Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
COMPIONO SOLO OPERAZIONI DI POLIZIA CON METODI BRUTALI MA NON RISPONDONO MAI ALLE RICHIESTE DI SOCCORSO … UNA GIGANTESCA ASSOCIAZIONE A DELINQUERE PER FAR AFFOGARE I PROFUGHI
Era il giugno scorso quando Tripoli annunciò, con enfasi trionfale, l’iscrizione nel registro
dell’Organizzazione marittima internazionale di una propria zona di Search and rescue (Sar). Larga quanto la costa libica, dalle spiagge di Zuara fino a quelle della periferia di Tobruch, profonda un centinaio di miglia.
L’Europa potè tirare un corale e liberatorio sospiro di sollievo: non era più responsabile per quello che capitava in quelle acque.
A quasi cinque mesi di distanza da quel giorno, dopo aver navigato per settimane nella Sar libica, interpellato fonti ufficiali, parlato con attivisti e visionato documenti giudiziari inediti, Repubblica è in grado di affermare che la cosiddetta “zona Sar libica” è in realtà un quadrante dove si susseguono mere operazioni di polizia, spesso condotte con metodi brutali.
Il teatro di una finzione burocratica e militare costruita dal governo libico, con il contributo fattivo dell’Italia e della Commissione europea.
Quella nuova Sar, del resto, faceva comodo a tutti.
Era un alibi per rasserenare certe coscienze politiche. In Italia e a Malta soprattutto, i Paesi più direttamente esposti all’emorragia di migranti provenienti dal Nord Africa. Certificava infatti che il recupero e il salvataggio di quanti tentavano la traversata era per lo più “faccenda” dei libici. E solo loro. Almeno fino a quando i profughi si trovavano nella Sar.
Da allora i Maritime rescue coordination center (Mrcc) di Roma e della Valletta hanno preso a deviare gli avvisi di distress (segnalazione di imbarcazione in difficoltà ) su Tripoli. Per la gioia dei rispettivi governi, che nulla sanno nè possono sapere di quanto accade davvero da quelle parti: “Duecentottanta migranti salvati e recuperati dalla guardia costiera libica – scriveva su Facebook il ministro dell’Interno Matteo Salvini la settimana scorsa – bene, avanti così, stop al traffico di esseri umani”.
L’Europa, oggi, può dare la cosa per assodata. E può riunirsi a Palermo con le controparti africane e arabe per discutere di come portare il Paese ad elezioni democratiche entro l’anno, dimenticandosi di quanto accade in quel pezzo di Mediterraneo.
La vera storia del naufragio di Josefa
Per comprendere le dimensioni della messa in scena internazionale che si nasconde dietro la storia della Sar libica, un buon punto di partenza è la lettura documenti ufficiali consegnati dall’ong Open Arms alla magistratura spagnola dopo il naufragio del 16 luglio scorso.
Uno dei più oscuri e il cui bilancio, in termini di vite umane, è ancora un mistero.
Da quelle carte si capisce infatti benissimo come funzionino le cose là dentro. Vi sono riportate tutte le registrazioni delle comunicazioni radio e satellitari avvenute tra il 16 e il 17 luglio, compresi i vani tentativi delle navi di Open Arms di contattare Tripoli.
Il 16 luglio è un lunedì. Intorno alle 12.42 la guardia costiera libica avverte la petroliera Triades che c’è un gommone zeppo di migranti in difficoltà molto vicino a loro e ordina di rimanere in stand-by per monitorare. Sul canale 16 della radio, quello delle emergenze, passano almeno 15 conversazioni tra la Triades e i libici durante l’arco della giornata.
Per una petroliera, ogni ora di navigazione persa sono migliaia di dollari bruciati, perciò il comandante spinge per proseguire il viaggio verso il porto di Misurata. Tra le 20.39 e le 20.55, prima ancora che le motovedette libiche abbiano raggiunto il gommone, che si trova a 85 miglia dalle coste di Ohms, da Tripoli arriva l’autorizzazione ad allontanarsi. La Triades esegue e abbandona i naufraghi alle onde. Dopo quest’ultimo scambio, il silenzio.
A bordo delle due navi della ong spagnola, la Open Arms e l’Astral, gli equipaggi hanno ascoltato tutto e fanno rotta verso le ultime coordinate comunicate alla radio. Alle 7.58 della mattina del 17 luglio, scoprono i resti del gommone. La prima cosa che vedono i soccorritori è che i tubolari sono stati tagliati – come si usa fare al termine degli interventi di rescue – e l’asse centrale della chiglia troncato.
La seconda sono due cadaveri galleggianti, e una donna, Josefa, stremata e terrorizzata, aggrappata a una tavola di legno. I libici, intervenuti chissà quando e chissà come se l’erano dimenticata. “No Libia, no Libia”, riesce a dire Josefa, quando i volontari spagnoli la issano a bordo.
Quel che segue è la parte sinora rimasta “coperta” del naufragio, riferita dalla ong agli investigatori.
Inizialmente l’equipaggio della Open Arms, nave battente bandiera spagnola, decide di rivolgersi all’Mrcc di Madrid per organizzare il trasferimento dei due cadaveri (una donna e un bambino) e di Josefa, che necessita di cure mediche. Per tutta la mattinata da Madrid li invitano a rivolgersi al Centro coordinamento soccorsi di Tripoli. “Esiste la Sar libica, è competenza loro”. Stessa risposta quando contattano Roma. “Chiamate i libici”.
Privi di scelta, alle 12.36, dal ponte di comando della Open Arms compongono i tre numeri di telefono libici che gli hanno fornito gli ufficiali di Roma. Nessuno dei tre è attivo. Ne provano allora altri due: squillano a vuoto e nessuno risponde (Repubblica ha provato gli stessi numeri: solo uno ha risposto, ma l’interlocutore parlava arabo e a stento qualche parola di inglese).
Alle 12.50 Open Arms invia alcune mail agli indirizzi indicati della Sar, ma i messaggi ritornano immediatamente indietro. Inesistenti.
Solo alle 15.51 l’Mrcc italiano, sollecitato più volte, e ormai troppo esposto, decide di assumere il coordinamento dell’intervento: i libici – ammettono gli ufficiali di Roma – non hanno risposto neanche a loro. Nè hanno dato mai una spiegazione plausibile sul perchè, durante l’intervento al gommone, si siano dimenticati di raccogliere Josefa e i due cadaveri.
Il silenzio in mezzo al mare
Fatti come questi spiegano perfettamente perchè l’entrata in vigore della nuova zona Sar – con il trasferimento di tutti i poteri alle due Guardie Costiere libiche (una dipende dal ministero della Difesa, l’altra dall’Interno) – ha avuto come effetto collaterale quello di desertificare quel cruciale tratto di mare.
I mercantili e i pescherecci – spaventati dall’ipotesi di fare la fine del Triades e ritrovarsi nei guai – tendono a girare al largo. Dal giorno del conflitto con Open Arms, i libici hanno silenziato ogni strumento di comunicazione pubblico. Persino il canale radio pubblico riservato alle emergenze marine rimane praticamente sempre muto, salvo aggiornamenti meteo.
L’unica attività che si è registrata negli ultimi mesi nelle acque di Tripoli è la costante e continua caccia delle motovedette a gommoni e barconi. Che però tecnicamente non vengono soccorsi, ma “recuperati” (sul presupposto che, fuggendo, abbiano violato la normativa libica sull’immigrazione).
Perchè si possa parlare di reale capacità di gestione dei salvataggi in mare, occorre che la guardia costiera lanci tempestivamente il messaggio di distress via radio, fornendo tutti gli elementi a disposizione ai naviganti per la localizzazione, in modo da convogliare sul punto le barche più vicine.
Occorre poi che le persone tratte in salvo vengano portate in un place of safety nazionale stabilito dal Centro di coordinamento: un approdo sicuro dove queste non corrano rischi. Ecco, le operazioni dei libici non rispondono a nessuno di questi due requisiti.
Da mesi, le pur frequenti segnalazioni di barconi in avaria non vengono condivise ma lavorate “in house” in modo tale da non avere interferenze esterne o fastidiosi testimoni.
E così tutta la questione si riduce a un inseguimento privato, che può finire in qualsiasi modo: con l’ “arresto” dei fuggitivi e la riconsegna ai centri di detenzione; con il loro salvataggio fuori dalla Sar libica, a Lampedusa o a Malta; oppure nel modo peggiore, con una tragedia silenziosa, senza tracce nè testimoni.
Come in fondo sarebbe stata quella di Josefa se non ci fossero stati i volontari di Open Arms.
Quanto al place of safety, la Libia, visti i conflitti interni in corso e la condizione generale del Paese spaccata nei due governi contrapposti, non ne ha uno.
Lo ha detto chiaramente l’Onu, attraverso l’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati. E recentemente lo ha ammesso anche l’attuale ministro degli Esteri del governo Conte, Enzo Moavero Milanesi.
I soldi e le motovedette dell’Italia
Un’ammissione pesante. L’Italia, come membro dell’Unione Europea, ha contribuito, e tuttora contribuisce, al sostegno materiale e al funzionamento della Sar libica e della guardia costiera. Durante il governo Gentiloni, Roma ha consegnato alla guardia costiera di Tripoli, guidata allora dal colonnello Massoud Abdelsamad, cinque motovedette militari per attività di Search and Rescue, ricerca e salvataggio.
Tre navi italiane, la Tremiti (agosto-dicembre 2017), la Capri (dicembre 2017-marzo 2018) e la Caprera (marzo-settembre 2018), si sono avvicendate davanti al porto di Tripoli per fornire assistenza logistica alla Sar.
Durante il mandato del ministro dell’Interno Marco Minniti, inoltre, tra i vari piani bilaterali ed europei vennero stanziati 41 milioni di euro (fondi Ue) per la costruzione di un vero Mrcc a Tripoli e per il monitoraggio delle frontiere, a nord e a sud.
Di quel nuovo Mrcc, però, non si hanno notizie ufficiali: l’ultima posizione conosciuta del Centro di soccorso libico era individuata in un ufficio nella sede dell’aeronautica presso l’aeroporto di Tripoli. Così appare nei registri dell’Imo, dove è stata iscritta la Sar.
Altre dodici motovedette sono state donate dal governo italiano lo scorso agosto, con un decreto di consegna alla Guardia costiera libica e due milioni di euro per la manutenzione. Si tratta di dieci unità Cp classe 500, in dotazione al Corpo delle capitanerie di porto, e di due navi classe Corrubia della Guardia di Finanza. “Il governo italiano intende aiutare Tripoli a presidiare meglio la propria area di mare Sar al fine di salvare più vite umane e scoraggiare la partenza dei barconi della morte”, recitava una nota ufficiale del governo Conte.
Per questo, quando lo scorso 8 ottobre, il titolare della Farnesina Moavero Milanesi ha spiegato alla collega norvegese che “in senso stretto e giuridico la Libia non può essere considerata porto sicuro, e come tale infatti viene trattata dalle varie navi che effettuano dei salvataggi” in molti hanno sgranato gli occhi, valutando quella frase qualcosa di simile a un autodenuncia.
Che, però, finora è caduta nel vuoto.
(da “La Repubblica”)
argomento: criminalità | Commenta »
Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
ABBIAMO UN MINISTRO SEDICENTE SOVRANISTA CHE LAVORA PER GLI INTERESSI DI PUTIN IN QATAR, PAESE CHE FINANZIA I TERRORISTI… E LO SGOMBERO DEL BAOBAB SERVE PER DISTOGLIERE L’ATTENZIONE SUL VERTICE FALLITO
Cosa unisce il flop annunciato del vertice di Palermo sulla Libia, le tensioni all’interno della maggioranza di governo e la sempre presente ombra russa attorno alle scelte di politica estera della Lega?
Forse, il fatto che il ministro Matteo Salvini, formalmente titolare degli Interni, in realtà non opera in modalità multiruolo per ipertrofia dell’ego ma per una precisa scelta: indirizzare proprio la politica estera del governo.
Ovviamente, utilizzando il facile alibi della lotta all’immigrazione clandestina e suoi due mantra accessori: fermare gli sbarchi alla partenza e la famosa strategia in base alla quale chi scappa, va “aiutato a casa sua”.
Insomma, se il ministro dell’Interno, di fatto, si è preso fin da principio l’interim anche della Farnesina è per una ragione pratica, inattaccabile, concreta. Persino logica.
Ci sono però un paio di problemi. Il primo, per così dire di forma. Il secondo, ben più serio, di sostanza. E di sovranità nazionale violata, se si vuole arrivare a questo paradosso.
Appare infatti poco rituale che un ministro dell’Interno viaggi in lungo e in largo anche in Paesi che non hanno alcuna connessione diretta con il problema migratorio, incontri leader non solo partitici ma politici esteri (Viktor Orban, oltretutto in un luogo istituzionale come la Prefettura di Milano) e, soprattutto, non si premuri affatto di nascondere la tentazione di diventare il candidato del sedicente “fronte sovranista” in vista delle elezioni europee del prossimo maggio, puntando dritto alla guida della Commissione.
Si direbbe interesse privato (in questo caso, politico-elettorale) in atto pubblico ma, si sa, in Italia la campagna elettorale permanente non è certo prerogativa del governo penta-leghista.
Sarebbe interessante, in tal senso, conoscere però i reali sentimenti che albergano nello spirito e nell’operato di quello che dovrebbe essere il formale titolare della Farnesina, il ministro Enzo Moavero-Milanesi, il quale appare totalmente trasparente nel suo ruolo: semplicemente, le scelte che contano in fatto di politica estera, le fanno altri.
O Giuseppe Conte, vedi la titolarità assoluta sul vertice libico in corso a Palermo o le visite-lampo (senza resoconti o, peggio, comunicazioni alla Camere sui contenuti politici e gli eventuali accordi stretti) negli Stati Uniti da Donald Trump oppure Matteo Salvini, vero globetrotter della diplomazia, dall’amata Russia dove si sente più a casa che in tanti Paesi europei fino all’Africa della tratta dei migranti da estirpare, passando di sfuggita dall’ex amica Austria.
Peccato che in questo guazzabuglio di responsabilità vengano trattati temi di importanza capitale per il Paese, come la sua politica economica, i rapporti con l’Europa e la linea di politica estera.
Ed ecco entrare in scena il vertice di Palermo sulla Libia, quello su cui si sarebbe fatto il punto nel vertice dei misteri (in due tempi, oltretutto) e che, di fatto, sancisce il fallimento della politica estera collettiva e al tempo stesso dilettantisticamente anarchica del governo.
Assenti tutti i big, da Putin a Trump fino all’interessatissimo sul tema Macron.
E se il forfait di quest’ultimo appare decisamente poco sorprendente, visti i fallimenti in cui si sostanziarono anche i due vertici simili che organizzò con colpo di mano rispetto ad alleati e Nato nei mesi scorsi all’Eliseo (legittimare quello dei competitor italiani con la sua presenza sarebbe stato un autogol clamoroso), più significative sono apparse le assenze del presidente statunitense e di quello russo, entrambi formalmente amicissimi del nostro governo e del suo primo ministro in particolare.
Non sfuggirà alla memoria, infatti, come Donald Trump, nel corso della visita estiva di Conte alla Casa Bianca, addirittura investì il nostro Paese del ruolo guida nella “cabina di regia” italo-americana sulla Libia, mentre non più tardi di due settimane fa l’idillio fra Conte e Putin vide quest’ultimo addirittura azzardare la promessa di acquisti di nostri Btp, una volta che sarà terminato il Qe della Bce.
Entrambi hanno mandato propri rappresentanti. E non i ministri degli Esteri ma dei vice o degli incaricati d’affari, le seconde linee: un po’ come si fa con gli appuntamenti contro le cadette in Coppa Italia per preservare le forze per partite più importanti in campionato o Champions.
Ma al netto della presenza dell’ultim’ora del presidente egiziano, Al-Sisi, la sedia vuota che certifica l’inutilità ontologica del vertice di Palermo è stata quella del generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, di fatto il politico libico senza il quale una pace duratura non potrà mai essere raggiunta.
Il quale, dopo un pressing diplomatico dell’ultim’ora, è sbarcato in Sicilia ma, al netto della photo-opportunity garantita a Giuseppe Conte (fotocopia di quelle scattate all’Eliseo durante i vertici con Macron e sostanziatesi in nulla a livello pratico, se non il caos libico attuale), ha chiaramente posto dei limiti alla sua presenza: ovvero, nulla che lo possa accomunare al vertice ufficiale, solo incontri bilaterali e a Mondello, non a Palermo.
Come dire, darò udienza solo a chi dico io e nel mio “regno”.
Il personaggio non è certo nuovo a pose da prima donna ma qualcosa potrebbe essere andato fuori giri nelle ore febbrili che hanno anticipato il suo arrivo in Sicilia, con tanto di missione a Tobruk di incaricati della Farnesina.
Qualcosa che spiegherebbe anche il perchè di un’operazione sgomberi a Roma, capace di catalizzare l’attenzione di tutti i media e rinfocolare polemiche mai sopite sul tema immigrazione, organizzata proprio nel giorno clou del vertice palermitano, quasi a voler distoglierne l’attenzione di dosso. O, quantomeno, sviarla.
Cosa, di fatto, potrebbe aver fatto irrigidire così tanto l’uomo forte della Cirenaica?
Al netto del sostegno storico dell’Italia al suo antagonista, Al-Sarraj, in seno alla posizione ufficiale di Onu e Nato, al centro del malcontento ci sarebbe stata la presenza nel capoluogo siciliano di rappresentanti di milizie estremiste ritenute vicine ad Al Qaeda e, soprattutto, del Qatar, a sua volta ritenuto finanziatore proprio delle forze islamiste che mirano a destabilizzare la Libia, in particolar modo la parte controllata con pugno di ferro da Haftar e l’intero contesto mediorientale. In testa, i Fratelli Musulmani.
Lo stesso Qatar che, non più tardi di dieci giorni fa, vide sbarcare in visita ufficiale il nostro ministro degli Esteri ombra — o ad interim -, Matteo Salvini. Il quale, dopo aver in un recente passato (l’ultima intemerata in tal senso risale al 5 giugno 2017) accusato lo Stato del Golfo di essere il cavallo di Troia utilizzato dall’estremismo islamico per infiltrare l’Occidente, attraverso il suo finanziamento miliardario per aperture di moschee e opere di proselitismo, pare aver miracolosamente cambiato idea:
“Il Qatar si sta distinguendo per un certo equilibrio rispetto agli estremismi mostrati in questi giorni da altri Paesi, per esempio l’Arabia Saudita. Vi dico che ho trovato un Paese stabile e sicuro, dove l’estremismo islamico non ha futuro. In più da qui passano milioni di posti di lavoro per gli italiani“.
Magari milioni no ma certamente dall’Emirato passano i miliardi del contratto siglato il 14 marzo scorso da Leonardo-Finmeccanica per la fornitura di elicotteri destinati ad ampliarne la flotta militare. Per l’esattezza, 3 miliardi. E fin qui, nulla di nuovo.
E nulla che tutti gli altri Paesi, Francia in testa, non facciano da sempre con Stati che violano platealmente diritti umani e convenzioni internazionali. Pecunia non olet. E non certo da ieri. O dal 4 marzo scorso.
Ma potrebbe esserci dell’altro dietro all’assenza a Palermo del generale Haftar e al Qatar-gate che sembrerebbe sostanziarla, alla luce del neonato entusiasmo del ministro dell’Interno per l’emirato e la sua visione illuminata e moderata dell’islam. Potrebbe esserci qualcosa che ha molto a che fare con l’interesse numero uno che la Libia rappresenta per tutti, presenti o meno al tavolo del vertice-flop organizzato dal governo italiano (il quale, attraverso i suoi rappresentanti, ha raggiunto Palermo solo nel pomeriggio di lunedì, quando tutti i delegati libici erano presenti nel capoluogo siciliano da quello di domenica): il petrolio.
Per l’esattezza, una partnership petrolifera su cui gravano parecchie ombre. E che vede protagonisti proprio due amori del ministro dell’Interno, uno storico — la Russia — e uno neonato ma apparentemente molto appassionato, il Qatar appunto.
Al centro della liason, poco gradita allo storicamente filo-russo (per convenienza) Haftar, il sospetto che la banca russa a controllo statale Vtb abbia finanziato in maniera significativa una parte dell’acquisizione di una quota azionaria del gigante petrolifero russo Rosneft da parte della Qatar Investment Authority.
A lanciare l’accusa, citando nove fonti anonime a conoscenza dell’accaduto, la Reuters, la quale dopo aver interpellato Rosneft ha riferito come la banca abbia negato ogni suo coinvolgimento nell’affare. Un affare grosso, però. Avvenuto lo scorso anno e che ha coinvolto il 19,5% di Rosneft, rilevato appunto dal fondo del Qatar e dalla svizzera Glencore.
A far muovere le sue accuse a Reuters ci ha pensato, paradossalmente, la stessa Banca centrale russa, la quale ha tracciato le attività della Vtb, vista la sua natura statale e ha reso noto come quest’ultima abbia garantito prestiti per 6,7 miliardi di dollari ad anonime entità estere.
Ma non basta, perchè il prestito sarebbe seguito a un altro prestito, questa volta da 5,20 miliardi di dollari e garantito dalla Banca centrale russa alla stessa Vtb.
Il sospetto, appare chiaro: il governo russo, attraverso la Banca centrale e un istituto di credito pubblico, avrebbe di fatto finanziato l’acquisizione di una quota rilevante del suo gigante petrolifero da parte del fondo qatariota e della multinazionale svizzera delle materie prime.
Tanto più che, quando la notizia dell’acquisizione conquistò le prime pagine lo scorso dicembre, il mercato si attendeva che l’operazione fosse, proprio per la natura statale dell’entità coinvolta, limitata a investitori russi: la partecipazione fu valutata 11,57 miliardi di dollari, per i quali Glencore partecipò con “soli” 324 milioni. Il resto fu pagato, senza ricorso a finanziamento bancario, dalla Qatar Investment Authority.
Ma attenzione, perchè in un periodo pre-elettorale per Vladimir Putin, con le spese per la difesa alle stelle a discapito di quelle per welfare e pensioni, ecco che le non particolarmente cariche casse statali russe riuscirono a rimpinguarsi con 10,55 miliatdi di dollari dall’operazione, inclusi 270 milioni di extra-dividendi.
Rosneft, dal canto suo, ottenne una partecipazione indiretta in Glencore pari allo 0,54%. Manna in un periodo in cui l’entrata fiscale principale, ovvero proprio le royalties energetiche, languiva a causa del prezzo del greggio pericolosamente vicino alla soglia di breakeven fra profittabilità e perdita sul medio termine, anche in base ai parametri russi di costi fra estrazione, raffinazione e vendita.
Ultimo tassello ma esplicativo dell’ombra che grava sulla vicenda, il fatto che l’autorità qatariota e Glencore non intendessero mantenere il controllo della quota di Rosneft acquisita ma, bensì, cederla al conglomerato energetico cinese Cefc. Puro business? O una triangolazione Mosca-Pechino da tenere nascosta? O altro ancora?
Qualcosa di strano accadde, visto che il piano venne bloccato dalle stesse autorità cinesi, le quali — avendo già messo gli occhi sulle attività della Cefc — lanciarono un’inchiesta in piena regola che portò immediatamente al siluramento dell’amministratore delegato del gruppo.
Al centro dell’indagine, un giro di vite di Pechino su pratiche illecite di business da parte di aziende private cinesi. Insomma, la patria del sistema bancario ombra, massimo dell’opacità finanziaria tollerata per anni, ha voluto mettere un freno all’operazione: un indizio che, al netto del garantismo, appare quasi più di una prova. Perchè quella mossa di Vtb, quantomeno economicamente bizzarra?
E perchè il prestito della Banca centrale russa? Business, ovviamente.
E, come anticipato, la necessità di puntellare un gigante di Stato che, con le valutazioni del greggio ai minimi sui mercati internazionali e la crescente concorrenza non solo OPpec ma anche dello shale oil statunitense, cominciava a inviare segnali di malessere. Profondo.
Il problema, però, è anche politico. Perchè operare con il Qatar e in quel modo, se confermato, getta un’ombra anche sul profilo da combattente senza macchia di Vladimir Putin contro l’estremismo islamico, medaglia politica di profilo internazionale conquistata grazie all’azione del suo esercito in Siria al fianco delle truppe di Assad, di quelle iraniane e di Hezbollah contro Isis e Al-Nusra.
Di più, trattasi della stessa Russia che a più riprese — e non senza ragioni — ha più volte accusato gli Usa e i suoi alleati, Paesi del Golfo in testa, di rapporti quantomeno ambigui verso i tagliagole di Al-Baghdadi e i loro gruppuscoli alleati e satelliti, vedi gli “Elmetti bianchi”.
Il Qatar, poi, è storicamente il finanziatore dei Fratelli Musulmani, una delle ragioni che sul finire della primavera del 2017 portò al suo isolamento internazionale, dopo la dura presa di posizione del Dipartimento di Stato Usa e del Consiglio di Cooperazione del Golfo a guida saudita, in quel momento disperatamente alla ricerca di una nuova verginità rispetto a certe amicizie inconfessabili.
E i Fratelli Musulmani sono nemici giurati sia del generale Haftar sia del presidente egiziano Al-Sisi, presente sì quasi in forma di mediazione e supplenza dell’ultim’ora a Palermo, la classica “vecchia gloria” che si invita al’inaguazione di un ristorante che è stata snobbata dai divi del momento, ma con il quale occorre mantenere un profilo estremamente cauto, soprattutto dopo l’affaire diplomatico legato al caso Regeni e il ritiro dell’ambasciatore italiano, strappo ricucito solo di recente dal governo Gentiloni.
Insomma, un quadro di interessi e triangolazioni decisamente delicato. Troppo delicato, non fosse altro per il quadro d’insieme che si staglia sullo sfondo: lo sfruttamento delle enormi potenzialità petrolifere libiche, una volta che la situazione nel Paese sarà pacificata.
O, nell’attesa, il loro accaparramento mordi e fuggi, sottraendo quote di mercato agli avversari. Come ha fatto Eni recentemente a danno di Total, sfruttando la sponda atlantica e atlantista degli inglesi di Bp.
In un contesto simile, con il vertice di Palermo già organizzato e nel disperato tentativo di non rivelarsi un flop, per quale motivo il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, si è sentito in dover di fare uno spot di quel genere, sfiorando il parossisimo e smentendo le sue stesse posizioni di pochi mesi prima, al Qatar, mettendo a rischio fino all’ultimo secondo la presenza del generale Haftar, rivelatasi poi nei fatti più formale e simbolica che sostanziale?
Comunque sia, decisamente ridimensionata. Di più, perchè è andato in missione in Qatar, visto che dagli Stati del Golfo non partono barconi e non esiste l’ipotesi di rapporti bilaterali per il ricollocamento, non inviandoci profughi?
Per partecipare alla Fiera delle armi, facendo per l’ennesima volta operazione di lobbying al comparto, già beneficiario della nuova legge sulla legittima difesa?
Per, più in generale, perorare la causa del business italiano in un mercato fiorente e molto ricco?
Da quando è titolarità del Viminale, però? Non esiste l’Ice, l’istituto per il Commercio Estero? Le commesse militari non dipendono dalla Difesa? E i rapporti internazionali dalla Farnesina?
Vista l’ombra delle amicizie internazionali della Lega, domande che meriterebbero una risposta, dato che indirizzano la politica estera del Paese.
Nel caso del Qatar, poi, in aperto contrasto con i nostri interessi in Libia, per difendere i quali è stato organizzato il vertice di Palermo.
Interessi tra cui spicca proprio la lotta all’immigrazione clandestina su cui ha costruito le sue fortune il ministro Salvini e che, paradossalmente, la sua attività stile pro-loco a favore del Qatar rischia di mettere a repentaglio, dopo che proprio il generale Haftar la scorsa estate minacciò di far cannoneggiare le navi della nostra Marina, in caso entrassero in acque libiche per contrastare i barconi.
Con cosa abbiamo a che fare? Pressapochismo, dilettantismo entusiasta, mancanza di comuncazione nell’esecutivo, eccesso di protagonismo? O c’è dell’altro?
(da “Business Insider”)
argomento: denuncia | Commenta »
Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
RESTANO, TRA GLI INTERLOCUTORI CHE PIACCIONO AI SOVRANISTI, CHI HA COPERTO L’ASSASSINIO DI GIULIO REGENI E GLI AMICI DEI TERRORISTI DEL QATAR
Come ampiamente previsto il generale libico Khalifa Haftar ha lasciato Palermo in anticipo
sulla fine dei lavori, fra l’altro rilasciando un’intervista in cui diceva di non aver partecipato alla conferenza.
Un paio d’ore più tardi anche la delegazione turca ha deciso di lasciare in anticipo Palermo. La Turchia ha abbandonato la Conferenza “con profondo disappunto” per non essere stata coinvolta nella riunione informale del mattino con al Serraj e Haftar.
“Non si può pensare di risolvere la crisi in Libia coinvolgendo le persone che l’hanno causata ed escludendo la Turchia”, ha detto il vicepresidente turco, Fuat Oktay, abbandonando i lavori.
“Il meeting informale di stamattina è stato presentato come un incontro tra i protagonisti del Mediterraneo: ma questa è un’immagine fuorviante che noi condanniamo. Per questo lasciamo questo incontro profondamente delusi”, aggiunge il vice- presidente di Ankara. “Qualcuno all’ultimo minuto ha abusato dell’ospitalità italiana”, ha aggiunto il braccio destro di Erdogan senza mai nominare il generale Khalifa Haftar. “Sfortunatamente la comunità internazionale non è stata capace di restare unita”.
La verità è che per organizzare almeno un incontro allargato con il generale Haftar (e non soltanto dei bilaterali), la presidenza italiana ha accettato di escludere dalla riunione del mattino Turchia e Qatar, ovvero i due avversari dichiarati del generale. C’erano i capi di governo e di Stato “del Mediterraneo” (il presidente egiziano Sisi, il tunisino Essebsi, il premier russo Medvedev e altri) assieme ad Haftar e al presidente libico Fayez Serraj.
Anche Haftar ha recitato fino in fondo la sua parte di invitato riluttante: alle 11,30 è partito da Palermo, lasciando però la sua delegazione a seguire tutti i negoziati ai tavoli economici e della sicurezza, temi che interessano decisamente la sua fazione. Paradossalmente proprio nei corridoi di Villa Igiea il generale ha rilasciato un’intervista dicendo che “non parteciperei alla Conferenza nemmeno se dovesse durare cento anni. La mia presenza è limitata agli incontri con i ministri dell’Europa e poi riparto immediatamente”.
Il generale ha confermato che avrebbe incontrato “il primo ministro italiano e gli altri ministri europei”, ma non gli esponenti delle altre delegazioni, con cui “non ho nulla a che fare”.
Il generale ha detto di essere in guerra, denunciando l’ingresso di terroristi in Libia e chiedendo maggiore collaborazione ai paesi di confine nel controllo dei flussi migratori: “I leader degli Stati a noi vicini devono aiutarci almeno controllando le loro frontiere per non permettere l’immigrazione clandestina che ci crea il problema con le milizie di Al-Qaeda, Isis, movimento islamico e integralisti”.
Prima di lasciare Palermo, Haftar ha usato una metafora per spiegare al presidente del governo di Accordo nazionale, Fayez al Serraj, che può ancora rimanere al suo posto, che non c’è bisogno di cambiare presidente prima delle prossime elezioni: “Non è utile cambiare il cavallo mentre si attraversa ancora il fiume…”. Cosa significa? Significa che il generale aspetta di capire come potrà gestire la prossima fase nella vita politica libica, quella che secondo il Piano Onu di Ghassan Salamè prevede una “Grande Assemblea” in Libia e poi un percorso verso le elezioni politiche, il rinnovo della Costituzione ed eventualmente elezioni presidenziali.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: governo | Commenta »
Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
I CARTELLI FUORI DAI LOCALI SVIZZERI E TEDESCHI, QUANDO NOI ITALIANI ERAVAMO “ANIMALI”
“In questo locale è vietato l’ingresso agli animali e ai cincali“. Fino agli inizi degli anni 80, alcuni locali della Svizzera orientale riportavano questi cartelli con disinvoltura.
Era una modalità razzista raffinata, perchè pochi sapevano (tranne gli italiani tutti) chi fossero i cincali. L’appellativo viene dal gioco con cui gli italiani passavano il tempo, ma col tempo ha assunto una vera e propria identificazione dispregiativa degli italiani che vivevano in Svizzera.
Se si chiede a qualsiasi italiano almeno 60enne che è vissuto in Svizzera, avrà un racconto da donarvi su quei tempi in cui le risse d’orgoglio, fuori da quei locali, erano leggendarie. Noi, italiani cincali, siamo poi diventati “ratti” per la Lega ticinese — ultimamente “gibò” (nome di un locale di Leuca) per gli zurighesi, per via dell’adesivo o i tatuaggi che i giovani salentini esibiscono spesso.
Comunque non ci sono locali a noi interdetti, anzi, forse ci sono più locali italiani che svizzeri esistenti in tutta Europa.
I tedeschi amavano identificarci con l’appellativo spaghettifresser, anche questo appellativo razzista raffinato, perchè si fonda sulla differenza dei verbi essen, mangiare e fressen, divorare o mangiare riferito ad animali.
Per gli uomini essen, per gli animali fressen. Ergo gli italiani mangiano spaghetti come animali. Però, che raffinata differenza linguistica. Si potrebbe continuare in questa analisi semantica comparata per far comprendere ai nostri ragazzi che il razzismo è vivo ancora oggi e si manifesta nelle forme semantiche più disparate.
Nelle scorse settimane, dopo la orribile vicenda di Desirèe, è comparsa sui social la propaganda di un locale a Susa che riportava la dicitura: “In questo locale è vietato l’ingresso a nigeriani e senegalesi”.
Poco tempo fa abbiamo assistito alle vicende discriminatorie nelle mense di alcune città , e lo slogan “prima gli italiani” sembra il refrain di questa epoca orrida. Il razzismo più è subdolo più riesce a insinuarsi nell’anima delle persone.
Diventa un’abitudine, come accadde ai tedeschi durante il nazismo.
Ti impedisce di vedere, di credere e alla fine dubiti anche delle evidenze reali. Elimina quell’elemento umano che abbiamo nel nostro dna, cioè la nostra tanto umana capacità di rispecchiarci nell’altro.
Mia figlia, quando aveva quattro anni, tornò a casa dall’asilo piangendo perchè non riusciva a capire perchè la sua amichetta aveva la faccia colorata di marrone. Piangeva perchè la faccia colorata di marrone l’avrebbe voluta anche lei. Gli dissi che le facce nell’umanità sono colorate diversamente, perchè se fossero tutte dello stesso colore i papà non riuscirebbero a riconoscere i propri figli. Mi rispose: “Come i fiori?”.
Sì, come i fiori, risposi: sono diversi, colorati e tutti belli.
Quando il razzismo entra nell’anima di un popolo, quel popolo perde il diritto di chiamarsi Popolo.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Razzismo | Commenta »
Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
IL M5S STILA LA LISTA NERA DEI GIORNALISTI COME NEI REGIMI COMUNISTI E IN QUELLI GOVERNATORI DA MILITARI… IL PARTITO CONTROLLATO DA UN’AZIENDA HA LA FACCIA DI PARLARE DI TRASPARENZA
Dagli insulti alle liste nere, prosegue la campagna M5S contro la libertà di stampa. 
Il sito del Movimento ha pubblicato “i top 5 giornali italiani con i conflitti di interesse grossi come una casa, ma su cui tutti fanno finta di nulla”. Al primo posto, ovviamente, Repubblica.
Contemporaneamente il vicepremier Luigi Di Maio ha ribadito l’annuncio di una legge “per incentivare gli editori puri” presentata come una maniera per mettere in riga tutti i media.
L’altro leader pentastellato, Alessandro Di Battista, è andato di nuovo oltre, offrendo su Facebook un elenco dei suoi cronisti modello e pretendendo le scuse dal resto dei giornalisti.
Colpisce ancora una volta come i leader M5S non si rendano conto di essere loro il potere: sono al governo e fanno parte della maggioranza parlamentare.
Si comportano come fossero ancora un movimento d’opposizione, vittima di chissà quale complotto, mentre hanno deciso le nomine dei vertici dell’informazione Rai e minacciano leggi per regolare tutti i media.
Dimenticano il principio base delle democrazie occidentali: è il potere, e quindi loro, a dovere essere trasparente e controllabile.
Scaricare sui media l’incapacità di gestire la crisi di Genova dopo il crollo del Ponte Morandi o i risultati mediocri del vertice sulla Libia di Palermo non è altro che un metodo per distorcere la realtà , costruendo una cortina di propaganda di fronte all’assenza di concretezza nell’affrontare i problemi del Paese.
Anche la loro visione sul funzionamento dei media e la loro idea di testate asservite ai poteri forti che sfornano fake news a comando sono fuori dal mondo. Immaginano direttori che si fanno dettare gli articoli dagli editori, forse perchè è questo il modello che loro sognano. Il nostro giornalismo, nel bene e nel male, è gestito in totale autonomia dalla direzione e dalla redazione che ne rispondono ogni giorno ai lettori.
E continueranno a farlo, nonostante gli insulti e le intimidazioni del Movimento 5S.
(da “La Repubblica”)
argomento: Costume | Commenta »
Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
CI SONO ITALIANI E STRANIERI, MA QUESTA VOLTA NON VALE IL PRINCIPIO “PRIMA GLI ITALIANI”… COMUNE LATITANTE, CONTINUA LA CACCIA AI POVERI
“E mo ‘ndo vado? “. Luca Ottaviani fa un giro su se stesso, allarga le braccia, si guarda intorno disorientato, mentre le ruspe portano via tutto quello che è rimasto del piazzale che accoglieva 150 migranti.
Capelli bianchi rasati, occhi azzurri, pelle chiara, è italiano – “romano romano”, ci dice, e da tre mesi dormiva a piazzale Maslax, nel campo di accoglienza da tre anni presidiato dall’associazione Baobab Experience e sgomberato stamattina, per la ventiduesima volta
Baraccopoli, ghetto, covo di immigrati e clandestini, si è detto, e il ministro dell’interno Matteo Salvini poco dopo l’avvio dello sgombero ha scritto in un tweet: “Zone franche, senza Stato e legalità , non sono più tollerate”. Poi a cose fatte annuncia “presto altri 27 interventi” per “riportare la legalità a Roma quartiere per quartiere”. Zone in cui si trovano anche italiani.
Come Luca, appunto, che ha 47 anni ed è arrivato nello slargo alle spalle della stazione Tiburtina – “dopo che ci hanno buttato fuori dall’ostello di via Marsala”, racconta – con la moglie, quattro anni meno di lui, e i loro tre gatti, che ora occhieggiano da un trasportino piazzato in cima a un cumulo di pentole, coperte, scarpe, vestiti stipati in un carrello da supermercato.
“Ecco la mia famiglia e i nostri averi”, balbetta e quasi piange, urlando: “Ma dico vuoi fare lo sgombero? Fallo a marzo, ad aprile. Di questo passo a dicembre sarò morto. Poi tutti a dire si poteva evitare, si doveva aiutare, di qua e di là . Dove andiamo noi col freddo che sta arrivando?”.
Se lo chiedevano gli ex occupanti, trascinando trolley e borsoni con le loro cose, mentre, tra i blindati delle forze dell’ordine, sfilavano i pullman della polizia sui quali sarebbero stati caricati per raggiungere l’ufficio immigrazione della Questura, e gli operatori della municipalizzata che gestisce raccolta e smaltimento dei rifiuti accatastavano alcune bombole di gas ritrovate nelle baracche.
Se lo chiedevano gli attivisti del Baobab lanciando l’allarme: “Ci sono almeno un centinaio di persone delle quali il Comune non si è ancora fatto carico”.
Se lo chiedevano i giornalisti confinati dietro una transenna, guardando, tre ore dopo l’inizio dello sgombero, la piccola ruspa che abbatteva la prima capanna, a un passo dal cancello di ingresso e poi, più tardi, l’arrivo dei due grossi camion con bracci ragno che hanno raso al suolo baracche e tuguri fatti di lamiere, assi di legno e teloni di plastica.
Se lo chiedevano pure il consigliere in assemblea capitolina di Sinistra per Roma, Stefano Fassina, arrivato al piazzale insieme alla consigliera del II Municipio, Giovanna Maria Seddaiu – “Le persone che stanno mandando via dove andranno stasera? La città è più sicura o meno sicura dopo questo sgombero?”, si domanda Fassina .
L’assessore alla Cultura del III Municipio, Christian Raimo, aggiunge: “Molte delle persone che erano in questo campo, sapendo dello sgombero imminente, hanno preso le loro cose e sono andati a dormire per strada. Azioni come questa denotano un evidente desiderio di annichilimento, si vuole cancellare l’esistenza dei poveri, dei migranti. Si parla di ricollocazione, ma che vuol dire? Si portano queste persone in un’altra struttura, ma manca una visione di insieme, un progetto politico”.
Ernest Oba annuisce. Nigeriano, ventitrè anni, da quattro è in Italia. Nell’ultimo mese e mezzo ha dormito a piazzale Maslax e ora non vorrebbe andar via.
Il permesso di soggiorno ce l’ha – indica con il dito la dicitura “protezione sussidiaria”- ma “non ho più un lavoro, per un periodo aiutavo in un supermercato di Viterbo, e non ho un posto dove dormire”.
Sarà uno degli ultimi a salire sul bus della polizia, mentre i carabinieri passano in rassegna tende e baracche, sollevano giacigli improvvisati con stracci e materassi, prima di far entrare in azione la ruspa. Anche Iacu non sa dove finirà .
Cappuccio grigio calato sulla testa racconta di avere vent’anni, di essere partito dalla Guinea e di essere arrivato dalla Spagna a Foggia, dove ha lavorato come bracciante nella raccolta dei pomodori. “Sono a Roma da tre giorni e no, non so dirti dove andrò”, scuote la testa.
Secondo una prima stima, le persone presenti nel campo informale stamattina sarebbero state circa centocinquanta, circa 120 sarebbero state portate presso gli uffici immigrazione della Questura, mentre i restanti trenta sarebbero richiedenti asilo o in possesso di documenti di riconoscimento regolari e dunque allontanate.
“Le questioni sociali a Roma si risolvono con ruspa e polizia”, ha commentato Roberto Viviani, presidente di Baobab Experience – il Campidoglio a Cinque Stelle non è diverso dai precedenti nè dalla Lega. Ma quale cambiamento, è una vergogna infinita per questa città . L’ennesimo sgombero effettuato senza fornire una soluzione alternativa”.
Andrea Costa ha anticipato: “Sicuramente ricominceremo da qualche altra parte. Abbiamo già dato appuntamento ai tanti ragazzi e ragazze ex occupanti di questo campo, persone non pericolose e con tutto l’interesse a regolarizzarsi, che ci hanno detto di non sapere dove andare, fuori dalla stazione Tiburtina”.
È lì che Luca Ottaviani e la moglie si sono accampati per la notte che verrà . Seduti sul marciapiede, col loro carrello e i gatti nel trasportino. “Vedi che belli che sono i nostri gattini?”, chiede lei. E lui mastica amaro: “A noi invece ci hanno buttati per strada, peggio dei cani”.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: denuncia | Commenta »
Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
IL GIUDICE SMONTA LA RICOSTRUZIONE DELLA PROCURA… I FATTI SONO ANDATI DIVERSAMENTE
Cade l’accusa di omicidio ma restano ugualmente in carcere Chima Alinno e Brian Minthe,
due dei quattro africani fermati per la morte di Desirèe Mariottini, la sedicenne di Cisterna di Latina trovata senza vita nella notte tra il 18 e il 19 ottobre in un palazzo abbandonato in via dei Lucani, nel quartiere San Lorenzo.
La decisione è del tribunale del Riesame di Roma che ha, però, ritenuto non sussistente l’ipotesi dell’omicidio volontario sostenuta dalla procura.
Il tribunale della Libertà , accogliendo le istanze delle difesa, ha anche derubricato l’accusa di violenza sessuale di gruppo in abuso sessuale aggravato dalla minore età della vittima. I due restano quindi in carcere.
“Sono contenta per il mio assistito. Alla sua innocenza, anche alla luce delle indagini svolte, ho sempre creduto. Mi dispiace perchè le indagini condotte in tal modo rischiano di non rendere giustizia a quella povera ragazza”, così l’avvocato Pina Tenga, legale di Chima Alinno
La Procura però non cambia idea e il suo impianto accusatorio ritiene la sedicenne vittima di uno stupro di gruppo e di un omicidio volontario.
Domani, intanto, davanti allo stesso collegio del Riesame sarà discusso il ricorso del terzo arrestato, l’altro senegalese Mamadou Gara, e anche in questo caso è plausibile immaginare che l’esito sarà uguale a quello degli altri.
E sempre mercoledì, davanti al gip, si svolgerà nel carcere di Regina Coeli l’interrogatorio di convalida del fermo di Marco Mancini, romano di 36 anni, l’uomo accusato di aver venduto agli aguzzini gli psicofarmaci utilizzati nel mix letale che ha stroncato l’adolescente.
Mancini, a carico del quale è stata chiesta l’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, deve rispondere di detenzione e cessione illecita di sostanze stupefacenti, quali cocaina, eroina e psicofarmaci capaci indurre effetti psicotropi, a persone (compresa Desiree) che frequentavano lo stabile di via dei Lucani 22.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »
Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
PASSA UN EMENDAMENTO DI FORZA ITALIA, I VERI GRILLINI ESCONO ALLO SCOPERTO E INCHIODANO IL TRADITORE DI MAIO… ADESSO SONO UNDICI I SENATORI M5S CHE VOGLIONO CAMBIARE IL DECRETO GENOVA E CANCELLARE LA NUOVA MARCHETTA SUI FANGHI
Per la prima volta il governo gialloverde è stato battuto, in gergo si dice “è andato sotto”.
Le commissioni Ambiente e Lavori pubblici hanno approvato un emendamento presentato da Forza Italia al decreto Genova contro il condono di Ischia.
I rappresentanti dell’esecutivo avevano dato parere negativo.
Gregorio De Falco ha votato con i gruppi di opposizione, mentre Paola Nugnes si è astenuta. In un attimo è scoppiato il caos mai vissuto prima.
De Falco viene lasciato da solo nell’aula della commissione. I senatori grillini corrono negli uffici del gruppo: “E adesso che facciamo?”. Parte il giro di telefonate, la consultazione con i vertici e con Vito Crimi che in commissione, insieme a Edoardo Rixi della Lega, rappresenta il governo.
L’emendamento che ha avuto il via libera prevede la soppressione, nell’articolato sul condono edilizio di Ischia, del riferimento alla legge del 1985, quella voluta da Craxi, la “più permissiva”, spiegano le opposizioni.
Dunque, per le istanze di condono presentate in base alle leggi del 1994 e 2003 non vale il riferimento alla legge del 1985. Il Pd esulta con Matteo Renzi che ringrazia i 5Stelle che hanno votato in dissenso.
La battaglia grillina si snoda su tre direttrici: condono, fanghi e idrocarburi. L’opposizione interna al Movimento 5 Stelle si muove infatti su questi temi con in mano una ventina di emendamenti e ordini del giorno.
Questa volta i senatori grillini che si oppongono alle decisioni del governo sono undici, più del doppio rispetto ai dissidenti del decreto Sicurezza. E De Falco e Nugnes si sono già fatti sentire in commissione.
A preoccupare buona parte del mondo del pentastellato è, oltre al condono a Ischia, la questione ambiente, battaglia storica pentastellata: “Mi possono anche cacciare, ma io sono a posto con la mia coscienza. Sono loro che hanno cambiato idea”. A parlare con l’Huffpost è Saverio De Bonis, senatore al suo primo mandato. Si aggira preoccupato per i corridoi di Palazzo Madama mentre le commissioni Ambiente e Lavori pubblici stanno esaminando le proposte di modifica in una corsa contro il tempo per evitare che il decreto, approvato dal Consiglio dei ministri in seguito al crollo del ponte Morandi, possa scadere e quindi decadere. La Lega comunque sta già pensando a porre la questione di fiducia, atto che invece i 5Stelle vorrebbero evitare per non incrementare dissidi interni.
Dissidi che stanno emergendo già in commissione dove in alcuni casi il risultato delle votazioni si è attestato in un pareggio, che al Senato vale come voto contrario. Fino alla debacle a tarda sera, quando il governo viene battuto.
Pur non essendo di fronte agli ottanta emendamenti presentati al decreto sicurezza, si parla comunque di modifiche sostanziali che cambierebbero buona parte del testo concepito dal governo.
Nel mirino c’è l’articolo 41 che prevede nuove regole per lo sversamento dei fanghi da depurazione nei campi agricoli, autorizzando lo sversamento anche in presenza di concentrazioni elevate di diossine, pcb e idrocarburi.
Ben undici senatori M5s, per non parlare di tutti gli emendamenti presentati dalle opposizioni, chiedono lo stralcio dell’articolo. A chiedere modifiche sono senatori come De Falco, Nugnes, Fattori già sotto la lente di ingrandimento dei probiviri, ma anche tanti altri.
Mentre a guidare la battaglia sul condono è De Falco, quella sui fanghi se l’è intestata De Bonis, già presidente dell’associazione GranoSalus prima di entrare in Parlamento. “La mia non è una polemica, io queste cose le ho studiate — dice — la magistratura aveva già bocciato questi limiti previsti dal decreto. La Lombardia può smaltire i fanghi portandoli in discarica, non distribuendoli in altri territori. Io ho fatto battaglie per evitare gli spaghetti al diserbante e ora come faccia a proporre quelli al carburante o alle diossine? E’ di fondamentale importanza evitare la presenza di contaminanti nel suolo che vanno a inficiare la nostra agricoltura”.
E poi un messaggio al capo M5s e ai componenti del governo: “Bisogna praticarla la battaglia per l’ambiente non annunciarla e basta. Noi dobbiamo rispondere con la coscienza da parlamentari”, aggiunge De Bonis ricordando che il programma con cui M5s si è presentato alle elezioni prevedeva “una migliore gestione e tutela dei fanghi. Il problema è che al Nord non sanno come gestire questi fanghi e noi dobbiamo fare un favore alla Lega”.
Il primo scivolone si è verificato su Ischia. L’articolo sui fanghi deve ancora essere esaminato.
(da “Huffingtonpost“)
argomento: governo | Commenta »
Novembre 13th, 2018 Riccardo Fucile
L’ALTERAZIONE DELLA PERCEZIONE DELLA REALTA’ E’ IL FRUTTO DELLA MANIPOLAZIONE DELLA COMUNICAZIONE
Scegli al mattino, dai verbali di polizia, il crimine che ti fa più comodo, anche se trascurabile,
modesto, comune a tanti.
Scegli l’autore, preferibilmente immigrato e con la pelle nera, e poi lo lanci nell’iperuranio di internet.
Quel singolo reato verrà moltiplicato per dieci, per mille, per centomila volte in altrettanti singoli atti di malaffare.
Poi selezioni le attività di polizia e tra le decine di operazioni meritorie che ogni giorno si compiono, scegli quelle legate alla radice politica del tuo impegno: lo sgombero.
A patto che gli sgomberati abbiano la pelle nera, siano soprattutto o prevalentemente immigrati.
Al modo già illustrato, quell’evento lo lanci nell’iperuranio di internet, nella certezza che venga moltiplicato per dieci, per mille, per centomila volte in altri singoli atti di sgombero.
La realtà prefigurata, alterata nel modo descritto, diviene, col concorso del tempo, la realtà vissuta, l’oggetto stesso della contesa
.Non esistendo nella percezione collettiva altri eventi criminosi che questi, altri soggetti pericolosi che questi, altre questioni urgenti che quelle descritte, ogni attenzione sarà devoluta alla soluzione indifferibile e conclusiva di questi problemi, gli unici che meritano — con l’aiuto dei mass media — dibattito e polemica. L’alterazione della percezione della realtà sarà il frutto dell’uso manipolativo della comunicazione, e oggi conosciamo col nome di “troll” individui che in forma singola o associata, in modo professionale o dilettantistico, promuovono questa attività di disinformazione.
La domanda, che mi permetto di rivolgere al capo della polizia Franco Gabrielli, la cui fede democratica è indiscutibile, e così pure le doti di equilibrio, di prudenza, di dialogo, è questa: che si fa se scoprissimo un giorno che a trasformarsi in troll era il ministro dell’Interno, cioè il ministro dell’ordine e della polizia?
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: denuncia | Commenta »