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PIAZZISTI D’ARABIA: RENZI & CARRAI SI SONO MOSSI COME FOSSERO INTERMEDIARI DI GRANDI AZIENDE ITALIANE (DA ATLANTIA A NEXI) PRESSO MAGNATI E GOVERNI STRANIERI, SU TUTTI GLI SCEICCHI

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

È QUANTO EMERGE DALLE 457 PAGINE DEL RAPPORTO DELLA GUARDIA DI FINANZA SU MARCO CARRAI INVIATO AL COPASIR… MATTEONZO VOLÒ NELLA PENISOLA ARABICA PRIMA DEL COVID, OFFRENDO “COLLABORAZIONI” E SUGGERENDO OCCASIONI…I CONTATTI CON DOHA PER CONTO DEI BENETTON: “CI SONO STATE POLEMICHE DOPO IL CROLLO DEL PONTE MORANDI. PROPONGO ALL’EMIRO UN AFFARE”

È un’inside story straordinaria sugli affari di Matteo Renzi all’estero quella che emerge dalle 457 pagine del rapporto della Guardia di Finanza su Marco Carrai inviato al Copasir, che il Fatto è in grado di pubblicare. Mail, messaggi, relazioni che raccontano come Renzi, subito dopo aver lasciato la carica di premier, si sia messo a fianco di Carrai per procacciare clienti per sé e per l’amico.
Un’attività vietata in molti parlamenti esteri, non in Italia, dove però il dossier apre enormi questioni di opportunità, e spiega perché per il Copasir abbia ritenuto che in quelle chat c’era materiale rilevante per la sicurezza nazionale. “Negli anni 2018 e 2019 i suoi rapporti con il senatore Renzi afferivano, al presumibile sviluppo di una loro attività d’affari, alla promozione di opportunità di investimento in primarie società italiane, che si desume essere stata svolta anche in occasione di viaggi all ’estero, soprattutto in Medio Oriente” scrive la Gdf.
Nell ’informativa Carrai sembra muoversi insieme all’amico Renzi come un intermediario di grandi aziende italiane presso magnati e governi stranieri: Atlantia e Autostrade per l’Italia (Aspi); Pirelli; il gruppo indiano Jsw Steel, che possiede le acciaierie di Piombino (di cui Carrai è vicepresidente); Novatek, gigante russo del gas guidato dall’oligarca Leonid Michelson; Nexi, la rete di pagamenti online più importante in Italia; il gruppo agroalimentare Veronesi (Aia e Negroni); Tages (big data). Carrai in alcuni casi sembra agire di concerto con la società di consulenza milanese Seven Capital Partners (“Marco (…) come sai è con noi a tutti gli effetti” dicono loro). Nelle comunicazioni spende il nome di Renzi, si presenta come suo “consigliere speciale” e propone incontri con l’ex premier.
I contatti tra Carrai e Alessandro Benetton (194 messaggi) risalgono almeno al 2016: “Vuole investire in Israele”, scrive Carrai, “sarebbe pronto a spendere 20 milioni in Cmc”, il gruppo di cybersecurity italo-israeliano di Carrai. Il 17 novembre 2018, due mesi dopo il crollo del Ponte Morandi, Carrai e Renzi si scambiano una mail che per la Finanza dimostra “il crescendo delle iniziative, consistenti principalmente nella promozione di opportunità di investimento”.
È una bozza firmata “Matteo”, che sembrerebbe dunque dover inviare Renzi: “Mio caro amico, come da accordi ti indico alcune ipotesi per l’incontro di martedì (…) Insieme a Carlo Cimbri (Ad di Unipol) verrà Marco Carrai, mio braccio destro. Marco ha già incontrato HH (His Highness, presumibilmente l’emiro del QatarAl-Thani, ndr) ad aprile e aveva preso l’impegno di portare proposte concrete. Marco avrà modo di accennare a HH e illustrare a tee al tuo staffil doppio deal di cui parlare a Doha: il gruppo Jindal (molto forte in Italia) e Nexi, oggi proprietà di Advent international”.
La stessa lettera parla poi dei “Benetton”: “In Italia ci sono molte polemiche dopo il crollo del ponte di Genova. Atlantia ha perso il presidente, Gilberto Benetton, un mese fa e Alessandro è il più smart della seconda generazione. Per il momento niente è ufficiale, ma può essere una prospettiva strategica”.
Tra il 2018 e il 2020 Renzi è tra i massimi contestatori del governo Conte, che vorrebbe revocare le concessioni ai Benetton. E il 20 novembre del 2018 Carrai scrive ai vertici del Qia (fondo sovrano qatariota), oggetto “Meetings with HH”: “Care eccellenze, è stato un piacere incontrarvi. Spero possa essere utile ricapitolare le opportunità che vi ho mostrato e i possibili passi successivi (…)Atlantia: affare possibile (joint venture, acquisizione, spin-off, ecc.) con Atlantia o Aspi. Prossimo passo: incontro a Doha con Alessandro Benetton (proprietario) e Marco Patuano (Ceo di Edizione, la holding di famiglia), o in alternativa a Milano, forse metà gennaio 2019. Capiamo che HH vorrebbe incontrare il sig.Benetton, membro di una delle più importanti famiglie in Italia”. Gli risponde Mansoor Ebrahim Al-Mahmoud, Ceo di Qia: “Grazie Marco. Sono d’accordo su tutti i temi e gli argomenti. Sono d’ac cordoper il prossimo passo. Chiederò alla squadra di studiare le opportunità”.
L’INCONTRO A DOHA
Il 2 gennaio del 2019 Carrai scrive a Hassan Sultan Al-Ghanim, segretario del vicepremier del Qatar. Si sono già incontrati il 29 dicembre a Katara (Doha): “Lasciami ringraziare per il tempo speso da te e HE (Her Eminence) (…) Questo tempo è ottimo per cogliere le opportunità italiane (…).Vorremmo formalizzare presto una collaborazione con voi, facendo certamente una valutazione economica della parte variabile di eventuali affari (…) Abbiamo tre opportunità immediatee deliziose, che concordano con le richieste espresse da HH l’Emiro e HE il Ministro e il Presidente (…) Nexi; Jindal e Corporacion America (…) Altre potrebbero essere studiate: Autostrade, Pirelli, Unipol, Veronesi, aziende sanitarie efarmaceutiche, modae alimentari (…)”.
La mail si conclude con un rimando a un incontro a Davos e all’“eventuale volontà di firmare un accordo per cominciare la nostra collaborazione”.
IL RINASCIMENTO SAUDITA
Nel giugno del 2019 Carrai ha una fitta corrispondenza con l’Arabia Saudita, Paese caro a Matteo Renzi per la sua attività di conferenziere alla corte di Mohamed Bin Salman. Carrai si presenta come “il consigliere speciale di Renzi” a Turqui Al-Nowaiser, ex governatore e capo della divisione internazionale del fondo di investimento statale saudita (Pif ).
“A tale contesto di affari – scrive la Finanza-può essere ricondottolo scambio del 24 novembre 2019, da cui si desume che Carrai inviava a Renzi una mail priva di testo, avente oggetto: “Pirelli opportunity- Draft 0.1 – 11.15.19.pdf ”,inoltratadaFarah Alam. Alam è un operativo del Pif e con Carrai si accorda per una call con Tronchetti Provera e giratutto aRenzi. Nel settembre del 2023 Pirelli e il Pif hanno annunciato una joint venture per costruire pneumatici in Arabia.
ROTTA SU BAKU
Poi Carrai prova anche a piazzare il pacchetto di “business opportunities” italiane anche in Azerbaijan, altro Paese in cui Renzi è solito tenere conferenze. Il 1 aprile 2019 scrive a Shahsmar Movsumov, assistente del presidente di Ilham Aliyev, ex militare e presidente della repubblica dell’Azerbajian ininterrottamente dal 2003.
Oggetto della mail: “Renzi”. Dopo la consueta presentazione di società italiane in cui investire, Carrai scrive: “Penso che il signor Renzi sarà di nuovo a Baku in occasione del Gran Premio di F1. Vorremmo incontrarvi quando vi comoda”. Movsmudov ringrazia e mette in copia Israfil Mammadov, Ceo del fondo petrolifero statale: “Sarà il suo contatto. La prego di concederci un po’ di tempo. Spero che riusciremo a trovare un’opportunità reciprocamente vantaggiosa in breve tempo”. Il monitoraggio della Finanza arriva fino all’or ganizzazione di una call fra gli azeri e Advent International – uno dei fondi azionisti di Nexi – società che ha pagato a Carrai laute consulenze.
(da Fatto Quotidiano)

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TRA MELONI E SALVINI È SCAZZO APERTO SULLE REGIONALI: LA LEGA TIENE IL PUNTO SULLA RICANDIDATURA DI SOLINAS IN SARDEGNA E MINACCIA DI CORRERE DA SOLA

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

“IO SONO GIORGIA” NON NE VUOLE SAPERE (SPALLEGGIATA DA TAJANI) E RILANCIA: C’È DA RIDISCUTERE ANCHE L’UMBRIA, ALTRA REGIONE CON UN GOVERNATORE USCENTE DEL CARROCCIO… E PER IL 2025 LA DUCETTA PUNTA AL BOCCONE GROSSO: IL VENETO, DA 15 ANNI IN MANO A ZAIA

«Sulla Sardegna non molliamo, il candidato è Christian Solinas». Matteo Salvini fino a ieri sera ai suoi ribadiva la linea in attesa del vertice con Giorgia Meloni e Antonio Tajani sulle amministrative di fine febbraio. Pronti anche ad andare da soli, insomma.
Sul versante opposto Fratelli d’Italia, attraverso veline, rispondeva che non solo per i meloniani il candidato in Sardegna è Paolo Truzzu, ma che da ridiscutere c’è anche l’Umbria: «Impensabile che su cinque Regioni al voto quest’anno due vadano di nuovo alla Lega (Sardegna e Umbria), due a FI (Basilicata e Piemonte) e solo una resterebbe a FdI (Marco Marsilio in Abruzzo) seguendo la logica della riconferma degli uscenti».
Meloni vuole ridiscutere tutto e punta dritto non solo sulla Sardegna ma anche sull’Umbria, entrambe con uscenti della Lega. Guardando però al 2025, quando ci sarà da rivedere il pezzo forte delle regioni a trazione destra: il Veneto da 15 anni in mano a Luca Zaia. «Anche qui, impensabile che il partito di maggioranza nel Paese non abbia un solo governatore nelle tre grandi regioni del Nord, adesso il Veneto ci spetta», dicono i meloniani.
Ecco spiegato perché l’impasse sulla Sardegna in realtà nasconde ben altro: «Perché se diciamo che gli uscenti, o comunque i partiti che li esprimono, non hanno voce in capitolo allora è un problema serissimo», dicono dal Carroccio.
In Veneto il sistema di potere della Lega, e di Zaia chiaramente, è in grande fibrillazione. Perché se le Europee di giugno certificheranno il sorpasso (qualcuno teme il doppiaggio) di FdI sulla Lega, un intero mondo di potere leghista rischia di franare. E con questo anche il futuro da leader della Lega di Matteo Salvini.
Oggi i sondaggi non sono buoni: alle ultime politiche la Lega ha ottenuto quasi il 15 per cento, superata da FdI e in questo scenario alcuni leghisti stanno già pensando di abbandonare la nave, come la calamita del voto Roberto Marcato, eletto con undicimila preferenze. E così Salvini promette un posto a Bruxelles non solo a Marcato ma anche all’assessora regionale Elena Donazzan.
Il Veneto sta diventando già adesso un bel grattacapo per il vicepremier. Salvini ha bisogno di Zaia (e dei suoi voti) in Veneto e per questo chiederà al tavolo nazionale sulle amministrative di non toccare al momento gli uscenti, sperando magari in aperture sul terzo mandato dei governatori nei prossimi mesi.
Aperture che Meloni ha dato nell’ultima conferenza stampa, salvo sottolineare che sarà un tema del Parlamento. Tradotto: se ci sono i numeri si fa, se no amen. E per Salvini sarebbe un bel problema, pensando sempre al Veneto.
(da agenzie)

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SGARBI E IL QUADRO RUBATO, STASERA A REPORT I BUCHI E LE “TOPPE” DELLA TELA TRAFUGATA

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

COINCIDONO CON QUELLA DEL SOTTOSEGRETARIO

Torna Report, domenica 7 gennaio, a partire dalle 20.55 su Rai3. E lo fa con l’inchiesta firmata insieme a il Fatto Quotidiano su Vittorio Sgarbi e il quadro di Rutilio Manetti trafugato.
Dopo l’inchiesta, andata in onda a metà dicembre, il noto politico e critico d’arte ha smentito categoricamente: “Il dipinto rubato e quello di mia proprietà sono due opere diverse”.
Ma Report e il Fatto sono entrati in possesso della scansione ad alta risoluzione del dipinto di Sgarbi, effettuata per conto del sottosegretario da un’azienda di Correggio (Reggio Emilia), la GLab.
E dall’analisi della scansione a 16k dell’opera emergerebbero prove difficilmente confutabili.
L’opera di Sgarbi, esposta a Lucca nel dicembre 2021 e quella trafugata – consegnata al restauratore Gianfranco Mingardi nel 2013 – sarebbero la stessa opera.
Non solo: anche un frammento ritrovato al castello di Buriasco, rimasto incastrato nella cornice dopo il furto, dimostrerebbe che il dipinto rubato e quello restaurato coincidono.
L’unica differenza visibile con l’opera rubata è una fiaccola in alto a sinistra, presente nell’opera di Sgarbi. La scansione, visionata da esperti di altissimo livello, dimostrerebbe che sarebbe stata aggiunta in un secondo momento, in quanto l’area è priva delle crepe tipiche di un dipinto vecchio.
Toccherà ora ai Carabinieri del Nucleo di Tutela, che da settimane indagano sulla vicenda, trovare e visionare l’opera per chiarire in modo inconfutabile se un sottosegretario alla Cultura abbia o meno nella sua collezione un’opera d’arte rubata.
(da agenzie)

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LA LOTTA ALLE DISEGUAGLIANZE E’ UNA PRIORITA’, IL MERITO E’ VITTIMA DI FINANZA E RENDITE

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

L’1% PIU’ FACOLTOSO DELLA POPOLAZIONE MONDIALE SI E’ APPROPRIATO DI DUE TERZI DELLA RICCHEZZA

Un anno fa l’organizzazione non profit Oxfam titolò il suo rapporto annuale sulle disuguaglianze economiche nel mondo “La sopravvivenza dei ricchi”. Esso infatti segnalava come, in un periodo caratterizzato da un susseguirsi e accavallarsi di crisi e incertezze forse senza precedenti, che provocavano un netto peggioramento nelle condizioni di vita di milioni di persone nel mondo, i più ricchi avevano aumentato la loro ricchezza e i profitti delle corporazioni avevano raggiunto livelli da record, con conseguente esplosione delle disuguaglianze a livello mondiale, tra Paesi e all’interno di ciascun Paese. In particolare, l’1% più ricco della popolazione mondiale si era appropriato di quasi due terzi di tutta la nuova ricchezza, per quasi il doppio del valore andato invece al 99% del resto della popolazione. In compenso, solo il 4% delle imposte deriva dalla tassazione della ricchezza e la metà dei miliardari ha la propria residenza in Paesi in cui l’eredità non è tassata.
In attesa del nuovo rapporto Oxfam, dati dell’Osservatorio JobPricing commentati ieri su questo giornale da Marianna Filandri suggeriscono che il lungo trend nell’aumento delle disuguaglianze documentato da Oxfam negli ultimi anni, sta proseguendo. Come hanno argomentato ormai da diversi anni molti studiosi – da Atkinson a Picketty, da Mazzuccato a Franzini, Granaglia, Raitano, per fare solo alcuni nomi – i meccanismi che sottostanno a questo fenomeno non sono solo e neppure prevalentemente quelli alla base delle disuguaglianze cento anni fa, ovvero l’origine sociale e il capitale ereditato.
Il reddito da lavoro è oggi centrale nella produzione della ricchezza. È un dato positivo, nella misura in cui lega la ricchezza all’impegno e alle capacità individuali. Ma, mentre la possibilità di sviluppare le proprie capacità e farle riconoscere continua, specie in Italia, ad essere in larga misura dipendente dall’origine sociale e da ciò che questa permette di acquisire in termini di istruzione, capitale umano e sociale, trasformazioni nel sistema economico e modalità di accesso e remunerazione delle posizioni apicali hanno trasformato queste ultime, in molti casi, in vere posizioni di rendita. Si è privilegiato in modo sproporzionato il profitto e la rendita rispetto al lavoro.
Segmenti strategici del tessuto produttivo si sono concentrati in poche mani: i nuovi settori tecnologici sono stati protetti dalle prolungate tutele previste nelle norme sui brevetti. Molti governi hanno accettato la pressione delle grandi compagnie ad abbassare le tasse, arrivando a competere tra loro in operazioni di fiscal dumping. Molte aziende sono state acquisite da società finanziarie, poco interessate alla produzione in quanto tale, bensì ai vantaggi finanziari che possono derivare da scorporamenti e dismissioni. I settori della vecchia economia in concorrenza con le produzioni dei Paesi di nuova industrializzazione sono stati favoriti dalle politiche dell’offerta, ottenendo la flessibilità al ribasso nelle retribuzioni e negli oneri per il finanziamento della protezione sociale della forza lavoro meno qualificata.
In questo contesto, come ricordava ieri Filandri, si è sviluppato per i top manager un sistema retributivo basato sui profitti riservati ai (grandi) azionisti, non sui risultati in termini di qualità e competitività del prodotto. Un sistema che protegge persino dall’insuccesso, con buonuscite molto generose, e che difende i propri privilegi controllando strettamente chi può entrare nella cerchia dei fortunati e muoversi con disinvoltura da una posizione all’altra, sia nel privato sia nel pubblico e tra l’uno e l’altro. Meccanismi in cui il merito, quando c’è, conta solo in piccola parte e certo non abbastanza per giustificare sia l’enorme sproporzione tra i redditi dei grandi dirigenti e quelli dei lavoratori medi, sia la generosa protezione in caso di allontanamento, protezione anch’essa lontana anni luce di quella concessa a chi non fa parte di questa élite, tanto più se povero, la cui meritevolezza è invece puntigliosamente verificata. Anche per questo le posizioni apicali nelle grandi imprese private o partecipate, nelle banche e nelle fondazioni sono diventate oggetto di contesa e scambio politici.
A fronte di queste disuguaglianze inaccettabili opporsi all’introduzione di un salario minimo decente legale appare quanto meno arrogante. Ma occorre avere il coraggio di provare a contrastare i meccanismi che producono le disuguaglianze denunciate da Oxfam e dall’Osservatorio JobPricing. Le proposte non mancano, dall’introduzione di un’imposta del 5% su tutte le grandi ricchezze a livello mondiale, a una ragionevole tassazione dell’eredità, al contenimento dei compensi diretti e indiretti dei grandi manager, alla rottura di posizioni monopolistiche. Molte di queste proposte hanno senso e possibile efficacia solo se basate su un consenso e un’azione a livello internazionale. Esse sono state al centro di molte iniziative della campagna per le ultime elezioni europee da parte delle forze progressiste, che avevano proprio nel contrasto alle disuguaglianze uno dei punti principali della propria agenda. Quale sia l’agenda di queste forze per le prossime elezioni e il futuro dell’Unione ancora non è dato sapere.
(da La Stampa)

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BALNEARI, PIU’ CONCESSIONI PER CONVINCERE L’UE, IL GOVERNO VUOLE FARE SPARIRE PURE LE SPIAGGE LIBERE

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

DIFFICILE L’OK EUROPEO A GARE CON INDENNIZZI AI VECCHI TITOLARI

Aumentare il numero di spiagge in concessione e rimettere in gara anche quelle già in gestione, garantendo però una corsia preferenziale e delle possibili forme di compensazione dei costi affrontati per gli investimenti agli attuali titolari.
Sono queste le direttrici sulle quali il governo intende muoversi nella trattativa con la Commissione Europea, che chiede con forza che venga finalmente applicata la direttiva Bolkestein nella regolamentazione dei litorali italiani.
Ma sono due strade impervie: nel primo caso si ridurranno ancora di più le già risicate spiagge libere, e si permetterà di cementificare ulteriormente le coste. E nel secondo appare estremamente difficile ottenere il nulla osta da Bruxelles: significherebbe garantire ulteriori privilegi agli attuali gestori, in barba alla Bolkestein e a tutto l’impianto normativo Ue sulla libera concorrenza.
Nelle parole di giovedì della premier Giorgia Meloni le associazioni di categoria dei balneari hanno visto la conferma che il governo difenderà a Bruxelles la tesi della mancanza del requisito della “scarsità” per le spiagge italiane, nonostante la “mappatura” inviata lo scorso novembre sia stata criticata a fondo dalla Commissione Ue: «Il presidente del Consiglio conosce molto bene la materia, ed ha ben chiaro il percorso da intraprendere. – assicura Fabrizio Licordari, presidente di Assobalneari – La Bolkestein deve essere applicata correttamente, e quindi, dal momento che la mappatura dimostra che le spiagge non sono una risorsa scarsa, è l’art.11 la norma giusta, non il 12. Speriamo che sia Meloni a guidare la delegazione italiana, abbiamo piena fiducia nelle sue capacità». «Ciò che serve è la corretta applicazione del diritto europeo – ribadisce Antonio Capacchione, presidente del Sib (sindacato balneari) – e della libera concorrenza, che non si tutela però sostituendo gli attuali gestori, ma aumentando le aziende in concessione. La direttiva Bolkestein impone l’aumento della concorrenza, non la sostituzione dei titolari».
Più concessioni significa meno spiagge libere. Sulla base della mappatura messa a punto dal governo i margini ci sarebbero: sarebbe stato dato in concessione solo il 33% del litorale. Ma i dati, che non hanno convinto Bruxelles, convinconto ancora meno gli ambientalisti: «Intanto a quella mappatura mancano almeno due gambe – ricorda Sebastiano Venneri, responsabile turismo di Legambiente – e cioè le associazioni dei consumatori e quelle ambientaliste, e i Comuni: intorno al tavolo c’erano solo il governo e le associazioni di categoria. E poi è una mappatura quantomeno bizzarra, che includendo anche tratti inquinati e aree protette porta a 11 mila chilometri le coste italaine, che notoriamente non superano gli 8 mila». Ma il nodo è soprattutto un altro: «La mappatura non può essere nazionale, ma comunale, perché io non posso dire al bagnante della Versilia, che non ha più neanche una spiaggia libera – sottolinea Venneri – che in Sardegna ci sono tante spiagge libere, e neanche che c’è posto nel Grossetano».
A regolare il bilanciamento tra spiaggia libera e privata norme regionali molto diverse tra di loro: «In Puglia siamo fortunati, la legge Minervini stabilisce che il 60% della costa utile di ogni Comune deve essere di libera fruizione, solo il 40% può essere dato in concessione. -ricorda il sindaco di Lecce Carlo Salvemini, che sta pubblicando alcuni bandi per nuove spiagge attrezzate – Ma ci sono Regioni nelle quali più del 70% delle spiagge sono in concessione, e Comuni nei quali la percentuale sale a più del 90%».
«Sul litorale romano si è arrivati a un’occupazione delle spiagge in concessione dell’85%. – conferma il deputato di Avs e coportavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli – In molte aree ormai non si vede più il lungomare, c’è solo il lungomuro. Fermeremo l’assalto di questo governo a quelle poche spiagge libere ancora rimaste. Non passerà mai: inonderemo i tribunali amministrativi di ricorsi».
(da La Repubblica)

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IL POLITOLOGO REVELLI: “MELONI NON E’ AFFATTO MIGLIORE DEL CIRCO CHE HA PORTATO AL GOVERNO”

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

“LA RIMOZIONE DI FAMILISMO E COMPLOTTISMO E’ INFANTILE, SONO NEL DNA”

Marco Revelli, per Giorgia Meloni la questione morale non esiste. Sostiene che nessuno si scandalizzi quando inchieste e imbarazzi colpiscono la sinistra. È vero?
È una delle tante bugie che ha seminato nella conferenza stampa dell’altro giorno. Non è affatto vero che la questione morale non sia stata affrontata e denunciata quando ha riguardato figure di sinistra. Ma ci sono due domande, due considerazioni preliminari che vorrei anteporre alle altre. La prima: sono accettabili una classe di governo e una presidente del Consiglio con queste caratteristiche, con questo livello, con questo stile? L’altra riguarda i presunti custodi delle virtù pubbliche: è ammissibile una categoria di giornalisti così reticenti e pavidi di fronte a un potere che usa una comunicazione tanto aggressiva e manipolatoria?
Obiezioni accolte.
Meloni ha portato al governo un circo Barnum di cui lei stessa teme i comportamenti, perché è caratterizzato dai vizi atavici di questa destra a lungo confinata in una nicchia, che di colpo si è trovata sbalzata al governo. Non c’è una differenza qualitativa tra lei e il cerchio che la attornia: sono fatti della stessa materia, vengono dalla stessa storia. Quando parla, Meloni ha la dialettica di un segretario di sezione di Colle Oppio, non di un presidente del Consiglio.
Pare invece si sia preparata a lungo per la conferenza stampa di fine anno.
Non ne dubito, leggo che ha fatto un dressage per impedire che la natura aggressiva e l’insofferenza alle critiche emergessero anche questa volta. Nonostante questo, era eloquente il suo linguaggio del corpo, la sua fisiognomica e le espressioni. Su Meloni si sente spesso dire che lei è brava, ma penalizzata da un personale umano e politico di basso livello. È tipico dell’atteggiamento servile scaricare la responsabilità dei capi sui gregari
In effetti, l’unico gettato in pasto alla stampa da Meloni è stato il gregario Pozzolo.§
Uno che va armato a una festa di Capodanno – che finisce con un commensale ferito da un proiettile della sua pistola – è indifendibile per definizione. Ma questo Pozzolo non è una pecora nera, anzi rappresenta un sentire piuttosto diffuso in quella combriccola: c’è anche chi ha proposto di insegnare a sparare nelle scuole. Il fascino delle armi è un altro elemento tipico della destra radicale, di una cultura intrisa di prevaricazione e violenza. Ma tutto è passato in sordina. I giornalisti le hanno fatto domande cortesi, qualcuna considerata persino scomoda, per quanto inevitabile e necessaria. Nessuno ha incalzato Meloni quando si è rifugiata nel complottismo: è inaccettabile che un capo del governo affermi di temere complotti senza dire da parte di chi.
Ha ripetuto più volte “non sono ricattabile” e non ha aggiunto altro. A chi era indirizzato il messaggio, alla magistratura?
Il complottismo è una costruzione retorica che fa parte di quella cultura radicale, antistorica, che è stato il neofascismo italiano. Un misto di cattivismo e vittimismo: spietati nei confronti del nemico di turno – le figure più fragili, come i percettori di reddito di cittadinanza, i migranti, le minoranze etniche – ma vittime dei poteri occulti. Ma in passato i poteri occulti hanno sostenuto il radicalismo di destra: se complotti ci sono stati, erano legati alla strategia della tensione.
L’altra grande rimozione è sul familismo. Meloni ha risposto citando le coppie di parlamentari di sinistra.
In entrambi i casi – questione morale e familismo – ha dato una risposta da asilo infantile. Invece avrebbe dovuto rispondere nel merito, perché le è stato contestato un fatto indiscutibile, il ricorso a un cerchio magico ristretto ai rapporti parentali. Il familismo è legato a un’assoluta mancanza di fiducia in chiunque non abbia lo stesso sangue, lo stesso vincolo di fedeltà, tipico di chi non ha costruito una classe politica ma ha una micro comunità militante.
Malgrado questo FdI è largamente in testa ai sondaggi. Come lo spiega?
Per Gobetti il fascismo era l’autobiografia della nazione. L’Italia è un paese con scarsa cultura politica, fragile, esposto al rischio del culto del capo. Come dice il Censis: gli italiani sono un popolo di sonnambuli; nella notte che stiamo attraversando non vediamo le responsabilità di chi produce il nostro malessere. Poi c’è l’altro dramma: la catastrofica fragilità delle alternative. Dall’inizio del secolo l’attuale opposizione ha lavorato sempre alla propria rovina, allo svuotamento delle proprie ragioni. Il Pd ha avuto la dimensione onirica veltroniana – l’idea senza alcun fondamento di costruire un bipolarismo tra Pdl e Pd – e poi si è dato anima e corpo a una figura come Matteo Renzi. Questi vizi restano impressi nell’immaginario collettivo. Non bastano le parole per rimediare, occorrerebbero fatti che incidono nel sociale: il salario minimo è uno di quelli. Oppure il reddito di cittadinanza, che andava difeso con maggiore convinzione.
(da agenzie)

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LE EUROPEE SECONDO TAJANI: “RISCHIOSO CANDIDARE I LEADER”

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

“LE PEN? IMPOSSIBILE FARE ACCORDI CON CHI E’ ANTI-UE”

«Meloni è leader dei Conservatori, Forza Italia invece è nel Partito popolare europeo e per noi è impossibile fare accordi con chi ha uno statuto di forte impronta anti-Ue e anti-Nato».
Così, in un’intervista a La Stampa, il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, mette lo stop all’ipotesi di un’alleanza in Europa con Marine Le Pen.
Sulla possibilità che la premier Giorgia Meloni si candidi alle Europee, aggiunge: «Se deve esserci un accordo tra i leader del centrodestra, come chiede Meloni, questo vuol dire che o ci candidiamo tutti o non si candida nessuno. Se si candidano nello stesso momento la premier e i due vicepremier, credo ci sia il rischio che si perdano di vista le priorità del governo. E inoltre: io mi sono candidato cinque volte in Europa, non mi spaventa questo appuntamento elettorale, ma c’è prima il Congresso di Forza Italia da affrontare, e devo farlo con responsabilità».
«In Europa non possiamo avere due presidenti»
Secondo Forza Italia, di cui è alla guida, «la prima vera riforma da fare è quella che preveda una Difesa europea» per una Ue «pronta al peacekeeping, al monitoraggio, alla deterrenza. Capace di fare sintesi di ragionamenti e interessi anche divergenti, ma impegnata a unire le forze rapidamente e in maniera concreta». Inoltre, per Tajani, nell’Unione europea «non possiamo avere due presidenti, della Commissione e del Consiglio, Immagino quali sarebbero le resistenze, ma questa struttura attuale, bicefala, ha fatto il suo tempo. Molti sono d’accordo».
(da agenzie)

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POZZOLO REPLICA A FINI CHE LO AVEVA DEFINITO “BALENGO”: “NON ACCETTO LEZIONI DA CHI HA SVENDUTO LA DESTRA ITALIANA”

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

MA ALLORA PERCHE’ POZZOLO ERA ENTRATO IN AN? LE CRITICHE POTEVA FARLE PRIMA, NON DOPO CHE ERA STATO ALLONTANATO

“I giudizi negativi espressi su di me da Gianfranco Fini? Medaglie che appunto al petto. Da quello che ha svenduto e calpestato dignità politica e umana della destra italiana non accetto lezioni. Un leader che ha tradito senza vergogna la sua comunità politica merita solo di continuare a stare ibernato nel suo oblio…”.
Così all’Adnkronos Emanuele Pozzolo, il deputato di Fratelli d’Italia finito nei guai per il colpo partito dalla sua pistola la notte di Capodanno.
Cosa ha detto Fini
“Quando ero presidente di An lo allontanammo, senza nemmeno espellerlo, dalla federazione di Vercelli perché era un violento estremista verbale. Il suo caso non finì sulla mia scrivania, ma se ne occupò Donato Lamorte, capo della mia segreteria politica. Capimmo che era un balengo, come si dice in Piemonte, e lo accompagnammo alla porta: via, andare”, ha raccontato Gianfranco Fini, in un’intervista a Il Foglio.
(da agenzie)

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DUE TESTIMONI GIURANO CHE È STATO POZZOLO A FAR PARTIRE IL COLPO DI PISTOLA CHE HA FERITO LUCA CAMPANA

Gennaio 7th, 2024 Riccardo Fucile

SECONDO ALCUNI PRESENTI, POZZOLO È ARRIVATO ALLA SERATA “UN PO’ SU DI GIRI, PIUTTOSTO BRILLO”

Ci sono due testimoni che forniscono una ricostruzione precisa e concordante su quanto accaduto la notte di Capodanno nel casolare di Rosazza, in provincia di Biella, alla festa organizzata dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro.
Entrambi smentiscono la versione fornita pubblicamente e al suo partito da Emanuele Pozzolo, il deputato di Fratelli d’Italia proprietario della pistola North american arms calibro 22 da cui è partito il colpo che ha ferito a una gamba Luca Campana, 31 anni. Entrambi giurano: «È stato lui a sparare».
Agli atti dell’inchiesta avviata dalla Procura di Biella c’è una relazione che dà conto di quanto verificato dai carabinieri attraverso i rilievi effettuati nel casolare — che è la sede della Pro loco — ma soprattutto l’incrocio dei verbali di chi era presente e di chi era proprio accanto a Pozzolo quando è stato fatto fuoco.
La loro identità viene al momento tenuta riservata ma è già stato escluso che possano essersi messi d’accordo anche perché hanno ruoli diversi e sono stati comunque ascoltati poco dopo il fatto. Pozzolo è indagato per lesioni colpose aggravate, accensioni pericolose, omessa custodia di armi, ed è stato sospeso dal partito.
Ma è fin troppo chiaro che le due testimonianze potrebbero appesantire sia la sua posizione processuale, sia il giudizio dei probiviri fino a determinarne l’espulsione visto che finora ha provato a scaricare la responsabilità su altri.
Famiglie con bambini
Sono Delmastro e sua sorella Francesca — che di Rosazza è il sindaco — a organizzare la festa. Oltre ai loro familiari ci sono gli agenti della scorta del sottosegretario con le famiglie, un altro amico con la moglie, diversi bambini. In tutto circa 35 persone. Dopo il brindisi di mezzanotte si decide di rimanere ancora un po’. E proprio in quei minuti arriva Pozzolo. Qualcuno dice che avesse chiesto a Delmastro di partecipare anche alla cena ma che gli sia stato risposto che era già tutto organizzato tra quei nuclei. Lui comunque decide di presentarsi dopo la mezzanotte per brindare con il sottosegretario che è sempre stato il suo referente nel partito.
Arriva da solo, alcuni presenti diranno ai carabinieri di aver notato «che era un po’ su di giri, piuttosto brillo». Poco dopo l’una ci si comincia a preparare per andare via. La prima a lasciare la festa è la sindaca, altri mettono in ordine per portare via le cose. Delmastro va verso la macchina, a circa 200 metri, per caricare alcune borse.
Il colpo di pistola
Pozzolo rimane nella sala, alcuni invitati gli sono accanto. Parte il colpo di pistola. Si guardano tutti attoniti, spaventati. È Campana — che si trova poco distante — ad avere la peggio. Sente un dolore alla gamba. «Pensavo fosse un proiettile finto, sono andato nell’altra stanza per controllare e ho visto il buco. A quel punto mi sono spaventato e ho pensato al peggio», racconterà dopo. Intanto nella sala è rientrato Delmastro.
Il giovane viene adagiato sul tavolo, la suocera cerca di tamponare la ferita ma la situazione appare grave e si decide di chiamare l’ambulanza. Poi arrivano i carabinieri. Come in ogni indagine i primi momenti sono decisivi per ricostruire l’accaduto. È chiaro sin da subito che la pistola è di Pozzolo, lui lo conferma. Nega invece di aver sparato.
Quando gli chiedono di sottoporsi allo stub prende tempo, rifiuta anche di farsi esaminare i vestiti. «Non posso tornare a casa nudo», afferma. Si tratta di un parlamentare, c’è una procedura da rispettare per gli atti che riguardano le perquisizioni personali e lui evidentemente la sfrutta.
«Se mi date modo di cambiarmi poi posso farvi avere i vestiti», dice. Ed effettivamente si ripresenta in caserma soltanto alle 7 dell’1 gennaio per sottoporsi allo stub e far esaminare gli indumenti. La perizia viene affidata al Ris di Parma, tra i quesiti c’è anche l’attendibilità degli esami effettuati a distanza di oltre sei ore dallo sparo. Si accerta che ha un regolare porto d’armi e possiede sei tra pistole e fucili.
La versione di Pozzolo
Mentre sono in corso gli accertamenti, vengono informati i vertici del partito. Delmastro avvisa il responsabile di FdI Giovanni Donzelli, il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. Tocca a loro spiegare a Giorgia Meloni che cosa è accaduto. Soprattutto riportare la versione fornita da Pozzolo.
E su questo il parlamentare — già noto alle cronache per le proprie posizioni no vax, per l’elogio di Benito Mussolini «che era uno statista, non un criminale, uno dei migliori che l’Europa abbia avuto», per il meme in occasione della festa delle donne «Auguri a tutte le femmine – Smile to survive» (sorridi per sopravvivere, ndr ), con la foto di un’auto uscita di strada e la scritta «8 Marzo Fiesta delle donne» e per aver spiegato a Barack Obama dopo una strage in Oregon del 2015 che «nessuna pistola spara da sola» — è granitico.
Lo dice e lo ribadisce più volte: «Non sono stato io a sparare. È la verità. Sono dispiaciuto per quello che è successo, ho fatto una leggerezza e ne pagherò le conseguenze, ma la verità è una sola ed è che non ho sparato io». Si sparge la voce che possa aver accusato Campana di aver preso lui l’arma e di essersi ferito ma è il suo avvocato Andrea Corsaro, sindaco di Vercelli per Forza Italia, a smentirlo con una nota ufficiale
Le versioni
Non sa Pozzolo che agli atti dell’indagine ci sono verbali che lo smentiscono in maniera netta. Sono tre le persone che raccontano di averlo visto tirare fuori la pistola e mostrarla. Il primo spiega di essere uscito dalla sala poco prima dello sparo. Gli altri due erano invece lì vicino, hanno assistito alla scena e non hanno avuto esitazioni nel descriverla. «Quando è partito il colpo l’arma era in mano a Pozzolo, è stato lui a sparare»
Nessuno afferma che sia stato un gesto volontario, anzi. Tutti parlano di un incidente, di uno sparo involontario. Ma non hanno esitazione nell’indicare l’autore del gesto. Così come del resto non l’ha avuta Campana che dopo averci riflettuto tre giorni «perché io sono un operaio e lui un onorevole», ha deciso di presentare formale denuncia contro Pozzolo specificando che era stato proprio lui a ferirlo. Agli atti ci sono già le conferme a queste sue affermazioni. E adesso toccherà a Pozzolo chiarire ai pm e al partito perché lo abbia negato.
(da Il Corriere della Sera)

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