature di blindatura, diciamo così. Da qui a un mese, “solo lei può eventualmente valutare il passo indietro”, dicono i renziani del Pd, quelli che la difendono.
Lei invece continua a rimandare la scelta al partito: “Se me lo chiedono, corro”. Lei, Renzi, sondaggi alla mano: la decisione sarà presa così.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
LA CITTA’ DEI DIVIETI LEGHISTI MA DOVE NON C’E’ IL DIVIETO DI MORIRE SE SEI POVERO
Un uomo senza fissa dimora di 73 anni è morto la scorsa notte a Genova a causa del freddo.
Il cadavere è stato trovato su una panchina nei giardini Peragallo, sul lungomare di Pegli, nel ponente di Genova.
A scoprire il corpo senza vita un passante che stava passeggiando con i suoi cani. Sul posto il medico del 118 che non ha potuto fare altro che constatare il decesso.
Secondo il medico intervenuto il decesso potrebbe essere avvenuto per un malore causato dal freddo.
Nella notte la temperatura a Genova è scesa sotto lo zero. L’uomo aveva il domicilio in un ufficio del Comune, nel centro storico.
Nella sua borsa c’erano alcune tessere che permettono di usufruire delle mense per indigenti e risultava andare a sfamarsi dalle suore di Maria Teresa di Calcutta che hanno una mensa a Prà .
E’ il secondo senzatetto che muore dal freddo in una città dove abbiamo un sindaco e un assessore alla sicurezza leghisti che passano il tempo a fare spot sui media e a inventarsi divieti e multe su tutto lo scibile umano.
Un sindaco che aveva promesso 30.000 posti di lavoro, salvo poi constatare che in Liguria ne sono stati persi 16.000 in un anno, che è solidale a parole, insieme all’assessore regionale leghista allo sviluppo economico sotto processo per peculato, con i lavoratori genovesi che a centinaia perdono il posto di lavoro ogni mese, ma non ha risolto una, dicasi una sola vertenza con il reintegro.
Un assessore alla sicurezza che partecipa alle fiaccolate razziste contro l’insediamento di 11 poveri ragazzi profughi, ma è incapace di garantire la sicurezza a sopravvivere a una notte di gelo, organizzando adegute strutture di ricovero.
Se non fosse per il volontariato e le associazioni che girano la notte per dare ristoro e assistenza, la situazione sarebbe ancora piu’ tragica, in assenza delle istituzioni.
Altro che red carpet, dovreste essere rossi dalla vergogna.
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Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
VISITE IN OLTRE 150.000 AZIENDE, SCOPERTI 44.000 LAVORATORI IN NERO
Più di centocinquantamila aziende controllate per scoprire che due su tre sono in
“situazione di irregolarità ” per quanto attiene la correttezza dei rapporti di lavoro.
E’ il resoconto dell’anno zero dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che ha presentato il primo resoconto di attività centralizzata.
Dati ancora parziali, perchè relativi alla vigilanza svolta tra inizio anno e la fine di novembre, con l’esclusione dunque di un mese (dicembre) che è solitamente significativo per quanto riguarda la caccia al lavoro nero.
Ma che già fanno capire quanto l’attività sia stata intensa, con casi di richiamo quali la visita alla sede di Amazon e – si apprende ora – anche agli scali dove opera Ryanair.
Negli undici mesi in questione, gli ispettori dell’Agenzia hanno fatto visita a 150.651 società , come si erano prefissati nella programmazione del lavoro, riscontrando un “tasso di irregolarità significativo, in quanto le ispezioni in cui sono stati contestati illeciti sono pari a n. 95.006, che rappresentano il 65% degli accertamenti definiti al 30 novembre 2017; pertanto, circa due aziende su tre sono state trovate in una situazione di irregolarità “, si legge nel rapporto che riassume il lavoro svolto.
E’ un dato, è bene ricordare, relativo solo alle aziende controllate, che vengono pre-selezionate in base a un’attività preventiva di intelligence.
Non si può quindi assumere come un ‘campione nazionale’ rappresentativo di quel che succede in tutto il mondo del lavoro italiano.
Guardando al lavoro sommerso, sono stati scoperti 43.792 lavoratori in nero. “Il dato complessivo, se rapportato al numero delle aziende risultate irregolari, appare di assoluto rilievo in quanto presuppone mediamente la presenza di 1 lavoratore in “nero” ogni 2 aziende irregolari”, dice il rapporto.
L’Ispettorato ha avviato l’attività dall’inizio dell’anno, come Agenzia unica disegnata dal Jobs act per raggruppare la vigilanza su lavoro e legislazione sociale che prima era distribuita tra Ministero, Inps, Inail.
Oltre all’aggiornamento dei 4mila ispettori (con 400 Carabinieri dedicati), l’Ispettorato ha cercato di mirare i suoi interventi attraverso un’attività di intelligence per selezionare i soggetti da sottoporre ad accertamento, evitando così doppie verifiche che si traducono in perdita di tempo e risorse.
Al centro degli accertamenti di questi mesi ci sono state le cooperative spurie, quelle che lo stesso Ministero ha definito come “realtà pseudo-imprenditoriali che, invece di perseguire scopi mutualistici, agiscono in spregio dei diritti dei lavoratori e delle regole della sana concorrenza al solo fine di massimizzare il profitto”
Proprio a questo campo d’intervento, rispondendo a una interrogazione di Guido Guidesi, il ministro Poletti ha dedicato un passaggio la scorsa settimana in Parlamento: “L’ispettorato ha avviato nel 2017 una specifica campagna straordinaria.
Nell’ambito di questa attività , si segnala il recente intervento ispettivo presso la società Amazon”, ha ricordato in quell’occasione Poletti. Il noto portale, ha aggiunto oggi il ministro, ha commesso “un errore grave” a disertare il tavolo con i sindacati convocato dal prefetto di Piacenza.
“Penso che l’azienda debba rispondere a un invito fatto dal prefetto – ha sottolineato – comportamenti diversi non sono accettabili”.
Altri casi messi nel mirino degli ispettori, e già citati in Parlamento, sono quelli di Mondo Convenienza e delle sue cooperative.
“Anche la società Castelfrigo è stata oggetto di accertamenti, all’esito dei quali sono emerse diverse violazioni alla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale, che hanno portato a contestare sanzioni amministrative per più di 120 mila euro e l’evasione di più di un milione di euro di contributi previdenziali e sanzioni civili”, ha spiegato.
Dal rapporto odierno si ripercorre la storia di un’altra cooperativa verso la quale sono staccati verbali per oltre venticinque milioni di euro, come esito degli accertamenti dai quali sono emersi debiti contributivi da 19,6 milioni e sanzioni civili per altri 6,4 milioni. “L’attività della cooperativa consisteva nel ‘rifornire’ di personale piccole e medie imprese”, circa 3.700 clienti, “a tariffe estremamente basse rispetto al costo del lavoro del personale direttamente dipendente dall’impresa cliente. In alcuni casi la cooperativa chiedeva e otteneva il licenziamento del personale già dipendente dell’impresa per poi reimpiegarlo presso la stessa a costo ribassato.
Tali attività erano evidentemente possibili solo attraverso risparmi illecitamente ottenuti a danno dei lavoratori e dell’Inps”, spiega il resoconto dell’Ispettorato.
Dopo le recenti vicendi sulle minacce di sciopero, si scopre anche che l’Ispettorato ha avviato nuovi accertamenti su Ryanair, per verificare “anche alla luce delle novità di carattere giuridico della disciplina comunitaria, la corretta applicazione della normativa italiana a tutela dei lavoratori (diritti retributivi, orario di lavoro, riposi, permessi ecc.). Gli accertamenti sono stati anzitutto avviati sulle sedi di Bari, Bologna, Bergamo, Pisa e Roma e coinvolgono un cospicuo numero di unità ispettive presso ciascuna sede”, si legge nel resoconto dell’attività .
Presente anche la voce del Caporalato, infine, con oltre 6.600 accertamenti nel settore agricolo (ma, si specifica, sono dati “assolutamente parziali”) e un tasso di irregolarità superiore al 50%.
Tra novembre 2016 e 2017 sono state denunciate cento persone per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, il reato di caporalato, che hanno portato a 28 arresti.
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
LA RISOLUZIONE PASSA CON 128 SI’, APPENA 9 NO… GLI USA: “CE NE RICORDEREMO”… TRANQUILLI, ANCHE NOI
New York ore 12,22 (le 18,22 in Italia). Su Gerusalemme, Donald Trump subisce la sua prima, pesantissima sconfitta internazionale.
Con 128 voti favorevoli, 35 astenuti (tra i quali, all’ultimo minuto, Canada e Messico) e 9 contrari, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la mozione che condanna la decisione statunitense di trasferire la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima capitale unica e indivisibile d’Israele. Tra i voti a favore della risoluzione quello dell’Italia, insieme a 25 Paesi dell’Unione europea, tra cui Francia, Germania e Regno Unito.
Per The Donald è una Waterloo diplomatica, se si pensa che tra i nove voti conquistati, vi sono quelli di Stati non certamente cruciali nella geopolitica internazionale: Togo, Micronesia, Honduras, Nauru, Palau, Guatemala. Le Isole Marshall. Cronaca di una giornata segnata dalla “diplomazia della calcolatrice”.
Somma, sottrai, dividi, percentualizza. Il tutto legato al voto con cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione su Gerusalemme, la stessa che l’Egitto aveva presentato al Consiglio di sicurezza, ma che, nonostante avesse ottenuto 14 voti su 15, non è stata adottata per il diritto di veto esercitato dagli Stati Uniti.
Il via libera dell’Assemblea generale non ha conseguenze operative (le risoluzioni attuabili sono solo quelle licenziate dal Consiglio di sicurezza) ma quel voto rappresenta uno smacco politico per gli Usa.
“Tutte quelle nazioni che prendono i nostri soldi e poi votano contro di noi al Consiglio di sicurezza e votano contro di noi potenzialmente anche all’Assemblea” generale dell’Onu, “prendono centinaia di milioni di dollari e anche miliardi di dollari e poi votano contro di noi, vediamo questi voti”, aveva tuonato Donald Trump alla vigilia del pronunciamento. Per poi aggiungere: “Lasciamoli votare contro di noi. Risparmieremo molto. Non ci interessa”.
La minaccia di Trump scatena la reazione non solo di capi di Stato o di governo ma anche di organizzazioni umanitarie.
“Il presidente Trump sta raddoppiando le sue politiche sconsiderate costringendo altri Paesi ad accettare la sua decisione di riconoscere l’annessione illegale di Gerusalemme Est da parte di Israele”, dichiara Raed Jarrar, direttore advocacy e relazioni istituzionali per il Medio Oriente di Amnesty International Usa. “Le tattiche da bulli dell’amministrazione Trump — aggiunge – serviranno solo a isolare ulteriormente gli Usa dalla scena globale. Piuttosto che minacciare coloro che dipendono dagli aiuti statunitensi, l’amministrazione Trump dovrebbe rispettare i propri obblighi legali di non riconoscere una situazione illegale e di invertire la rotta su Gerusalemme”.
Siamo in piena campagna acquisti: ecco il presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdogan, esortare il mondo a non “vendersi” per i dollari di Trump.
E rivolgendosi direttamente a Trump, dice: “Non comprerai la nostra volontà con i tuoi dollari”.
“Il mondo è cambiato — gli fa eco il ministro degli Esteri di Ankara — l’assunto secondo cui ‘io ho il potere e quindi ho ragione? Non va più. Ora il mondo si ribella alle forzature unilaterali”. Concetto rilanciato dal ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Malki: “Su Gerusalemme — afferma — si sta definendo un nuovo ordine mondiale in politica. Purtroppo l’amministrazione Usa non sembra volerne prendere atto”.
I toni si fanno apocalittici, da film dell’horror: “Trump vi sta guardando!”, fa sapere Nikki Haley, la battagliera ambasciatrice Usa al palazzo di Vetro.
Haley aveva detto che non tutti i Paesi devono seguire la loro decisione di spostare l’ambasciata a Gerusalemme anche se si trattava di una scelta “appropriata”.
Al momento del voto a Palazzo di Vetro, ha avvertito, “gli Usa si segneranno i nomi”. A precedere le parole del presidente, un tweet in cui la Haley lamentava che “all’Onu ci viene sempre chiesto di fare e dare di più. Quindi quando prendiamo una decisione, per volontà del popolo americano, su dove collocare la nostra ambasciata, non ci aspettiamo che coloro che abbiamo aiutato ci prendano di mira”.
La “mira” l’ha presa Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano non ha atteso l’esito della votazione per affermare che “lo Stato d’Israele rigetta totalmente questo voto. Gerusalemme è la capitale d’Israele, che le Nazioni Unite lo riconoscano o no. Ci sono voluti 70 anni perchè gli Stati Uniti formalizzassero questo riconoscimento, e ci vorranno forse altrettanti anni perchè le Nazioni Unite facciano lo stesso”.
Nel frattempo, avverte Netanyahu, “continueremo a costruire lì (a Gerusalemme, ndr) anche per ospitare le ambasciate che si trasferiranno a Gerusalemme”.
Altro che Palazzo di Vetro: quella delle Nazioni Unite è la “Casa delle menzogne”, tuona preventivamente il premier israeliano. Mercoledì sera, il ministero degli Esteri israeliano, del quale Netanyahu è il titolare ad interim, ha inviato un cable a tutte le ambasciate e missioni israeliane al mondo ordinando loro di chiedere alle organizzazioni ebraiche nei loro Paesi di fare pressione sui governi locali per orientarne il voto.
Il dibattito è aperto dal Rappresentante permanente alle Nazioni Unite dello Yemen, Khaled Hussein Mohamed Alyemani che ha il compito di illustrare la mozione. Alyemany definisce la presenza israeliana a Gerusalemme “una forzata annessione della terra, una seria minaccia alla pace e alla stabilità ” e prosegue affermando che “Gerusalemme Est continua a essere occupata, la Palestina ha il diritto alla sovranità ” nella Città Eterna. Più che una illustrazione della mozione, quella in cui si lancia il rappresentante dello Yemen è una filippica contro Israele. “Noi — dice — condanniamo tutte le pratiche poliziesche e i piani d’Israele volti all’annessione della Gerusalemme Est occupata”.
Dopo di lui, prende la parola l’Osservatore dell’Anp all’Onu, Riyad Mansour: il popolo palestinese, afferma, “non accetterà pretesti religiosi che giustifichino l’annessione”. Mansour ha aggiunto che il riconoscimento di Gerusalemme da parte di Trump “non avrà alcun impatto sullo status e sulla posizione della Città Santa, ma avrà un impatto sullo status degli Stati Uniti come mediatori di pace”.
“Non possiamo fare a meno di chiedere – continua il rappresentante palestinese – a chi e a cosa serve questa decisione?”. Mansour non ha dubbi in proposito: “Serve al governo israeliano per attuare i suoi piani coloniali”. Il dibattito riflette, nei toni e nei contenuti, le avvisaglie che lo avevano preceduto. Quella che si combatte è una vera e propria “guerra diplomatica”, dove non si fanno “prigionieri”. Lo ribadisce l’ambasciatrice Haley: “Noi — dice la rappresentante Usa — ricorderemo questo voto”. Più che una constatazione, è una minaccia.
E se non fosse stata abbastanza chiara, ci pensa sempre Haley ad affrontare il tema che più interessa a diversi Stati votanti: il portafoglio. “Abbiamo l’obbligo di chiedere di più per il nostro investimento e se il nostro investimento fallisce, abbiamo l’obbligo di spendere le nostre risorse in modi più produttivi. Questi sono i pensieri che vengono in mente quando consideriamo la risoluzione davanti a noi oggi”, Haley dixit.
Compromesso è una parola bandita dal Palazzo di Vetro. “Noi” e” loro”, gli uni contro gli altri. “Gli Stati Uniti trasferiranno l’ambasciata a Gerusalemme”, ribadisce Haley, e lo farà anche se dovessero restare da soli in questa scelta.
Durissimo l’intervento dell’ambasciatore israeliano, Danny Danon: “Israele — scandisce — non sarà mai cacciato da Gerusalemme”. C’è qualcosa di più di una ostilità politica negli interventi che si susseguono dalla tribuna. C’è qualcosa che è molto simile all’odio. E alla derisione.
Ecco allora Danon rivolgersi così a coloro che voteranno la mozione: “Siete dei burattini — tuona l’ambasciatore israeliano — manovrati dai maestri burattinai palestinesi: siete ciechi di fonte alle menzogne, ciechi alle manipolazioni, proprio come i burattini. I palestinesi sanno che questa risoluzione è una frode. Questa risoluzione non è altro che una distrazione, non ho dubbi che la risoluzione di oggi finirà nel cestino della storia”.
Il voto non avrà conseguenze operative, ma la frattura consumatasi oggi ha qualcosa di storico: rimettere insieme i cocci di una comunità internazionale così frantumata sarà una impresa difficile, faticosa, non breve.
Le minacce reciproche, il tirare dentro al dibattito argomenti che vanno ben al di là della sfera politico-diplomatica, sconfinando nella Storia e nelle fedi religiose, danno conto della crisi profonda delle Nazioni (dis) Unite.
Lo strappo consumato dall’amministrazione Trump ridefinisce le alleanze nel Grande Medio Oriente. E il primo “passaggio” di campo è quello palestinese: l’uomo a cui guarda oggi il presidente dell’Anp Abu Mazen come “Custode” politico della “causa palestinese” non risiede più alla Casa Bianca ma al Cremlino: è Vladimir Putin.
Da Israele arriva il primo commento a caldo: il premier Netanyahu fa buon viso a cattivo gioco e si dichiara “soddisfatto” del risultato. “Abbiamo combattuto una battaglia di verità — dichiara — e questo è ciò che più conta per il popolo ebraico. E lo abbiamo fatto avendo a fianco l’alleato più sincero e prezioso: il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump”.
Lo strappo di Trump investe l’Europa. Tutti i Paesi fondatori dell’Ue hanno votato contro la scelta del presidente Usa: sui 28 ad astenersi sono state l’Ungheria e la Repubblica Ceca. Nonostante le pressioni, le minacce, non ci sono state significative defezioni.
“Nonostante le minacce americane, la grande maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite hanno difeso la legalità internazionale e riconosciuto i diritti del popolo palestinese su Gerusalemme Est — dichiara ad HP il ministro degli Esteri palestinese, al-Malki -. E’ un messaggio di speranza per il nostro popolo”. Di avviso opposto è il ministro dell’Energia, Yuval Steinitz, uno dei più stretti collaboratori del premier Netanyahu, membro del Gabinetto di sicurezza dello Stato ebraico. Ad HP dichiara: “In questa battaglia abbiamo rafforzato la nostra unione con gli Stati Uniti. Sappiamo di essere nel giusto. Ora sappiamo anche su chi poter contare davvero”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
PER GLI ESPERTI DOPO UN MINIBOOM SUBENTRERA’ LA RECESSIONE: I PRECEDENTI DI REAGAN NELL’81 DI BUSH NEL 2003
Il passaggio della riforma fiscale riconcilia almeno per il momento Donald Trump e lo
swamp, la palude, come lui ha spesso chiamato la Washington politica.
Dopo il voto della Camera, che ha definitivamente approvato il tax bill, 224 voti contro 201, il presidente si è ritrovato nel South Portico della Casa Bianca insieme ad alcuni repubblicani.
Lui ha salutato il “grande, grande giorno”, quello della tanto attesa riduzione delle tasse; repubblicani come Orrin Hatch hanno detto che Trump si sta rivelando come “uno dei più grandi presidenti della storia”, mentre il leader del Senato Mitch McConnell ha lodato “lo straordinario risultato”. La banda dei marines, intanto, suonava i canti di Natale.
Solo il tempo, solo i prossimi mesi, diranno se il presidente e i repubblicani hanno avuto ragione.
La riforma fiscale era, per Trump e i repubblicani, assolutamente necessaria. Si tratta infatti del primo, vero risultato legislativo di questa amministrazione, dopo una serie di imbarazzanti sconfitte al Congresso — prima fra tutte, quella sull’Affordable Care Act. L’indagine dello special counsel Robert Mueller, l’incriminazione di uomini come Michael Flynn e Paul Manafort, hanno reso il clima politico ancora più convulso e difficile.
Una vittoria legislativa importante, come quella sulla riforma delle tasse per gli americani, non era quindi solo importante. Era imprescindibile.
Ciò non toglie che il futuro politico di Trump sia comunque di difficile previsione.
Il presidente e i repubblicani sperano che questa riforma consolidi anzitutto la base conservatrice in vista delle elezioni di midterm.
Al cuore dei propri elettori, Trump e il G.O.P. offrono tasse più basse, la nomina di giudici conservatori, la cancellazione di molte regolamentazioni e la battaglia per limitare l’entrata di stranieri negli Stati Uniti.
Il fatto che in questa riforma fiscale ci sia anche una norma che annulla l’obbligatorietà del mandato sanitario — previsto dall’Obamacare — può essere sbandierato come un ulteriore successo da parte di Trump che avrebbe finalmente fatto crollare dall’interno l’odiato sistema sanitario architettato dal precedente presidente.
Questo è dunque il messaggio con cui Trump e i repubblicani sperano di arrivare alle elezioni di midterm del prossimo novembre — e vincerle.
E’ un messaggio che promette espansione economica, lavoro e una rivoluzione conservatrice sui valori.
Non a caso un politico repubblicano che negli anni Novanta fu tra i protagonisti di un’altra rivoluzione conservatrice, Newt Gingrich, ha detto che “questa è stata una settimana straordinaria… il trumpismo, alla fine, si è dimostrato per quello che è, cioè la garanzia di più posti di lavoro”.
Mettendo insieme smantellamento dell’Obamacare e lotta all’immigrazione — i temi più sentiti dalla sua base conservatrice — con tasse più basse e deregolamentazione — materie su cui è sensibile il tradizionale establishment repubblicano — Trump spera di ridare energia, e durata, alla sua avventura politica.
Esistono però, come si diceva, alcune incognite.
Anzitutto, la percezione di questa riforma fiscale. Un sondaggio Quinnipiac University dello scorso 13 dicembre mostra che solo il 16 per cento degli americani crede che questa riforma abbasserà davvero le tasse.
Il 55 per cento degli intervistati ha un’opinione negativa della nuova legge e il 46 per cento dice che con ogni probabilità non voterà per un deputato o senatore che l’ha sostenuta.
Il carattere decisamente orientato a favore di imprese e ricchi della riforma — che porta dal 35 al 21 per cento la corporate tax, taglia la tassa di successione e abbassa le imposte soprattutto per gli americani più abbienti — non è dunque passato inosservato alla maggioranza degli americani.
Tanto più che mentre i tagli per i singoli sono destinati a scadere nel 2025, quelli per le imprese diventano definitivi.
Una prima sfida, per l’amministrazione USA, riguarda dunque il modo in cui la riforma verrà “venduta” e percepita.
Se passa l’idea che si tratti non “della più straordinaria rivoluzione fiscale degli ultimi trent’anni”, ma di un enorme regalo ai ricchi, Trump e i repubblicani sono nei guai. Potrebbe del resto non trattarsi di una semplice percezione.
Il “Center for American Progress” ha calcolato che Donald Trump risparmierà personalmente, grazie alla sua riforma, 15 milioni di dollari all’anno.
Ugualmente beneficiati dalla nuova legge sono altri milionari presenti nell’amministrazione: Wilbur Ross, Linda McMahon, Betsy DeVos, Steven Mnuchin, Rex Tillerson. Il rischio che la “rivoluzione fiscale” sia intesa come un vantaggio personale di chi l’ha progettata è alto.
Esiste poi un dato prettamente economico.
Il presidente e il G.O.P. credono che la nuova legge farà da volano allo sviluppo e alla crescita dei posti di lavoro. “La nostra economia crescerà di 4 punti il prossimo anno” ha spiegato il direttore del National Economic Council, Gary D. Cohn.
La previsione dunque è che questa crescita riuscirà non soltanto a pagare i costi della riforma fiscale — intorno ai 1500 miliardi di dollari — ma che darà un ulteriore impulso in termini di ricchezza e lavoro.
Le previsioni di altri non sono però così rosee. Goldman Sachs prevede una crescita del 2,5 per cento nel 2018, con una discesa all’1,8 per cento nel 2019.
Gli effetti della riforma, hanno spiegato gli analisti della banca in uno studio recente “appaiono minimi nel 2020 e oltre, e potrebbero essere alla fine anche leggermente negativi”.
E se la reazione dei mercati all’approvazione della legge è stata entusiastica — ci sono imprese come AT&T che hanno promesso bonus da 1000 dollari ai loro dipendenti per festeggiare il taglio alle tasse — ci sono voci che invitano alla prudenza.
Il deficit potrebbe continuare ad allargarsi. E, dopo un piccolo miniboom, potrebbero subentrare delusione e recessione, come successe dopo i tagli fiscali di Ronald Reagan nel 1981 e di George W. Bush nel 2003.
Su tutto però, ovviamente, domina un’altra considerazione, che non ha a che fare con la politica o con l’economia, ma con la giustizia.
Su questo primo, indubbio successo legislativo di Trump continua infatti ad aleggiare lo spettro dell’inchiesta del Russiagate.
Nuovi sviluppi giudiziari — per esempio l’incriminazione del genero di Trump, Jared Kushner, di cui a Washington si parla da tempo — potrebbero sopire gli entusiasmi e rendere sempre più precario e accidentato il percorso di questa amministrazione.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
IL CAVALIERE MASSACRA LA SUA STESSA RADIO.. AVEVA DETTO: “SCEGLIETE PURE VOI GLI ARGOMENTI”
Trenta minuti di intervista di cui più della metà con la testa china per leggere le risposte a domande evidentemente concordate ben prima di entrare in studio.
Silvio Berlusconi ospite di Radio 105 ha provocato l’insurrezione degli ascoltatori che non hanno gradito la cortesia accordata dai conduttori del talk 105friends, Rosario Pellecchia e Tony Severo, nei confronti del loro datore di lavoro.
Mentre i neo dipendenti Mediaset ascoltavano in religioso silenzio il discorso elettorale del leader di Forza Italia, sulla pagina Facebook della radio è andata in scena la rivolta. (
Un’indignazione, quella degli ascoltatori di 105, paragonabile a quella di Mike Bongiorno quando scoprì la signora Livoli, concorrente di TeleMike, che leggeva le risposte alle domande del conduttore su un bigliettino nascosto nel reggiseno.
Alla povera donna però, diversamente dall’ex Cavaliere, toccò il pubblico ludibrio di Mike che la derise e rimbrottò fino a portarla allo svenimento, mentre Berlusconi per qualche minuto deve aver pensato di averla fatta franca grazie alla quasi comica complicità dei due dj.
Il potente staff che accompagnava l’ex Cavaliere ha potuto controllare fino all’ultima virgola il discorso, ma non ha fatto i conti con la radiovisione, l’intervista era infatti ritrasmessa in video sui canali social e sul sito della radio.
Gli ascoltatori hanno potuto così vedere in diretta i retroscena della trasmissione.
La quasi totalità dei commenti si è trasformata, almeno nella prima parte dell’intervista, in un unico atto d’accusa nei confronti della radio e dei conduttori, colpevoli a detta dei fan di 105 di essersi “venduti” concordando una scaletta che ha consentito a Berlusconi di evitare, in parte, scivoloni
Qualche giorno fa, sempre ospite in casa propria, davanti a una sbalordita Federica Panicucci, al pubblico di Mattino Cinque ha regalato una perla dietro l’altra: “Un euro vale mille euro, massimo. In Sicilia faremo costruire lo stretto. Malta è 87 volte più piccola della sinistra e ha 14 milioni di dipendenti” (Nel 2016 contava su 436 abitanti).
In radio l’esordio ironico di Berlusconi: “Gli argomenti, siete in casa vostra e avete il diritto di sceglierli voi”, si è trasformato in un ciclone contro la sua stessa emittente.
Oltre alla “cortesia” delle domande e risposte scritte, l’emittente ha accordato al vero padrone di casa un trattamento di favore in tutto e per tutto.
Uno stravolgimento del format della radio e della trasmissione con una sola interruzione pubblicitaria e la cancellazione di tutti i pezzi musicali generalmente programmati in quella fascia, anche in presenza di ospiti ben più importanti per il loro pubblico.
La pubblicità è da sempre la fortuna del magnate di Arcore, così l’unica interruzione del discorso fiume cadenzato dalle domande sul programma di Forza Italia, ha evidentemente spinto lo staff a cambiare strategia abbandonando nella seconda parte dell’intervista le risposte scritte.
Il tono dei commenti però non è migliorato e le prestazioni dell’intervistato sono rimaste sostanzialmente invariate, compresi gli scivoloni su vocali e inglesismi.
Non è bastata nemmeno la promessa di abbattere le tasse con la “flas tas” (flat tax), a risollevare il tenore dei commenti che fioccavano a ogni scivolone.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 21st, 2017 Riccardo Fucile
INES ARRIMADAS, 36 ANNI, AVVOCATO, L’UNICA VERA OPPOSITRICE AGLI INDIPENDENTISTI E UN VERO ANIMALE POLITICO, NEI DIBATTITI NON CE N’E’ PER NESSUNO… I SUOI COMIZI NELLA CINTURA ROSSA: “LA VERA EMERGENZA E’ IL LAVORO”
Rimmel brillante, capello corvino, Inès Arrimadas è il ciclone che sta scompaginando gli
equilibri politici spagnoli.
Troppo bella per non bucare il video, eppure anche troppo aggressiva e suadente, per non mettere tutti in riga.
Lo chiamano il «Fattore Inès». L’uomo che l’ha scoperta e spinta, il segretario generale di Ciudadanos, Albert Rivera, gongola.
Ora il partito arancione è la stampella di destra, giovane e pulita ma pur sempre stampella, del colosso Popular del premier Mariano Rajoy. Se Arrimadas stracciasse il candidato Pp a Barcellona, anche Rivera a Madrid potrebbe alzare il prezzo con il premier
Arrimadas, 36 anni, è una candidata post ideologica, post femminista, post politica: un animale da dibattito, a suo agio negli interventi in Parlament come in tv, capace di giostrare tra destra e sinistra con la naturalezza con cui aggiusta il ricciolo.
Non gioca con l’umorismo, è seria e vuole esserlo, ma quando gli avversari le danno della «marionetta che ha imparato quattro slogan a memoria» lei ribatte senza stizza, quindi efficacissima: «Si abbassa agli insulti personali? Che pena, non ha altri argomenti?».
E lo fa indifferentemente in spagnolo o in catalano. Lei che è andalusa di nascita e di studi e da oltre 10 anni vive a Barcellona
«Non sarò parlamentare per sempre, rientrerò nel settore privato». È arrivata a fine campagna senza voce, ma si dice sia stata sua l’idea del nuovo marchio che unisce in un cuore le tre bandiere: catalana, spagnola ed europea.
Sua l’idea di mettersi in concorrenza non solo sul terreno del patriottismo con la destra, ma anche su quello del Welfare e della politica di genere con la sinistra.
«Certo, le donne faticano ad essere al vertice delle imprese e delle professioni – ha spiegato in un comizio –. Quanti soldi hanno investito gli indipendentisti negli asili nido? Zero. Quanti soldi investirò io se sarò eletta presidenta? Tutti i milioni che Puigdemont usava per promuovere l’indipendenza all’estero aprendo ambasciate».
Ha avuto il coraggio di fare comizi nella cintura rossa di Barcellona, di dire che «la coda all’ufficio di disoccupazione la fanno indipendentisti e non indipendentisti ed è il lavoro la vera emergenza».
Non sarà presidenta, Ma Inès è ormai sbocciata e resterà a lungo nella politica spagnola.
(da agenzie)
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