Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
IL VOTO DEGLI UMBRI SEI MESI FA CERTIFICA CHE L’ESITO E’ SCONTATO, SOLO UN RIBALTONE SAREBBE UNA NOTIZIA
Sui media leggiamo che Salvini non vede l’ora che arrivino le 23 di domenica sera. “Scommettiamo una camomilla che in Umbria vinciamo noi?”.
Verrebbe da rispondere: “se non vinci in Umbria puoi anche spararti un colpo in fronte”
Perchè appena sei mesi fa , qualcuno deve pur ricordarlo e lo facciamo noi, il Centrodestra in Umbria raccolse il 52,2% mentre la somma Pd, M5s , Leu si fermò al 40,7%.
Differenza tra i due schieramenti 11,5%.
Questo è l’unico riferimento valido per valutare i risultati di domenica sera.
Ecco pure i dettagli dei singoli partiti, qualora qualcuno avesse dei dubbi: Lega 38,2%, Fdi 6,6%, Forza Italia 6,4%, Popolo famiglie 0,5%, CasaPound 0,5% . Totale 52,2%
Altro schieramento: Pd 24%, M5s 14,6%, Leu 2,1%. Totale 40,7%
Non solo: la giunta di centrosinistra uscente è stata costretta alle dimissioni dallo scandalo Sanità che ha colpito la Regione, quindi non si può certo ipotizzare che venga premiata alle urne.
Ci sono sondaggi che parlano di rimonta del candidato “civico” appoggiato da M5s e Pd, ma non in misura tale da mettere a rischio la vittoria annunciata della Tesei.
In ogni caso si parte con la candidata del centrodestra avanti di 11,5 punti, tutto il resto sono chiacchiere.
I risultati delle coalizioni e dei singoli partiti diranno di chi ha vinto e chi ha perso rispetto al voto delle Europee in Umbria di sei mesi fa.
Nessuna sorpresa se vince la Tesei, ma vittoria scontata.
Solo in caso contrario o se vincesse di poche incollature sarebbe una notizia.
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Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
DAVANTI AL COPASIR IL PREMIER DEVE CHIARIRE TRE PUNTI OSCURI DELLA SUA GESTIONE DEI RAPPORTI CON TRUMP E I NOSTRI SERVIZI
Nella legge numero 124 del 3 agosto del 2007, che disciplina il “sistema di informazione e di
sicurezza della Repubblica”, non c’è un solo rigo in cui, tra i compiti e le funzioni dei nostri servizi, sia prevista una loro collaborazione con il livello “politico” di un governo straniero.
È questa “irritualità ” il primo punto che il premier Conte dovrà chiarire nella sua audizione al Copasir: per quali ragioni ha “autorizzato” che ci fosse un rapporto diretto tra il ministro americano Barr e i vertici dei servizi italiani in due occasioni: a Ferragosto, in piena crisi di governo gialloverde, e il 27 settembre, quando era già nato il nuovo governo. È una “omologazione” di due livelli che normalmente restano distinti, come distinte sono un’istituzione che ha una forma di legittimazione popolare (un governo) e apparati di natura “tecnica” preposti alla sicurezza nazionale. Detta con parole semplici: perchè il presidente del Consiglio non ha suggerito, di fronte alla richiesta, l’opportunità di un incontro tra i servizi italiani e i corrispettivi americani? O perchè non ha suggerito di portare l’incontro sul terreno del governo, facendo incontrare il ministro della Giustizia italiana con quello americano?
È il cuore della questione che riguarda Conte, chiamato davanti al Copasir a chiarire quale ruolo ha agito in questa vicenda e a fugare il sospetto di aver aperto, in solitaria, un canale privilegiato con gli Stati Uniti anche grazie alla condivisione di informazioni riservate. Ruolo agito, così almeno sembra da più ricostruzioni, senza informare i partner di governo, nè la Lega del primo incontro nè il Pd del secondo.
Altra anomalia sempre nel campo della “irritualità politica”.
Sempre nella stessa legge, all’articolo 3, si prevede che il presidente del Consiglio, “ove lo ritenga opportuno può delegare le funzioni che non sono ad esso attribuite in via esclusiva soltanto a un ministro senza portafoglio o a un sottosegretario di Stato”, pur rimanendo il “responsabile” della politica per l’informazione e per la sicurezza. Può, non deve.
Alcuni premier hanno delegato, altri, come gli ultimi due no. Il punto non è la responsabilità in ultima istanza, che resta del premier, ma “l’opportunità politica”. Proprio l’assenza di “delega” consente l’assenza di condivisione. Anche in questo caso, c’è antica consuetudine secondo cui eccetto che per il segreto di Stato, che riguarda gravi emergenze, c’è una opportunità che spinge a informare il comitato ristretto del Consiglio dei ministri. E questo non è avvenuto, stando alle dichiarazioni ufficiale, nè nel primo caso nè nell’altro.
E questo rende legittima la seconda domanda, che attiene all’oggetto dell’incontro, autorizzato senza informare nessuno. Che non è una questione di “interesse nazionale”, tipo la messa in comune di informazioni che riguardano la lotta al terrorismo, sicurezza o approvvigionamento energetico, solo per fare alcuni esempi. L’oggetto è tutto “politico”.
Gli americani cercano in Italia le prove che l’inchiesta Mueller sui rapporti di Trump con i russi sia stata un’invenzione dei democratici Usa. E la posizione di Washington è nota: l’idea è che le intelligence di alcuni paesi europei, come Inghilterra e Italia, abbiano aiutato un attacco alla democrazia in America.
È una richiesta, dunque, che non riguarda l’interesse nazionale italiano ma che precipita la questione in un’orbita esclusivamente politica. L’autorizzazione degli incontri concessa dal presidente del Consiglio, porta cioè il nostro paese dentro una dinamica politica americana, proprio nel momento in cui pende — e questo vale a prescindere da come finirà – una richiesta di impeachment, arrivata dopo che è emerso che Trump avrebbe fatto pressioni su un leader straniero — il presidente ucraino Volodymyr Zelensky — perchè aprisse un’indagine nei confronti di Joe Biden, ex vicepresidente americano e suo probabile sfidante di Trump alle elezioni del 2020.
È chiaro ciò che gli americani cercano in Italia: la pistola fumante che Trump viene tirato in una trappola, perchè il venir meno del rapporto Muller mina politicamente l’intera strategia dell’impeachment su cui stanno lavorando i democratici. È, insomma, un terreno che travalica i compiti istituzionali della nostra intelligence
Non è banale la “segretezza” con cui il presidente del Consiglio ha gestito il dossier, senza condividerlo mai a livello di governo.
Il primo incontro è del 15 agosto, dunque si presume sia stato “autorizzato” prima, quando Conte era il capo di un governo “sovranista” sia pur traballante.
L’obiettivo di Barr è scoprire se il nostro paese ha avuto un ruolo nel Russiagate e se i nostri 007 hanno aiutato a trovare un rifugio sicuro Joseph Mifsud, il professore della Link Campus di Roma che nel 2006 avrebbe informato George Papadopulos (all’epoca consigliere della campagna di Trump) dell’esistenza.
Dopo quel primo incontro ce n’è un secondo il 27 settembre con il capo del Dis Gennaro Vecchione e i direttori dell’Aisi e dell’Aise, nell’ambito di una interlocuzione con Washington che resta aperta durante il cambio di governo. In mezzo c’è l’ endorsement di Trump a “Giuseppi”.
Ecco: l’eventuale omaggio a Trump chiama in causa le presunte responsabilità dei governi del Pd, di quello cioè che stava diventando il principale alleato di Conte.
Di qui una terza domanda: oltre agli incontri c’è stata una collaborazione attiva della nostra intelligence?
Esistono dei report che certificano una presunta attività di indagine sui precedenti governi italiani, quelli di Renzi e Gentiloni? Anche di questo sarà chiamato a rispondere Conte al Copasir, nella consapevolezza che “la prova del nove” delle sue dichiarazioni sono i report che presumibilmente, come accade in questi casi, avrà stilato Barr al ritorno dalle sue visite italiane.
Questa vicenda, su cui sono impegnati due dei più importanti giornali di inchiesta al mondo, il New York Times e il Washington Post, è cruciale nella vicenda americana. Ma anche in quella italiana, nella misura in cui il premier ha messo il paese in una situazione “istituzionale” molto delicata: Trump, sulla medesima questione, ha coinvolto tre governi: quello australiano di Scott Morrison quello inglese di Boris Johnson, e quello italiano.
È un caso? Forse è il segno che nella sua testa c’è un criterio di “omogeneità ” politica per una questione politica. Ma che c’entra con i compiti istituzionali della nostra intelligence?
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
DOPO TRUMP, ANCHE PUTIN TRADISCE IL POPOLO CURDO… DUE FACCE SOVRANISTE DELLA STESSA MEDAGLIA IMPERIALISTA CHE SFRUTTA E OPPRIME I POPOLI
Il patto di ferro tra lo Zar e il Sultano segna il futuro della Siria. E quello dei curdi. “Traditi” da Putin, dopo essere stati scaricati da Trump. Turchia e Russia hanno concluso un “accordo storico” per una nuova tregua di 150 ore nel nord della Siria per completare l’evacuazione delle milizie curde Ypg da un’area di 30 km entro il confine siriano.
Lo ha annunciato a Sochi il presidente turco Recep Tayyip Erdogan al termine del suo incontro con Vladimir Putin.
Russia e Turchia condurranno pattugliamenti congiunti fino a 10 km entro il territorio siriano oltre il confine turco, a est e ovest dell’area in cui è stata condotta l’operazione turca nel nord della Siria.
È esclusa Qamishli, principale centro curdo nell’area. Lo indica il memorandum d’intesa siglato a Sochi dai presidenti dei due Paesi.
Dalle 12 locali di domani (le 11 in Italia) la polizia militare russa e le guardie di frontiera siriane entreranno nell’area di confine con la Turchia in territorio siriano, al di fuori dell’area dell’operazione militare turca, per facilitare entro 150 ore l’evacuazione delle milizie curde Ypg.
I pattugliamenti congiunti Ankara-Mosca inizieranno dopo questa fase di tregua.
“Il presidente turco mi ha spiegato le ragioni dell’offensiva – ha iniziato così Putin la conferenza stampa congiunta al termine dei colloqui-. – Io sono convinto che i sentimenti separatisti nel Nord-Est della Siria, siano stati fomentati dall’esterno. La regione va liberata dalla presenza illegale straniera”.
Il capo del Cremlino ha fatto riferimento anche al timore che i prigionieri dell’Isis, sotto controllo dei curdi nell’area del Nord-Est e ora sotto controllo turco, possano approfittarsene per riprendere forza: “I terroristi non traggano forza dall’operazione turca”. E poi ci ha tenuto a sottolineare che l’accordo con Erdogan è “di importanza fondamentale per il futuro della Siria”.
E’ stato stabilito, nel memorandum d’intesa siglato dai due capi di Stato, che Turchia e Russia condurranno pattugliamenti congiunti fino a 10 km entro il territorio siriano oltre il confine turco, a est e ovest dell’area in cui è stata condotta l’operazione turca nel nord della Siria, esclusa Qamishli, principale centro curdo nell’area.
Nel memorandum di Sochi viene anche detto che ”lo status quo stabilito nell’area dell’attuale Operazione Fonte di Pace tra Tal Abyad e Ras al Ayn, con una profondità di 32 km, verrà preservato”.
E’ quanto chiedeva Erdogan. E’ quanto ha ottenuto da Putin.
A sua volta il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha affermato che le delegazioni dei due Paesi hanno raggiunto un’intesa affinchè la polizia militare russa e le forze governative siriane restino al di fuori della zona dell’operazione militare turca in Siria settentrionale.
“Oggi con Putin abbiamo raggiunto un accordo storico – ha detto Erdogan – per la lotta contro il terrorismo, l’integrità territoriale e l’unità politica della Siria, e per il ritorno dei rifugiati”.
È importante che delle azioni delle forze armate turche non si approfittino i membri di organizzazioni terroristiche, compresa l’Isis, i cui guerriglieri vengono tenuti prigionieri presso le formazioni armate curde e cercano di liberarsi”, afferma il capo del Cremlino al termine del lungo incontro con il suo omologo turco. E ancora: “I terroristi non devono trarre vantaggio” dall’operazione turca nel nord della Siria. “Il Paese deve essere liberato dalla presenza illegale straniera”.
Il comandante delle Forze democratiche siriane, Mazloum Abdi, ha scritto in una lettera indirizzata al vice presidente americano Mike Pence di aver ritirato “tutte le forze delle Ypg”.
“Alcuni progressi sono stati fatti, ma è troppo presto per dare delle certezze”, ha sottolineato il segretario di Stato americano Mike Pompeo.
“La Russia ha fatto della Siria il teatro del suo ritorno allo status di potenza di primo piano, approfittando del disimpegno statunitense cominciato da Barack Obama nel 2013. All’epoca la Russia e l’Iran, riempiendo immediatamente il vuoto creato dall’allontanamento statunitense, erano corsi in soccorso di Assad, con pesanti conseguenze dal punto di vista umanitario e politico.
Ora Putin approfitta nuovamente dell’eclissi di Washington per affermare il suo paese come unica potenza straniera presente sul campo e capace di dialogare con tutti gli attori coinvolti”, annotava Pierre Haski, di FranceInter, in un articolo su Internazionale del 14 ottobre.
Il patto di Sochi conferma e rafforza questa tesi. Il vero dominus in Siria sta al Cremlino e non alla Casa Bianca.
Ora lo “Zar” dovrà tener buono Bashar al-Assad. Il presidente siriano ha fatto visita oggi alle truppe dell’esercito arabo siriano impegnate a Hobait, sul fronte della provincia di Idlib. E’ la prima volta che Assad si reca nel nord-ovest della Siria dall’inizio del conflitto. Lì l’esercito di Damasco è impegnato da anni in una dura battaglia contro i jihadisti di ayat Tahrir al-Sham (al Qaeda), supportati dai “moderati” del Free Syrian Army e dai “ribelli filo turchi”.
In realtà anche l’esercito di Ankara è direttamente coinvolto nella battaglia di Idlib, motivo che rende ancora più significativa la visita odierna di Assad.
“Erdogan è un ladro. Ci ha rubato le fabbriche, il grano e il petrolio, e oggi sta rubando la terra”, ha detto senza mezzi termini il presidente siriano.
Parole di fuoco, propositi bellicosi. Tutto, però, prima del patto di Sochi. Ora il rais di Damasco sarà chiamato a rapporto da colui senza il quale quasi certamente oggi non sarebbe al potere e, forse, neanche in vita: Vladimir Putin.
E il “ladro di Ankara” diventerà un “alleato”, per quanto scomodo, e odiato. Ma questo vuole la pax russa.
Quanto ai curdi siriani, potranno essere riassorbiti nella Siria di Assad. Ma del modello Rojava non rimarrà più nulla. Spazzato via, prima dal tradimento americano e ora dal “patto di Sochi”.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
IL M5S METTE IN BOCCA AL GRANDE ECONOMISTA PAROLE CHE NON HA MAI PRONUNCIATO NELL’INTERVISTA CONCESSA AL TG1: NON PARLA MAI DEL GOVERNO NE’ DEL M5S
«Un grande economista e sociologo come Jeremy Rifkin elogia la svolta ambientale che abbiamo
impresso a questa Manovra».
Oggi il MoVimento 5 Stelle ha deciso di raccontare che Jeremy Rifkin, sociologo e autore di un libro dal titolo Un green new deal globale. Il crollo della civiltà dei combustibili fossili entro il 2028 e l’audace piano economico per salvare la Terra , ha elogiato la svolta ambientale impressa dal M5S alla legge di Bilancio.
Ma quando e dove Rifkin avrebbe fatto i complimenti al MoVimento 5 Stelle e al governo per la manovra e la “svolta ambientale”?
Niente meno che durante un’intervista concessa al Tg1 e andata in onda ieri durante l’edizione delle 20 del telegiornale della prima rete Rai.
Il bello è che durante l’intervista Rifkin non pronuncia mai il nome del MoVimento, del Presidente del Consiglio e soprattutto non fa alcun riferimento alla manovra del governo giallorosso.
Nell’intervista Alviti Rifkin parla di quella che secondo lui è la bolla economica dei combustibili fossili che potrebbe concludersi nel 2028 e spiega che per costruire le infrastrutture necessarie al Green New Deal «si creeranno milioni di posti di lavoro, in Europa e nel mio Paese, gli Stati Uniti».
E l’Italia? «Quanto all’Italia — prosegue Rifkin — il Sud è l’Arabia Saudita dell’eolico e del solare. Se restate alle energie fossili soffrirete il collasso della vostra economia. E questo avverrà molto molto in fretta».
Questo è quello che ha detto Rifkin, ed è quello che si può ascoltare anche nel video pubblicato dal MoVimento 5 Stelle su Twitter e su Facebook, è quindi un discorso molto generale sulla necessità di passare da un’economia basata sui combustibili fossili ad una sulle fonti rinnovabili. Quando parla dei progressi compiuti dalle varie nazioni in questo senso Rifkin dice che Europa e Cina sono più avanti mentre negli USA l’amministrazione Trump sta remando contro (anche se in alcuni stati i legislatori si stanno muovendo in direzione di una svolta verde).
Il sociologo rivolge poi un appello ai giovani che fanno parte del movimento globale per il clima invitandoli a farsi eleggere e ad entrare nelle istituzioni per essere promotori del cambiamento.
Quante volte Rifkin ha nominato il M5S? Nessuna.
Quanto tempo ha dedicato all’analisi di una manovra di bilancio della quale evidentemente non conosce i dettagli? Zero.
E non è la prima volta che il M5S mette in bocca a Rifkin parole che non ha pronunciato. L’anno scorso, ad appena due giorni dall’insediamento del Governo Conte 1 il Blog delle Stelle sparò in orbita un titolo del genere: «con il Governo del Cambiamento più potere al popolo e alle comunità locali, parola di Rifkin».
Manco a dirlo era una “ricostruzione”di quello che aveva detto Rifkin in occasione del a Brussels Economic Forum, e del resto come poteva l’economista e sociologo promuovere un governo che non aveva ancora fatto nulla?
Esattamente come non può lodare una manovra che non è ancora stata approvata dal Parlamento e contiene più che altro generici impegni verso l’economia verde.
(da “NextQuotidiano“)
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Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
ALTRO CHE LA PROMESSA DI 1 EURO AL LITRO “ENTRO TRE MESI”, NE SONO PASSATI 8 DI MESI E IL LATTE VIENE PAGATO SEMPRE 0,74 AL LITRO E ORA SI PROSPETTA UNO 0,70… SALVINI SI E’ PRESO I VOTI ALLE REGIONALI E TANTI SALUTI (PERO’ HA INASPRITO LE PENE PER BLOCCO STRADALE)
Avevamo lasciato i pastori sardi durante la campagna elettorale per le elezioni regionali in Sardegna a versare il latte per strada.
La protesta aveva lo scopo di ottenere un aumento del prezzo di vendita del latte usato per la produzione di formaggi. All’epoca l’allora ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini aveva colto la palla al balzo e convocato un tavolo al Viminale.
Salvini fece una promessa ben precisa: «Ho incontrato al Ministero i pastorisardi, obiettivo: risolvere il problema entro 48 ore». Era il 12 febbraio, oggi è il 22 ottobre e quel problema non è stato risolto.
Nè Salvini nè l’ex ministro delle Politiche agricole e forestali Gian Marco Centinaio hanno risolto il problema mentre erano al governo.
Sono però riusciti a vincere le elezioni regionali sarde, che era il vero obiettivo della sparata del leader della Lega.
Quindi alla fine il risultato è stato che Salvini ha ottenuto esattamente quello che voleva, mentre i pastori che si sono fidati del capo del Carroccio (che in quel momento parlava “per il Governo”) sono rimasti con un pugno di mosche in mano perchè il prezzo del latte non è affatto arrivato alla cifra di un euro al litro rivendicato dagli allevatori.
E di sicuro la situazione non è stata risolta perchè il M5S “remava contro”. Anzi, il ministero chiave e la Regione sono state saldamente in mano della Lega, che però a quanto pare aveva altro a cui pensare che risolvere il problema del prezzo del latte di pecora.
Quando iniziò la protesta i pastori venivano pagati tra i 50 e i 60 centesimi di euro al litro. Al termine delle manifestazioni e dei blocchi stradali riuscirono a spuntare un nuovo prezzo: tra i 72 e 74 centesimi al litro. Ancora molto lontano dalla richiesta di partenza ma un passo avanti.
Per Salvini di sicuro è un successo perchè dimostra che è stato iniziato “un percorso” e qualche settimana fa ad Otto e Mezzo ha dichiarato di essere pronto a trascorrere il prossimo San Valentino con i pastori.
Il segretario del Carroccio è convinto che si arriverà ad un euro al litro. Ma dimentica che il governo aveva proposto di passare da 60 a 70 centesimi al litro e poi a un euro nell’arco di tre mesi. Di mesi ne sono passati otto e la situazione non è affatto migliorata. In realtà il problema è che pure quello a 72 centesimi non è un vero aumento.
A novembre infatti ci sarà il conguaglio con il saldo della campagna lattiero casearia del 2018-2019 e qualora il prezzo del pecorino non fosse adeguatamente alto gli allevatori si potrebbero trovare addirittura a dover restituire l’anticipo concesso dai produttori. Al momento il pecorino viene venduto a 6,95 euro al kg ma per poter arrivare a vendere il latte ad un euro al litro sarebbe necessario venisse venduto a 8,20 euro al chilo.
Un prezzo che consentirebbe ai caseifici di portare a 1,02 al litro il prezzo del latte.
Riguardo al percorso che “è iniziato” vale la pena di ricordare che l’ultimo tavolo ministeriale risale a maggio scorso.
Di fatto quindi le istituzioni non si sono più interessate alla questione. Anzi: il governo gialloverde in un certo senso se ne è interessato, visto che nel Decreto Sicurezza ha inasprito le pene per il reato di blocco stradale, di fatto criminalizzando lo strumento di protesta utilizzato dai pastori sardi.
Nel frattempo i produttori avrebbero iniziato a pagare 14 cent al litro arrivando così a un prezzo finale del prodotto di 74 cent/litro. In questo contesto le tensioni stanno tornando ad aumentare, alimentate dalla delusione degli operatori del settore per il silenzio del governo, quello vecchio prima e quello nuovo ora.
Il rischio è quello di vedere a febbraio le stesse scene che abbiamo visto quest’anno. Con una differenza fondamentale: inSardegna non ci sono le elezioni regionali, ce ne saranno altrove. E altrove saranno gli sguardi di Salvini e della politica.
Qualche giorno fa Gianuario Falchi, uno dei pastori che hanno preso parte all’incontro con Salvini al Ministero ha scritto su Facebook: «è impensabile che la nuova stagione riparta, come si vocifera su radio campagna, da 70 centesimi di acconto, come pare che gli industriali stiano proponendo come se niente fosse accaduto nel mese di febbraio, insomma per l’ennesima volta dovremmo stare ai loro giochi in silenzio, accettare che loro si riuniscano in riunioni informali nelle quali stabiliscono il prezzo del latte uguale per tutti indipendentemente dalle tipologie e dalle rispettive quantità dei diversi formaggi che ciascun caseificio produce».
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
L’AUTOGOL DI SALVINI: LA FRASE ERA RIFERITA A OCCHIUTO, CANDIDATO IN CALABRIA DA FORZA ITALIA, MA VALE ANCHE PER LA LEGHISTA TESEI IN UMBRIA
“Se ha il Comune in bancarotta, come fa a fare il governatore?”: è stato chiarissimo oggi Matteo
Salvini a margine di una visita al mercato di piazza Epiro a Roma, rispondendo a chi gli chiedeva della possibile corsa di Mario Occhiuto, già sindaco di Cosenza, come candidato governatore del centrodestra. “E’ come candidare la Raggi a fare il presidente del Consiglio…”, ha ironizzato il leader della Lega.
Ma c’è un problema grosso come una casa dietro questa giusta presa di posizione di Salvini contro gli amministratori allegrotti.
Ovvero che la sua candidata in Umbria Donatella Tesei si trova nelle stesse condizioni di Occhiuto. A Montefalco, piccolo comune di poco più di cinquemila abitanti, Tesei lascia un buco pari a 1.617.672,16 euro. Secondo le opposizioni invece il disavanzo sarebbe di addirittura 4 milioni di euro.
I problemi iniziano nel 2017 quando la Corte dei Conti la Corte dei Conti di Perugia è intervenuta su «entrate fittizie per un milione e mezzo» nella gestione del 2014 facendo notare che sarebbero stati messi a bilancio «per fingere che fosse in equilibrio».
Quel milione e mezzo di entrate fittizie, spiegava Repubblica qualche giorno fa, sono 1,4 milioni di euro di tasse locali (TARI, IMU e TASI) inseriti alla voce “residui attivi” ma che non sono mai arrivati nelle casse del Comune. Secondo l’opposizione la maggioranza ha iscritto a bilancio il gettito teorico totale delle imposte e non quello reale, da qui la differenza tra il gettito reale e quello “previsto” che però non teneva conto della quota di evasione (che mediamente è nota).
Nel 2019 Tesei, eletta a Palazzo Madama con la Lega, lascia il Comune. Ma quando la nuova amministrazione comunale si appresta a fare una verifica sul bilancio previsionale approvato a marzo di quest’anno dalal giunta Tesei scopre che erano stati iscritti a bilancio altri 400 mila euro di entrate tributarie sovrastimate.
Di nuovo tasse che sulla carta avrebbero dovuto generare un certo introito ma che nella realtà non hanno generato quanto “previsto”.
E i guai non finiscono qui perchè l’opposizione ha anche annunciato un esposto all’ANAC perchè sul sito del Comune la sezione “Amministrazione Trasparente”, che per legge dovrebbe essere costantemente aggiornata l’elenco dei consulenti e dei professionisti pagati dal Comune non è aggiornato dal 2014 e pure gli atti relativi ad affidamenti ed appalti pubblici non sarebbero tutti pubblicati.
Per questo, nota la sottosegretaria agli Affari Europei Laura Agea, esponente umbra del MoVimento 5 Stelle, “Matteo Salvini boccia la candidata leghista alla Regione Umbria Donatella Tesei. Era ora. Secondo il leader della Lega non è possibile candidarsi a fare il presidente di Regione dopo aver lasciato i debiti nel proprio Comune. Una sonora bocciatura per Donatella Tesei che pochi mesi fa ha lasciato il comune di Montefalco con un bel buco di bilancio da 2 milioni di euro. Tanto che la nuova amministrazione di centrodestra ricorre all’auto ostruzionismo per non approvare il bilancio consolidato che certifica il disavanzo. Meglio tardi che mai, la Tesei non è una candidata credibile per rilanciare l’Umbria”.
(da agenzie)
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Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
BEN NOTA A TORINO PER IL DISASTRO DELLL’ANAGRAFE
Tommaso Rodano sul Fatto Quotidiano tratteggia un interessante ritratto di Paola Pisano, ministra dell’Innovazione del governo Conte Bis per volontà di Di Maio e Casaleggio ma ben nota prima a Torino per il disastro dell’anagrafe di Torino
Giovane, brillante, patinata, tecnologica. È sufficiente per guidare un dipartimento di Palazzo Chigi? Le si può affidare serenamente la trasformazione digitale dell’Italia?
Secondo Luigi Di Maio, evidentemente, sì. È il capo dei Cinque Stelle che ha voluto la sua nomina. Pisano è molto considerata dai vertici del Movimento, che l’hanno fatta anche esordire a Ivrea, sul palco della convention di Roberto Casaleggio.
Era stato sempre Di Maio a spingere perla sua candidatura da capolista alle elezioni europee, lo scorso maggio. La signora dei Droni decise di rifiutare, non proprio spontaneamente: la rinuncia fu suggerita dalla reazione furibonda del gruppo consiliare grillino (“Se va a Bruxelles non si sogni di fare anche l’assessore”).
È proprio qui che si consuma il vero disastro della Signora dei Droni: l’anagrafe di Torino versa in condizioni imbarazzanti.
Altro che digitalizzazione: la città fatica a garantire i servizi essenziali . Caos, code che iniziano alle 5 di mattina, cittadini furibondi, tempi biblici (fino a 4 mesi) anche solo per la carta d’identità : scenari ormai ben noti ai frequentatori degli uffici sabaudi.
Il problema, se vogliamo, non sono i robot, ma la carenza di personale in carne ed ossa.
La signora dei Droni però è l’unica responsabile dell’idea non proprio oculata di “sperimentare” l’apertura di due sportelli liberi, dov’è possibile recarsi senza aver preso appuntamento. Il risultato è stato tragico.
Non si può non augurare in bocca al lupo al ministro Paola Pisano, geniale organizzatrice di spot ad alta intensità tecnologica, eccellente promotrice soprattutto di se stessa.
Promette di “digitalizzare l’Italia”come ha fatto con Torino.
Qualcuno fa già gli scongiuri.
(da “NextQuotidiano”)
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Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
I RAPPORTI DELL’AGENZIA PER LA SICUREZZA
Solo il 10% di ponti, viadotti e gallerie della rete ferroviaria italiana gestita da Rfi è stato controllato,
ispezionato e sottoposto a conseguenti interventi strutturali negli ultimi otto anni.
E quando le ispezioni sono state fatte, spesso sono state fatte male.
È la preoccupante verità contenuta del report segreto dell’Agenzia per la sicurezza ferroviaria (Ansf) che Business Insider Italia è in grado di svelarvi in esclusiva.
La relazione — dal titolo “Gestione opere civili, relazione di sintesi attività Ansf”, datata 11 febbraio 2019, che fa il punto sullo stato dell’arte della manutenzione delle infrastrutture ferroviarie — non lascia per nulla tranquilli, tratteggiando un immediato parallelo con le mancanze sulla manutenzione della rete autostradale venute alla luce dopo il crollo del Ponte Morandi.
Nel report gli ispettori Ansf mettono nero su bianco pesantissime “criticità ”, quali: “ispezioni sulla tenuta statica di ponti, gallerie e viadotti mai fatte ma inserite comunque a computer”; “controlli sulle strutture effettuati senza strumenti idonei o da personale senza qualifica”; esami effettuati solo “a vista”, cioè solo nelle parti “visibili”, “tralasciando ogni controllo sulle parti strutturali come appoggi, travi cave, giunti ecc…”.
Non solo, in un altro documento segreto del quale Business Insider Italia è entrato in possesso, il report allegato all’Autorizzazione di sicurezza concessa da Ansf a Rfi il 14 giugno 2019, la stessa Agenzia, analizzando i documenti che certificano quelle procedure, riscontra “procedure superate o inutili”; controlli dichiarati sulla carta, ma la cui reale effettuazione è impossibile da ricostruire; regole che governano la manutenzione ridotte a semplici “affermazioni di principio del tutto insufficienti”.
Insomma, a leggere le risultanze dell’Autorità deputata a vigilare sulla sicurezza della circolazione dei treni, corre un brivido lungo la schiena per la quantità di carenze e mancanze.
Che risultano incomprensibili se si pensa che Rfi ogni anno riceve una valanga di soldi dallo stato: tra il 2010 e il 2018, solo per le manutenzioni ordinarie ha incassato 7,08 miliardi di euro, ai quali se ne aggiungono altri 4,35 per le manutenzioni straordinarie negli anni 2012-2017.
Nell’ultima Finanziaria il governo Conte ha previsto ulteriori 300 milioni per “interventi per la sicurezza della rete ferroviaria nazionale”. Un fiume di denaro ininterrotto, più che sufficiente a sistemare una rete che però fa acqua, sebbene costosissima. Per avere un’idea, l’Italia ha una rete che è metà di quella francese, ma spende due volte e mezza per mantenerla.
Il documento più preoccupante è quello sulle “Opere civili”: l’Agenzia inizia ad occuparsi di ponti e viadotti della rete nel 2011, dopo il crollo “di alcune arcate di un ponte sulla linea Lentini Diramazione-Gela, un viadotto (…) costruito fra il 1959 e il 1979”, che spinge l’Autorità a “prescrivere AL GESTORE (Rfi, ndr) l’adeguamento del proprio sistema di regole interne in tema di visita e controllo alle opere d’arte, al fine di allinearlo al contesto internazionale”.
Una scelta obbligata, visto che la maggior parte delle opere civili della rete “risale al periodo post-unitario e l’età media di ponti e gallerie supera i 50 anni”. Inoltre, i ponti ad arco in muratura, la maggioranza della rete, sono stati costruiti tra il 1830 e il 1920, in base ai carichi del tempo, assai diversi da quelli attuali.
Così Ansf impone a Rfi di stilare un programma di visite e manutenzione aggiornato (il precedente risaliva al 1994), che arriva nel 2013 e parte nel 2014, il quale prevedeva la conclusione dell’intero set di visite generali di tutte le 15 mila opere civili della rete entro fine 2021.
Ma il lavoro non procede velocemente, annota Ansf: “Come risultante dall’ultimo report prodotto da RFI (novembre 2018) sono state eseguite visite generali a 1.610 opere complessivamente su un totale circa 15 mila opere interessate (stato di avanzamento pari a poco più del 10%, rispetto ad un piano presentato ad ANSF nel 2014)”. Ovvero, in quattro anni si sono controllate poco più che 1 struttura su 10! Come Rfi pianifichi di controllare le restanti 13.400 entro i prossimi due anni il documento non lo dice.
A ciò si deve poi aggiungere che l’Italia è territorio sismico, tanto che Rfi dal 2003 “sta sottoponendo a verifica sismica 4909 opere del Sistema di grande viabilità ferroviaria”. A oggi sono state concluse le verifiche sismiche delle 705 opere individuate come prioritarie per la vulnerabilità sismica, sono state avviate le verifiche sulle rimanenti 4.204 opere, di cui circa 300 dovrebbero essere state già completate;
In esito alle verifiche previste, sono stati eseguiti circa 60 interventi di consolidamento.
Si procede lentamente, ma come si fanno queste ispezioni? E ancora: chi certifica che i lavori siano stati fatti ad arte?
Per legge deve essere Ansf a controllare e certificare, tuttavia l’Agenzia non ha in organico ingegneri strutturisti in grado di verificare la singole infrastrutture, tanto che secondo l’organigramma dell’Agenzia, gli uffici “Sottosistemi strutturali infrastruttura ed energia”, “Sottosistemi strutturali comando e controllo”, “Standard di sicurezza e Analisi del rischio”, risultano “attualmente privi di organico”.
Quindi l’unico modo che ha l’Autority per verificare è fare audit sulle attività di Rfi e verificare i documenti, come vedremo dopo. Cosa che fa, con risultati per nulla tranquillizzanti. Anzi. Tra le tante pecche riscontrate tra il 2012 e il 2017, si annoverano:
— carenze sulla “dotazione tecnologica minima a supporto delle visite; “mancato aggiornamento del sistema informatico di registrazione delle attività manutentive”;
— visite “che non risultavano svolte secondo la periodicità prevista”; controlli eseguiti “da personale di preparazione non sempre adeguata o non dotato di strumentazione idonea”; nel caso di attraversamenti di proprietà di enti terzi (sovrappassi stradali, ecc.) “le verifiche erano normalmente eseguite solo esteriormente e per la parte visibile dalla ferrovia, tralasciando ogni controllo sulle parti strutturali (appoggi, travi cave, giunti, ecc.); “mancata effettuazione di visite alle opere d’arte e la presenza di criticità che impedivano la regolare esecuzione delle visite per quelle opere dichiarate non visitabili; in alcuni casi la situazione delle attività di controllo periodico registrate nel sistema informatico non è risultata coerente con quella reale”;
— in altri casi la rappresentazione delle attività di controllo periodico registrate nel sistema informatico è risultata non del tutto coerente con quella reale, compresi gli aspetti correlati alla tracciatura degli esiti e delle azioni conseguenti;
Che la messa in sicurezza dei ponti proceda a rilento, quando non procede proprio, lo dimostra la direttiva emanata da Rfi a settembre 2019 a tutti i suoi dipendenti con la lista di tutte le limitazioni di velocità imposte ai treni nei tratti ritenuti pericolosi. Confrontando la lista del 2019 con quella precedente, datata 2015, si nota che nessun “punto caldo” è stato cancellato: nel 2015 risultavano 34 ponti a rischio e 34 ponti sono riportati nel 2019. Segno che nessun intervento è stato effettuato.
Due pagine della relazione dell’Agenzia per la sicurezza ferroviaria di novembre 2019 inerente alla manutenzione della rete gestita da Rfi.
Il report sulla Sicurezza
È alla luce di quanto contenuto nel report di febbraio che si deve leggere l’altro documento segreto del 14 giugno 2019. Si tratta dell’Autorizzazione di Sicurezza che Ansf concede a Rfi, necessaria alla società per poter operare, un giorno prima dell’entrata in vigore delle nuove regole europee sulla sicurezza. Un documento che contiene una lunga serie di prescrizioni seguite all’esame effettuato sull’insieme di procedure, norme, obblighi vigenti all’interno di Rfi per assicurare manutenzione, gestione e formazione. Tanto che l’Agenzia concede il nullaosta con validità dimezzata: due anni e sei mesi, al posto dei canonici cinque anni.
Nei giorni scorsi, Business insider Italia aveva denunciato come tutti gli operatori ferroviari fossero in forte ritardo rispetto ai parametri minimi di sicurezza richiesti dalle norme già a fine 2018, con il 58% dei criteri obbligatori “non soddisfatto” o “parzialmente soddisfatto”. Avevamo anche sottolineato come i report allegati alle singole autorizzazioni — tra il 20 maggio 2019 e il 14 giugno 2020 Ansf rilascia ben 7 autorizzazioni di Sicurezza — fossero segretati e conoscibili solo dagli operatori.
Le tre pagine della lettera di Ansf che accompagna il report segreto allegato all’Autorizzazione di sicurezza.
Questo è uno di quei documenti segreti. Per comprendere quanto sia problematica la situazione, basta leggere la lettera di accompagnamento del report, nella quale i vertici Ansf impongono alla controllata di Fs di definire entro il 30 settembre 2019 “un dettagliato piano di adeguamento del Sistema di gestione della sicurezza”, che porti alla “risoluzione delle altre non conformità presenti nel medesimo report”. Invitano poi Rfi a istituire al più presto “un tavolo tecnico congiunto al fine di sopportare la transizione del Sistema di gestione della sicurezza di codesto Gestore (cioè Rfi, ndr) verso la conformità ai suddetti requisiti”.
Si tratta dell’unico limite temporale imposto alla società , sebbene ci si sarebbe aspettati che, date le mancanze riscontrate, l’Agenzia imponesse limitazioni chiare e ordini obbligatori, se non veri e propri stop alla circolazione.
Nella stessa missiva di accompagnamento a firma del direttore Marco D’Onofrio si sottolinea come Rfi “sia responsabile (…) della congruità tra le risorse disponibili e le attività svolte”. Un’annotazione importante, soprattutto alla luce della recente iscrizione nel registro degli indagati per il reato di disastro ferroviario colposo dell’ex direttore di Ansf, Amedeo Gargiulo e del suo vice di allora (impossibile saperne il nome) per la strage di Pioltello.
Secondo la procura di Milano, l’agenzia non avrebbe vigilato sulla manutenzione effettuata da Rfi sulla tratta Milano-Cremona, dove la mancata sostituzione di un giunto nei binari (lesionato e segnalato da mesi) causò il deragliamento del 25 gennaio 2018, costato la vita di tre passeggeri e il ferimento di altri cinquanta. Ad aggravare la situazione la notizia che domenica 13 ottobre 2019, sulla stessa linea, un altro treno ha rischiato di deragliare per un altro pezzo di binario rotto. Episodio finito nel fascicolo della procura.
Interrogata sugli aspetti non in regola riportati dal documento, Ansf ha precisato che: “Nel rapporto di valutazione sono riportate carenze nella tracciatura dei processi all’interno della documentazione costituente il Sistema di Gestione della Sicurezza, chiarendo in questa sede che carenze documentali non equivalgono a carenze dei processi. Premesso quanto sopra, le valutazioni operate da ANSF hanno consentito di poter affermare il sussistere di una capacità operativa del gestore RFI nel garantire il funzionamento sicuro della propria parte di sistema ferroviario e la necessità , nell’ottica del miglioramento continuo della sicurezza, di migliorare e/o evidenziare la tracciabilità dei processi e delle loro correlazioni all’interno della documentazione che costituisce il Sistema di Gestione della Sicurezza”.
Stessa posizione di Rfi, la quale fa sapere che “Tutti i rilievi dell’ANSF riguardano aspetti legati alla conformità documentale e non a effettive carenze. La conferma di ciò sta nel fatto che l’intero insieme documentale presentato per il rinnovo senza modifiche significative è stato già approvato nel 2014 e ha portato al conseguimento dell’Autorizzazione di Sicurezza 2014/2019, rilasciata senza particolari prescrizioni. Seguendo le indicazioni ricevute, Rfi sta comunque procedendo a semplificare la documentazione di sicurezza, ha attivato un tavolo tecnico con ANSF per la transizione verso il nuovo regolamento comunitario 762/2018 sui metodi di gestione della sicurezza e ha presentato nei termini previsti un piano di adeguamento del Sistema di Gestione della Sicurezza (SGS), fornendo il proprio lavoro, già svolto in preparazione del nuovo regolamento, come riferimento per lo sviluppo degli adeguamenti degli SGS degli altri Gestori. Come previsto dal Regolamento comunitario, l’adeguamento dell’SGS di RFI dovrà essere completato entro dicembre 2021”.
Quindi per Ansf e Rfi le “inadempienze” sarebbero solo sulla carta e non riguarderebbero la sicurezza.
Una posizione differente da quella sostenuta dalla stessa Ansf a inizio 2018 (subito dopo la strage di Pioltello), quando l’Agenzia scrive a tutti i gestori ferroviari e li invita a mettersi in regola con le norme di sicurezza (le stesse analizzate nel report), pena il blocco dell’attività : “(…) le linee gestite da aziende che non avranno provveduto ad adeguarsi ai dettami in oggetto (…), l’agenzia si riserva di adottare provvedimenti ulteriormente restrittivi rispetto alle mitigazioni ad oggi adottate, fino ad avvenuto adeguamento”.
Evidentemente qualcuno ha cambiato idea.
(da “Business Insider”)
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Ottobre 22nd, 2019 Riccardo Fucile
CAMPANIA PRIMA REGIONE, SEGUONO SICILIA, LAZIO, PUGLIA
Fino all’8 ottobre scorso sono state circa 1,5 milioni le domande presentate per il Reddito di cittadinanza. Di queste, 982 mila sono state accolte, 126 mila sono in lavorazione e 415 mila respinte o cancellate. Sono i dati diffusi oggi dall’Inps nel relativo osservatorio.
In totale, scrive l’istituto di previdenza, sono 2,28 milioni le persone coinvolte nei nuclei che percepiscono Reddito o pensione di cittadinanza (di cui 1,47 milioni tra Sud e Isole), con un importo medio mensile pari a 482,36 euro.
Importo che varia in funzione delle componenti del beneficio: il più alto, 613 euro mensili, risulta quello percepito dai nuclei beneficiari del Reddito con a carico un mutuo; quello più basso, 212 euro, da chi ha una Pensione di cittadinanza (per gli over 67) con a carico un affitto.
Guardando invece alla tipologia di percettori, nel 90% dei casi il reddito di cittadinanza risulta erogato a cittadini italiani, nel 6% ad un cittadino extra-comunitario in possesso di un permesso di soggiorno, nel 3% ad un cittadino europeo ed infine nell’1% a familiari dei casi precedenti.
Le regioni del Sud e delle Isole, con 849 mila nuclei (56%), detengono il primato delle domande pervenute, seguite dalle regioni del Nord, con 425 mila nuclei (28%), e da quelle del Centro con 249 mila nuclei (16%).
La regione con il maggior numero di nuclei percettori di Reddito/Pensione di Cittadinanza è la Campania (19% delle prestazioni erogate), seguita dalla Sicilia (17%), dal Lazio e dalla Puglia (9%); nelle quattro regioni citate risiede il 54% dei nuclei beneficiari.
(da agenzie)
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