WATERLOO DI TRUMP ALL’ONU: L’EUROPA VOTA COMPATTA A SOSTEGNO DEI PALESTINESI
LA RISOLUZIONE PASSA CON 128 SI’, APPENA 9 NO… GLI USA: “CE NE RICORDEREMO”… TRANQUILLI, ANCHE NOI
New York ore 12,22 (le 18,22 in Italia). Su Gerusalemme, Donald Trump subisce la sua prima, pesantissima sconfitta internazionale.
Con 128 voti favorevoli, 35 astenuti (tra i quali, all’ultimo minuto, Canada e Messico) e 9 contrari, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la mozione che condanna la decisione statunitense di trasferire la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima capitale unica e indivisibile d’Israele. Tra i voti a favore della risoluzione quello dell’Italia, insieme a 25 Paesi dell’Unione europea, tra cui Francia, Germania e Regno Unito.
Per The Donald è una Waterloo diplomatica, se si pensa che tra i nove voti conquistati, vi sono quelli di Stati non certamente cruciali nella geopolitica internazionale: Togo, Micronesia, Honduras, Nauru, Palau, Guatemala. Le Isole Marshall. Cronaca di una giornata segnata dalla “diplomazia della calcolatrice”.
Somma, sottrai, dividi, percentualizza. Il tutto legato al voto con cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione su Gerusalemme, la stessa che l’Egitto aveva presentato al Consiglio di sicurezza, ma che, nonostante avesse ottenuto 14 voti su 15, non è stata adottata per il diritto di veto esercitato dagli Stati Uniti.
Il via libera dell’Assemblea generale non ha conseguenze operative (le risoluzioni attuabili sono solo quelle licenziate dal Consiglio di sicurezza) ma quel voto rappresenta uno smacco politico per gli Usa.
“Tutte quelle nazioni che prendono i nostri soldi e poi votano contro di noi al Consiglio di sicurezza e votano contro di noi potenzialmente anche all’Assemblea” generale dell’Onu, “prendono centinaia di milioni di dollari e anche miliardi di dollari e poi votano contro di noi, vediamo questi voti”, aveva tuonato Donald Trump alla vigilia del pronunciamento. Per poi aggiungere: “Lasciamoli votare contro di noi. Risparmieremo molto. Non ci interessa”.
La minaccia di Trump scatena la reazione non solo di capi di Stato o di governo ma anche di organizzazioni umanitarie.
“Il presidente Trump sta raddoppiando le sue politiche sconsiderate costringendo altri Paesi ad accettare la sua decisione di riconoscere l’annessione illegale di Gerusalemme Est da parte di Israele”, dichiara Raed Jarrar, direttore advocacy e relazioni istituzionali per il Medio Oriente di Amnesty International Usa. “Le tattiche da bulli dell’amministrazione Trump — aggiunge – serviranno solo a isolare ulteriormente gli Usa dalla scena globale. Piuttosto che minacciare coloro che dipendono dagli aiuti statunitensi, l’amministrazione Trump dovrebbe rispettare i propri obblighi legali di non riconoscere una situazione illegale e di invertire la rotta su Gerusalemme”.
Siamo in piena campagna acquisti: ecco il presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdogan, esortare il mondo a non “vendersi” per i dollari di Trump.
E rivolgendosi direttamente a Trump, dice: “Non comprerai la nostra volontà con i tuoi dollari”.
“Il mondo è cambiato — gli fa eco il ministro degli Esteri di Ankara — l’assunto secondo cui ‘io ho il potere e quindi ho ragione? Non va più. Ora il mondo si ribella alle forzature unilaterali”. Concetto rilanciato dal ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Malki: “Su Gerusalemme — afferma — si sta definendo un nuovo ordine mondiale in politica. Purtroppo l’amministrazione Usa non sembra volerne prendere atto”.
I toni si fanno apocalittici, da film dell’horror: “Trump vi sta guardando!”, fa sapere Nikki Haley, la battagliera ambasciatrice Usa al palazzo di Vetro.
Haley aveva detto che non tutti i Paesi devono seguire la loro decisione di spostare l’ambasciata a Gerusalemme anche se si trattava di una scelta “appropriata”.
Al momento del voto a Palazzo di Vetro, ha avvertito, “gli Usa si segneranno i nomi”. A precedere le parole del presidente, un tweet in cui la Haley lamentava che “all’Onu ci viene sempre chiesto di fare e dare di più. Quindi quando prendiamo una decisione, per volontà del popolo americano, su dove collocare la nostra ambasciata, non ci aspettiamo che coloro che abbiamo aiutato ci prendano di mira”.
La “mira” l’ha presa Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano non ha atteso l’esito della votazione per affermare che “lo Stato d’Israele rigetta totalmente questo voto. Gerusalemme è la capitale d’Israele, che le Nazioni Unite lo riconoscano o no. Ci sono voluti 70 anni perchè gli Stati Uniti formalizzassero questo riconoscimento, e ci vorranno forse altrettanti anni perchè le Nazioni Unite facciano lo stesso”.
Nel frattempo, avverte Netanyahu, “continueremo a costruire lì (a Gerusalemme, ndr) anche per ospitare le ambasciate che si trasferiranno a Gerusalemme”.
Altro che Palazzo di Vetro: quella delle Nazioni Unite è la “Casa delle menzogne”, tuona preventivamente il premier israeliano. Mercoledì sera, il ministero degli Esteri israeliano, del quale Netanyahu è il titolare ad interim, ha inviato un cable a tutte le ambasciate e missioni israeliane al mondo ordinando loro di chiedere alle organizzazioni ebraiche nei loro Paesi di fare pressione sui governi locali per orientarne il voto.
Il dibattito è aperto dal Rappresentante permanente alle Nazioni Unite dello Yemen, Khaled Hussein Mohamed Alyemani che ha il compito di illustrare la mozione. Alyemany definisce la presenza israeliana a Gerusalemme “una forzata annessione della terra, una seria minaccia alla pace e alla stabilità ” e prosegue affermando che “Gerusalemme Est continua a essere occupata, la Palestina ha il diritto alla sovranità ” nella Città Eterna. Più che una illustrazione della mozione, quella in cui si lancia il rappresentante dello Yemen è una filippica contro Israele. “Noi — dice — condanniamo tutte le pratiche poliziesche e i piani d’Israele volti all’annessione della Gerusalemme Est occupata”.
Dopo di lui, prende la parola l’Osservatore dell’Anp all’Onu, Riyad Mansour: il popolo palestinese, afferma, “non accetterà pretesti religiosi che giustifichino l’annessione”. Mansour ha aggiunto che il riconoscimento di Gerusalemme da parte di Trump “non avrà alcun impatto sullo status e sulla posizione della Città Santa, ma avrà un impatto sullo status degli Stati Uniti come mediatori di pace”.
“Non possiamo fare a meno di chiedere – continua il rappresentante palestinese – a chi e a cosa serve questa decisione?”. Mansour non ha dubbi in proposito: “Serve al governo israeliano per attuare i suoi piani coloniali”. Il dibattito riflette, nei toni e nei contenuti, le avvisaglie che lo avevano preceduto. Quella che si combatte è una vera e propria “guerra diplomatica”, dove non si fanno “prigionieri”. Lo ribadisce l’ambasciatrice Haley: “Noi — dice la rappresentante Usa — ricorderemo questo voto”. Più che una constatazione, è una minaccia.
E se non fosse stata abbastanza chiara, ci pensa sempre Haley ad affrontare il tema che più interessa a diversi Stati votanti: il portafoglio. “Abbiamo l’obbligo di chiedere di più per il nostro investimento e se il nostro investimento fallisce, abbiamo l’obbligo di spendere le nostre risorse in modi più produttivi. Questi sono i pensieri che vengono in mente quando consideriamo la risoluzione davanti a noi oggi”, Haley dixit.
Compromesso è una parola bandita dal Palazzo di Vetro. “Noi” e” loro”, gli uni contro gli altri. “Gli Stati Uniti trasferiranno l’ambasciata a Gerusalemme”, ribadisce Haley, e lo farà anche se dovessero restare da soli in questa scelta.
Durissimo l’intervento dell’ambasciatore israeliano, Danny Danon: “Israele — scandisce — non sarà mai cacciato da Gerusalemme”. C’è qualcosa di più di una ostilità politica negli interventi che si susseguono dalla tribuna. C’è qualcosa che è molto simile all’odio. E alla derisione.
Ecco allora Danon rivolgersi così a coloro che voteranno la mozione: “Siete dei burattini — tuona l’ambasciatore israeliano — manovrati dai maestri burattinai palestinesi: siete ciechi di fonte alle menzogne, ciechi alle manipolazioni, proprio come i burattini. I palestinesi sanno che questa risoluzione è una frode. Questa risoluzione non è altro che una distrazione, non ho dubbi che la risoluzione di oggi finirà nel cestino della storia”.
Il voto non avrà conseguenze operative, ma la frattura consumatasi oggi ha qualcosa di storico: rimettere insieme i cocci di una comunità internazionale così frantumata sarà una impresa difficile, faticosa, non breve.
Le minacce reciproche, il tirare dentro al dibattito argomenti che vanno ben al di là della sfera politico-diplomatica, sconfinando nella Storia e nelle fedi religiose, danno conto della crisi profonda delle Nazioni (dis) Unite.
Lo strappo consumato dall’amministrazione Trump ridefinisce le alleanze nel Grande Medio Oriente. E il primo “passaggio” di campo è quello palestinese: l’uomo a cui guarda oggi il presidente dell’Anp Abu Mazen come “Custode” politico della “causa palestinese” non risiede più alla Casa Bianca ma al Cremlino: è Vladimir Putin.
Da Israele arriva il primo commento a caldo: il premier Netanyahu fa buon viso a cattivo gioco e si dichiara “soddisfatto” del risultato. “Abbiamo combattuto una battaglia di verità — dichiara — e questo è ciò che più conta per il popolo ebraico. E lo abbiamo fatto avendo a fianco l’alleato più sincero e prezioso: il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump”.
Lo strappo di Trump investe l’Europa. Tutti i Paesi fondatori dell’Ue hanno votato contro la scelta del presidente Usa: sui 28 ad astenersi sono state l’Ungheria e la Repubblica Ceca. Nonostante le pressioni, le minacce, non ci sono state significative defezioni.
“Nonostante le minacce americane, la grande maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite hanno difeso la legalità internazionale e riconosciuto i diritti del popolo palestinese su Gerusalemme Est — dichiara ad HP il ministro degli Esteri palestinese, al-Malki -. E’ un messaggio di speranza per il nostro popolo”. Di avviso opposto è il ministro dell’Energia, Yuval Steinitz, uno dei più stretti collaboratori del premier Netanyahu, membro del Gabinetto di sicurezza dello Stato ebraico. Ad HP dichiara: “In questa battaglia abbiamo rafforzato la nostra unione con gli Stati Uniti. Sappiamo di essere nel giusto. Ora sappiamo anche su chi poter contare davvero”.
(da “Huffingtonpost”)
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