Gennaio 12th, 2018 Riccardo Fucile
IL CORPO DELL’UOMO TROVATO CARBONIZZATO… “VOLEVAMO FARGLI UNO SCHERZO”, MA LO PERSEGUITAVANO DA TEMPO
«Volevamo solo fargli uno scherzo». Gli occhi impauriti sono quelli di un bambino che dimostra perfino meno dei suoi tredici anni. Di fronte al magistrato Stefano Aresu è spaventato ma non piange, come non si rendesse conto fino in fondo in che razza di guaio si è cacciato: sospettato assieme a un amico di 17 anni per l’omicidio di un clochard marocchino, arso vivo nell’abitacolo della vettura abbandonata a Zevio, nel Veronese, che da qualche tempo era diventata la sua casa.
L’inchiesta
Le indagini sono ancora in corso e quindi anche quella che suona come una confessione, vista l’età del ragazzino, viene presa con le pinze dai carabinieri. Fonti investigative si limitano a confermare che per la morte di Ahmed Fdil, 64 anni, trovato carbonizzato il 13 dicembre alle 20 di sera, «ci sono degli indiziati a piede libero». Nient’altro.
Il racconto fatto dal minore in queste ore viene analizzato e confrontato con le testimonianze della gente del posto, che da tempo vedeva un gruppetto di adolescenti «tormentare» per noia il marocchino, che in Italia viveva da quasi trent’anni e che era finito a vivere per strada dopo che la fabbrica nella quale lavorava come operaio specializzato l’aveva inserito nell’elenco dei dipendenti in esubero.
L’incendio
Quella sera, i vigili del fuoco erano stati chiamati per spegnere le fiamme che avvolgevano la Fiat Bravo con all’interno Fdil. Lui avrebbe anche tentato di liberarsi, visto che il suo corpo era in parte riverso all’esterno, all’altezza della portiera anteriore destra. Ma non ce l’ha fatta. Inizialmente si pensava a una tragica fatalità . Il clochard fumava molto, nel paesino di Zevio l’avevano soprannominato «Il Baffo» e lo descrivevano «sempre con la cicca in bocca».
Quindi l’ipotesi dell’incidente: il marocchino che si addormenta con la sigaretta tra le mani, magari dopo aver bevuto troppo, il mozzicone che cade sulle coperte e i tessuti che prendono fuoco, scatenando l’inferno.
Le voci
Ma già nei giorni successivi, tra la gente hanno cominciato a circolare strane voci. Alcuni testimoni, e i connazionali della vittima, raccontavano di alcuni adolescenti che avevano preso di mira Ahmed Fdil con scherzi di vario genere. «Quei ragazzini, saranno stati due o tre, lo perseguitavano», racconta Sonia, che abita a due passi dal luogo del rogo. «Li ho visti che lo pedinavano, rimanendo rasente ai muri. E poi il rumore dei petardi che gli tiravano contro…. Anche quella sera ho sentito un botto, e quando mi sono affacciata alla finestra ho scorto le fiamme intorno all’auto». A distanza di quasi un mese, a poche centinaia di metri dal piazzale in cui si è consumata la tragedia, sull’asfalto ci sono ancora i resti di cartone delle «miccette» esplose.
La coppia di testimoni
Diversi residenti indicano con insistenza l’abitazione di una coppia: «Loro avevano affrontato quei teppistelli faccia a faccia, dicendo che dovevano piantarla di molestare Il Baffo. Ma non è bastato…». La coppia, due professionisti, non vuole esporsi: quello che avevano da dire, probabilmente, l’hanno già riferito ai carabinieri.
Utili alle indagini sarebbero le foto e i video forniti proprio dai primi soccorritori intervenuti sul posto, alcuni dei quali mostrano l’auto in fiamme. Ma a spostare l’attenzione sui ragazzini sono le testimonianze di chi, al momento del rogo, ha sentito lo scoppio. Una delle ipotesi, ancora tutta da verificare, è che i ragazzini possano aver lanciato dei petardi nell’auto nella quale dormiva il marocchino e che la fiammata abbia innescato l’incendio.
Il patto del silenzio
Il tredicenne, sentito dagli investigatori, avrebbe invece raccontato di aver dato fuoco, assieme all’amico, a della carta assorbente per poi lanciarla attraverso il finestrino. Infine la fuga e il «patto di sangue» tra i due adolescenti: non rivelare mai a nessuno quanto accaduto quella sera. Ma le bugie sono crollate sotto le domande del pm di Verona che, dopo aver raccolto la testimonianza del tredicenne, ha immediatamente inviato il fascicolo – compreso della relazione dei vigili del fuoco – alla procura per i minorenni di Venezia, che dovrà decidere come procedere nei confronti dei ragazzini. Entrambi restano a piede libero. E il tredicenne, vista l’età , non è neanche imputabile.
(da agenzie)
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Gennaio 12th, 2018 Riccardo Fucile
CON LA CIFRA SPESA PER LE DECONTRIBUZIONI A TEMPO SI SAREBBE POTUTO ABBATTERE IL CUNEO FISCALE O RIDURRE LA PRESSIONE FISCALE DI 2,5 PUNTI
Il numero è da record: 17,9 milioni di lavoratori dipendenti; 15 milioni di assunti a
tempo indeterminato. Un record che il governo Gentiloni e il Pd possono giocarsi in campagna elettorale in vista del voto del 4 marzo.
D’altra parte è il dato più alto da quando sono iniziate le serie storiche dell’Istat, nel 1977. Eppure la macchina fatica a ripartire: le assunzioni crescono, ma la produttività rimane bassa. Proprio come i salari: senza domanda di lavoro, non ci sono nè concorrenza nè aumenti.
E il risultato è evidente: dall’inizio della legislatura nel 2013 a oggi gli italiani che vivono in povertà — secondo i dati Istati — sono passati da 7,8 a 8,5 milioni (quasi 5 milioni quelli in povertà assoluta). Nello stesso periodo le persone a rischio povertà sono cresciute da 10,6 a 12,5 milioni di persone.
Insomma l’aumento dell’occupazione non rispecchia un miglioramento della situazione del Paese, anzi sembra piuttosto nasconderne i problemi.
“L’aumento degli occupati — spiega un economista italiano che lavora alla Bce e non può comparire — è preso a prestito dal futuro: a spingere le assunzioni sono stati gli incentivi, non la ripresa economica. Basta guardare al picco di nuovi dipendenti che si registra a dicembre quando gli incentivi sono a scadenza”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Giuseppe de Blasio, responsabile dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro: “I cicli economici prevedono che prima arrivi la ripresa, poi parta il mercato del lavoro. In Italia abbiamo assistito a un processo inverso: il Pil è tornato a crescere dopo le assunzioni”.
Solo che a sostenere la ripresa non sono stati i consumi: nell’incertezza, le famiglie hanno preferito risparmiare piuttosto che spendere. E l’aumento del Pil, in larga parte, dipende dall’export. Anche per questo Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro — e presidente della Commissione Lavoro della Camera — ha più volte osservato che il Jobs act “è stato pensato come una droga per la ripresa, ma non ha funzionato”.
“Sì è speso molto, ma non si è ridotto il costo del lavoro in maniera strutturale. Eppure è un fattore cruciale per attrarre investimenti esteri” insiste de Blasio che poi aggiunge: “Le imprese straniere chiedono certezze. Gli incentivi a pioggia, se non diventano strutturali ottengono il risultato contrario”.
Come a dire che quello che manca all’Italia è un piano di ampio respiro per lo sviluppo del Paese: dal 2014 il governo ha speso circa 70 miliardi tra incentivi all’occupazione — sotto forma di decontribuzioni — e bonus da 80 euro.
Con la stessa cifra si sarebbe — per esempio — potuto abbattere, strutturalmente, il cuneo fiscale (la differenza tra il costo del lavoro e lo stipendio netto di un dipendente) con il doppio risultato di aumentare il peso delle buste paga e aiutare le imprese ad assumere: “Gli incentivi — spiega l’economista da Francoforte — funzionano se le imprese assumono qualcuno che altrimenti non si sarebbero potute permettere e se i nuovi dipendenti aumentano la produttività . In caso contrario creano un effetto distorsivo perchè riescono di tenere in piedi imprese decotte e non aumentano la professionalità dei lavoratori”.
Anche perchè nella storia recente l’aumento della produttività si è slegato dalla crescita dell’occupazione.
Insomma il problema pare essere culturale: gli incentivi a pioggia servono a tenere buoni gli elettori e le corporazioni che sostengono questo o quel partito, ma purtroppo non fanno il bene del Paese.
D’altra parte sono proprio questi i rilievi che arrivano dall’Unione europea quando si contesta all’Italia il poco coraggio nell’attuare riforme strutturali. I 70 miliardi di euro sotto forma di incentivi avrebbe ridotto drasticamente il cuneo fiscale (calcolato dalla Cgia di Mestre in poco meno di 300 miliardi di euro l’anno), ma avrebbero anche potuto ridurre la pressione fiscale di 2,5 punti l’anno con risultati rilevanti, soprattutto se concentrati sui redditi bassi.
La scorsa primavera il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, provò a rilanciare il taglio del cuneo fiscale anche a costo di far scattare l’aumento dell’Iva, ma fu subito fermato dal segretario del Pd, Matteo Renzi: il record di occupati è di facile comprensione per qualunque elettore, a differenza di una riforma di largo respiro in grado di dare risultati crescenti con il passare del tempo.
D’altra parte lo stesso Padoan ha ormai dismesso i panni del professore e avendo deciso di scendere nell’arena politica riconosce a Renzi il “successo” di bonus e incentivi.
(da “Business Insider”)
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Gennaio 12th, 2018 Riccardo Fucile
RICOVERATELO, PRIMA CHE SCATENI UNA GUERRA MONDIALE… POI ANNULLA LA VISITA A LONDRA PER TIMORE DI CONTESTAZIONI DI PIAZZA
Donald Trump ‘shock’. Il presidente americano, in un incontro nello Studio Ovale con alcuni membri del Congresso, usa parole dure contro gli immigrati.
A parlamentari e senatori che gli chiedevano di riconsiderare la decisione di togliere lo status di protezione a migliaia di immigrati da Haiti, El Salvador e da alcuni Paesi africani, il tycoon ha risposto: “Perchè gli Stati Uniti dovrebbero avere tutta questa gente che arriva da questo cesso di Paesi?”.
Un’espressione volgare quella di ‘shithole countries’ usata dal presidente e che subito ha scatenato polemiche. Secondo quanto riferisce il Washington Post, Trump si sarebbe spinto anche oltre: gli Stati Uniti dovrebbero attirare più immigrati da paesi come la Norvegia.
l gelo tra i partecipanti all’incontro. I presenti all’incontro – secondo indiscrezioni riportate dai media americani – sarebbero rimasti spiazzati dal duro attacco del presidente.
Il senatore repubblicano Lindsay Graham e quello democratico Richard Durbin sono rimasti gelati: solo pochi minuti prima, avevano proposto di tagliare del 50% la lotteria per i visti di ingresso negli Usa continuando a tutelare gli immigrati già residenti nel Paese con lo status di protezione.
Status accordatogli in quanto costretti a lasciare i loro Paesi di origine per sfuggire alle conseguenze di catastrofi come i devastanti terremoti che negli anni passati hanno colpito El Salvador o Haiti.
La Casa Bianca non smentisce.
La Casa Bianca non smentisce le ricostruzioni, limitando a dire: “Alcuni politici a Washington scelgono di combattere per paesi stranieri, ma il presidente combatterà sempre per gli americani”, afferma il vice portavoce, Raj Shah.
I precedenti di Trump.
Le parole pronunciate da Trump, incontrando alcuni membri del Congresso nell’ambito delle trattative per sciogliere il nodo dei Dreamer fanno eco a quelle che il presidente avrebbe pronunciato nei mesi scorsi. Lo scorso giugno avrebbe infatti detto che i 15.000 haitiani arrivati negli Stati Uniti nel 2017 “hanno tutti l’Aids”. Non se la sono cavata meglio i 40.000 nigeriani giunti negli Usa lo scorso anno: “Non torneranno più nelle loro capanne”.
La reazione dei media americani.
I media americani si adeguano all’era Trump e, rompendo una consolidata tradizione, pubblicano per intero le parole volgari usate dal presidente americano per descrivere gli immigrati da Haiti, El Salvador e da alcuni Paesi africani. Trump ha definito i loro paesi di origine ”cesso di paesi”.
Senza omissioni o asterischi per nascondere la parola usata, ‘shithole’, dalla carta stampata alle televisioni i media americani sono compatti pur mettendo in guardia, per il piccolo schermo, sulla non adeguatezza del linguaggio per i più giovani. ”Ci è stato subito chiaro che dovevamo pubblicare il linguaggio direttamente, senza parafrasarlo. Abbiamo voluto essere sicuri che i lettori capissero esattamente la portata della notizia” afferma Phil Corbett del New York Times. Il quotidiano, a differenza di altre pubblicazioni, ha però evitato la parola ‘incriminata’ nel titolo, preferendo usare l’espressione linguaggio volgare. ”Siamo ancora inclini a evitare volgarità nei titoli” mette in evidenza Corbett.
Il presidente degli Stati Uniti ha anche comunicato di aver annullato una visita ufficiale nel Regno Unito, prevista per il mese prossimo, durante la quale avrebbe dovuto inaugurare la nuova ambasciata statunitense a Londra.
I giornali inglesi ipotizzano che Trump abbia annullato il viaggio per evitare le grandi proteste che erano in fase di organizzazione. Diversi parlamentari britannici avevano anche detto che si sarebbero opposti a un discorso di Trump al Parlamento.
(da agenzie)
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Gennaio 12th, 2018 Riccardo Fucile
INTESA SU TASSE E MIGRANTI TRA CDU, CSU E SPD… ESEMPIO DI UN GRANDE PAESE DOVE L’INTERESSE NAZIONALE VINCE SUI MESCHINI INTERESSI DI PARTE
Ventuno ore – un record persino per la campionessa delle maratone negoziali Angela
Merkel – ma alla fine l’accordo politico per una terza Grande coalizione c’è.
I cristianodemocratici, la Csu e la Spd sono riusciti a buttare giù una trentina di pagine di intesa per il governo Merkel dei prossimi quattro anni, i cui dettagli verrano rivelati nelle prossime ore. Dalle prime indiscrezioni l’intesa principale riguarderebbe i temi delle tasse e dei migranti.
Al di là del difficile lavoro delle settimane a venire, quando i tecnici dovranno mettersi al lavoro per definire il cosiddetto “contratto di coalizione” – in Germania è estremamente vincolante e in campagna elettorale i punti non realizzati diventano puntualmente un argomento di discussione – un ostacolo maggiore per le nuove larghe intese c’è ancora e si chiama Spd.
Un congresso, fissato per la prossima settimana, e un referendum successivo alla definizione del contratto di coalizione dovranno approvare l’intesa e il compito non facile di Martin Schulz dovrà essere quello di convincere delegati e iscritti che una nuova coabitazione con Merkel è cosa buona e giusta, per i socialdemocratici e per la Germania. Nei giorni scorsi i Giovani della Spd erano tornati all’attacco annunciando battaglia al congresso.
Lo stesso Schulz si era imbullonato all’opposizione un minuto dopo i risultati elettorali di settembre e si è dovuto lanciare in una spericolata inversione a U dopo il fallimento di Giamaica.
L’intesa è comunque una vittoria per la Merkel, dopo la grave disfatta dello scorso inverno, quando aveva tentato di mettere insieme per la prima volta nella storia tedesca una coalizione a tre, tra conservatori, verdi e liberali.
In un sondaggio dei giorni scorsi i tedeschi l’avevano elogiata per la sua reputazione internazionale in un mondo sempre più instabile ma ne avevano criticato la proverbiale tendenza al tentennamento.
A volte, però, la pazienza della cancelliera diventa una virtù, come in questa lunghissima trattativa con la Spd, restia a imbarcarsi in un alleanza che le ha sempre rosicchiato margini di consenso.
(da “Huffingtonpost”)
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Gennaio 12th, 2018 Riccardo Fucile
LE STORIE DI CHI HA SCELTO DI STUDIARE E LAVORARE NEL PAESE BALCANICO: UN MIX DI CONVENIENZA ECONOMICA E POSSIBILITA’
Avete presente l’albanese che sogna l’Italia e rischia la pelle sul barcone pur di raggiungere la terra delle mille opportunità vista splendere di luci e paillettes sulle nostre tv?
Ribaltate lo stereotipo anni Novanta: oggi è l’Albania il Paese delle opportunità .
Non solo per le decine di migliaia di abitanti rientrati in patria dopo aver studiato nelle nostre scuole e università o appreso da noi mestieri e stili di vita. Anche per noi. Per gli italiani.
Che tra i residenti (chi va e viene, perchè qua investe e lavora o studia) e i pendolari dal lunedì al venerdì (come fosse tra Roma e Milano e grosso modo con gli stessi tempi e costi) sono ormai stimati in ventimila.
Sui 2 milioni e 800 mila autoctoni, fa più o meno quanto i 480 mila albanesi in Italia: un incrocio alla pari, almeno in percentuale.
Soffre gravi arretratezze, il Paese. Ha bassi salari e un sistema giudiziario solo ora in via di drastico repulisti da corruzione e compravendite di sentenze, una delle cinque ineludibili condizioni per avviare finalmente le trattative d’ingresso nell’Unione europea.
Ma è in pieno fermento di ricostruzione, salta le tappe sfruttando le ultime tecnologie, e persino ciò che è rimasto come da noi negli anni Sessanta si rivela oggi, per astuzia della ragione o burla della storia, un atout vincente.
«Qua riusciamo a costruire e sperimentare in modi e con una qualità che in Italia è diventata rara, quasi impossibile», giura Marco Casamonti, Studio Archea, mentre guida la visita al cantiere del nuovo stadio in costruzione nel cuore di Tirana, da lui disegnato come spazio da vivere 365 giorni l’anno, con hotel a 25 piani, negozi, centri medici e palestre, edificio simbolo della nuova rinascita insieme alla Green tower, sempre sua, e al rifacimento di piazza Scanderbeg, progetto invece belga.
Questione di costi, queste chance di eccellere e sperimentare: per gli standard albanesi 300 euro al mese sono un buon salario. Si può dunque scialare in manodopera.
«È un fattore decisivo, ma non è l’unico», dice Casamonti. Da buon fiorentino, imbastisce un ragionamento sul cantiere rinascimentale «luogo del sapere, delle capacità manuali e professionali, dell’eccellenza», contrapposto a un cantiere italiano d’oggidì, «diventato solo un luogo di assemblaggio», manodopera da ogni parte del mondo, know how che si è spostato nelle aziende produttrici dei componenti.
Dove va a parare? Detto con una certa enfasi: «oggi si può lavorare in Albania in un modo che non esito a definire rinascimentale».
O, per non rotolare troppo indietro nei secoli, «come si lavorava al meglio nell’Italia degli anni Sessanta». Si può avere il controllo diretto su ogni fase, il costruttore albanese Albstar fa sia l’acciaio sia il cemento armato, niente subappalti com’è ormai norma da noi e altrove.
Tempi veloci, «lo stadio sarà pronto in due anni e mezzo», mica come la Salerno-Reggio.
E il lusso che ci si può permettere, «grandi spazi, quel tanto di magniloquenza e monumentalità data dal recupero e reinserimento della facciata del vecchio stadio progettato nel ’40 da un altro fiorentino, Gherardo Bosio», marmi e capitelli oggi numerati sotto un telo in attesa di rimontaggio.
Come dire la trama della storia tutta italiana dell’architettura di Tirana (ministeri, Palazzo della Cultura, Museo nazionale, Accademia delle Arti, Banca nazionale, il piano regolatore di Bosio nel ’39 fino al masterplan di Stefano Boeri per il 2030) tessuta con l’ordito delle decorazioni, delle texture tradizionali albanesi nei colori di bandiera dell’aquila nera in campo rosso: fornite in prima persona dal primo ministro Edi Rama, lui stesso artista.
Il racconto di Casamonti serve da paradigma per capire, scomponendo gli elementi che la motivano, la fascinazione del “cantiere Albania” per noi italiani del 2018.
Nei campi più disparati, non solo quando c’è di mezzo il mattone. Prendi uno come Vincenzo Pastoressa, dai laterizi alle mozzarelle. Lo spedisce a Tirana, nel ’95, il gruppo barese dov’è funzionario, joint venture con lo Stato albanese per recuperare il Palazzo della Cultura, sede anche del Teatro dell’Opera, seimila metri quadrati ora affittati in gran parte a società italiane.
«Avevamo una cava di marmo al confine con la Macedonia e una fabbrica a 100 chilometri dalla capitale, non c’erano strade, giravamo con la scorta, i nostri operai erano armati, nel ’97 era guerra civile tra destra e sinistra. Anni duri».
Che non frenano i pugliesi all’assalto dei Balcani, per loro il cortile di casa: un’azienda calzaturiera di Barletta fa qui tutte le tomaie e il semilavorato, una di Andria l’intimo per grandi firme emergenti, e anche il Pastoressa si ritrova per un gruppo di Ostuni a produrre in Albania serbatoi d’acqua potabile e vasche per depuratori.
Finchè 15 anni fa l’ennesimo compaesano (sono un esercito, i pugliesi, un battaglione d’assalto) gli mette la pulce nell’orecchio: con tutte le mucche che hanno e le pizzerie che nascono come funghi, perchè non ti metti a produrre mozzarelle e ricotte, burratine e stracciatelle, scamorze, caciotte e caciocavalli?
Ora, racconta Pastoressa, la sua Fattoria italiana, caseificio di sole donne, copre l’80 per cento del mercato di Tirana, supermercati, alberghi, ristoranti italiani e albanesi. Ogni week end lui torna a Bari dalla moglie, sua figlia studia Medicina a Tirana al Buon Consiglio (ne diremo), sta per arrivare il figlio bocconiano a fare esperienza sul campo.
Morale, non solo fai quattrini ma, «per via dell’alimentazione naturale a foraggio delle mucche nei villaggi intorno alla capitale, qui riscopri i sapori di trenta o quarant’anni fa che in Italia non trovi più». Vero, confermiamo.
Nascono così, imprese e business: per una combinazione di casualità e calcolo, la voglia di ribaltare la propria vita, uscire dalla comfort zone che ci si è costruiti fino ad allora, buttarsi in ciò che non sai e non sei.
Era un manager della comunicazione Fiat, Francesco Milella, e mangiava sempre fuori casa: l’altr’anno fa il salto della quaglia, un giorno per aprire la società , venti per i permessi, un mese per ristrutturare ad arte i locali, un po’ di più per convincere lo chef e jazzista Leonardo Amoruso e apre il ristorante InPuglia.
Era invece direttore finanziario della Peroni poi senior executive Mercedes a Singapore, Irene Tosti, e non sapeva distinguere una pianta da un’erbaccia.
Procede per vie tortuose: una spedizione per charity sul Kilimangiaro dove scopre che stiamo distruggendo il pianeta, una tesi sullo sviluppo sostenibile a Ginevra, l’impatto in Albania con una natura selvaggia e una guardia forestale ora suo socio.
Così si ritrova a impiantare su uno splendido promontorio vicino a Durazzo una fattoria biologica dove, racconta, «coltiviamo piante medicinali per l’industria nutraceutica, quella degli integratori alimentari, clienti tutti tedeschi, austriaci, svizzeri, croati e italiani. Questo è il paradiso della biodiversità ! Sa che di solo origano bianco crescono qui duecento specie? Ti arrabbi ogni giorno per i residui del mix di veterocomunismo e supercorruzione dei primi tempi post-regime fino allo scandalo dello “schema Ponzi” che rovinò mezzo paese, e mancano ancora saldi modelli di riferimento: ma è una nazione di giovani, fanno figli presto, l’età media a Tirana è 22 anni, le potenzialità sono enormi». Di vita come di business.
Non tutto è filato sempre così liscio, non è che ti butti allo sbaraglio e i soldi piovono dal cielo. Pasticci ne hanno combinati anche gli italiani.
Avventurieri, sprovveduti e cialtroni, modello il Fiore di Lamerica di Gianni Amelio, per chi ricorda il film. O quei sedicenti imprenditori che un giorno affittano un lussuoso ufficio a Tirana sbraitando che sono lì per rivoltarla come un calzino, salvo sparire nel nulla nel giro di due mesi.
O il Becchetti che due anni fa, dopo aver provato con energia idroelettrica ed ecoballe di rifiuti, arruolò Pupo, Caprarica, la Ferilli e s’inventò Agon Channel, tv italiana delocalizzata, presto sbaraccata, bis in forma di disastro della farsa annata ’97 di Striscia la Berisha, con i due conduttori dall’aria sfatta, le pezze al posto sbagliato e lo studio che cadeva a rotoli.
No, per avere successo le basi le devi possedere. «Dopo la crisi Lehman Brothers due soli erano i settori che continuavano a crescere: l’agricoltura d’eccellenza e il recupero rifiuti», racconta Silvia Minotti, Finanza in Bocconi e alla NY University, in Albania una prima volta su incarico della Banca Mondiale per seguire la privatizzazione delle banche («Ho scritto io la legge sulle assicurazioni dei depositi bancari»), 9 anni a Washington e 2 a Roma a seguire i Balcani alla Sace, l’Agenzia governativa di credito al nostro export.
Lei e suo marito, tecnico nelle calzature, si sono buttati sui rifiuti: «Con 30 dipendenti, li raccogliamo qui, li valorizziamo separandoli meticolosamente per singolo tipo di carta e vetro e li esportiamo per essere riutilizzati in Italia, Austria, Serbia, Macedonia e Bulgaria».
Ha certificazione Ue e un codice etico rigoroso, «non paghiamo mazzette, non facciamo regali». Perde troppo tempo in uffici, «la burocrazia non è ancora così light», il bimbo va alla scuola internazionale inglese «dove studia anche mandarino», e sì, magari fra qualche anno, «venderemo l’azienda e torneremo in Italia».
A scatenare gli investimenti, in questo paese in cui il 60 per cento dell’export finisce in Italia, giocano anche i cortocircuiti della globalizzazione, gli stessi per cui a Venezia bancarelle cinesi vendono a turisti cinesi maschere veneziane fatte in Cina.
A Tirana, come sulla costa a Valona e Durazzo, chirurghi e odontoiatri italiani rifanno denti, seni, nasi e glutei a pazienti italiani in trasferta, in un pullulare di studi e cliniche italiane o in joint venture: turismo medico, prezzi allettanti per il basso costo di strutture e personale specializzato locale, pacchetti all-inclusive con annesso soggiorno balneare, due piccioni con una fava.
Per il sapere vale lo stesso che per i glutei. No, non la laurea di Renzo Bossi, quello pseudo-ateneo il governo l’ha chiuso da tempo assieme ad altri del genere.
Ma all’Università Nostra Signora del Buon Consiglio, dell’ordine dei Figli dell’Immacolata Concezione, docenti italiani insegnano in lingua italiana a un centinaio di nuovi studenti italiani ogni anno, più il doppio di locali.
Una seconda chance, per chi nei nostri atenei ha bucato il test d’ammissione: «Ma guardi che qui su 700 siamo passati in 100, le lezioni sono obbligatorie, gli esami sugli standard ministeriali italiani», raccontano il bellunese Carlo Pomarè e il cosentino Gianmarco Pugliese, 21 anni, secondo di Medicina.
Pagano 8 mila euro l’anno di retta, «però spendiamo poco per vivere, la sera c’è la movida al quartiere Blloc, quasi tutti parlano italiano anche se i giovani si stanno orientando più sull’inglese. No, la loro lingua non la studiamo, giusto qualche parola per baccagliare un po’ con le non facili ragazze del posto».
Finiranno a Tirana «almeno il secondo anno, col blocco dei tre esami di Anatomia», poi forse si iscriveranno a casa loro, così fan quasi tutti.
Se invece completeranno qui i sei anni, dettaglia il rettore Bruno Giardina, «avranno laurea congiunta del nostro ateneo e di Roma Tor Vergata, lo stesso per Odontoiatria, con Bari per Economia e Farmacia, con Firenze per Architettura». E magari resteranno.
O s’aggiungeranno all’esercito dei pendolari, l’Italia è a un tiro di schioppo, su 43 voli al dì in decollo dal nuovo aeroporto ben 31 hanno destinazione non solo Roma o Milano, ma Torino, Venezia, Ancona, Pisa, Bari, Verona, persino Pescara e Perugia.
Per un curioso intreccio di arcaicità e innovazione, è contagiosa la sottile frenesia di un paese che ricomincia: «Non hanno ancora imparato a mettersi in fila alle poste», racconta Francesca Tarallo, «ma Internet ce l’hai in dieci minuti e un negozio lo apri in tre giorni. Vivono un po’ carpe diem, ma hanno il senso del cambiamento continuo, lo slancio vitale di un futuro in costruzione. E tu senti di stare entro un flusso. Non come in Italia, dove ogni cosa è cristallizzata, le acque stagnano, le persone si lagnano sempre delle stesse cose».
Lei, Francesca, a Tirana c’è arrivata con due bimbi piccoli al seguito di suo marito Gianmaria Picchi, ingegnere, spedito dall’impresa di Rovigo che ha costruito il depuratore della città .
Finito quel lavoro, invece di tornare lui ne ha trovato un altro, e ora anche lei, stilista di gioielli, ha preso un laboratorio, arruolato ragazze albanesi «soprattutto della provincia, con bella manualità e un’abilità nel ricamo da noi scomparsa», cominciato a produrre bijoux artigianali e accessori di moda per il mercato italiano.
Un passo dopo l’altro, metti radici. Finchè non te ne vai più.
Com’è successo a Luigi Nidito, 72 anni, da Prato, editore, l’ultima storia che vogliamo raccontare: un po’ le ricuce tutte, e smonta l’idea che l’Albania sia sì vitale, irruente, complicata, povera, aperta, vogliosa di crescere, sgangherata e appassionata, ma non sia un paese per vecchi.
Nidito a Tirana è la rappresentazione plastica dell’aforisma di Einstein secondo cui la distinzione tra presente, passato e futuro è un’illusione ostinatamente persistente (sì, l’abbiamo pescata su Dark, la nuova serie Netflix, non è che giriamo con la Garzantina delle citazioni): lui ha una storia tutta socialista e di battaglie politiche, i primi contatti li prese quarant’anni fa, poi un viaggio all’anno, dal ’95 per 15 giorni al mese, quasi stabile dal 2007 con sua moglie Simona.
S’è inventato il primo Lyons club (ora ce ne sono quattro), la Confimi Albania (scissione da Confindustria, 93 aziende e studi per 15 mila dipendenti), e l’unico circolo Pd (alle primarie la totalità dei voti a Renzi).
Ha fatto tradurre Guareschi e Pirandello, pubblica cinque o sei titoli l’anno, prezzo massimo 5 euro. Quello che gli altri azzardano da quarantenni d’assalto, lui rivendica con accorata nostalgia: «Un mare di contraddizioni, l’ottimismo e la pazienza di un popolo che guarda avanti, la battaglia culturale, la passione politica. Ebbene sì: qui rivivo i miei anni Sessanta! Che potrei mai sperare di meglio?».
(da “La Stampa”)
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