Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
“DISGUSTATA DAL MASSACRO IN CORSO A GAZA”… “PUTIN, UN NUOVO HITLER”
«Temo di aver vissuto invano». A dirlo è Liliana Segre, testimone e
sopravvissuta ad Auschwitz, in una lunga intervista al New York Times. «Perché ho sofferto per 30 anni a condividere fatti intimi della mia famiglia, del mio dolore, della mia disperazione. Per chi? Perché?», incalza con amarezza la senatrice a vita parlando del ritorno preoccupante dell’antisemitismo, provocato anche dalla guerra in corso a Gaza tra Israele e Hamas.
Così le preoccupazioni di Segre, già manifestate a più riprese in altre occasioni, finiscono ora anche sulla stampa internazionale.
Intervistata dal corrispondente del quotidiano americano Jason Horowitz nella sua casa a Milano, ha raccontato la sua storia e il lavoro educativo che da decenni porta avanti tra i banchi di scuola italiani, a partire dalla sua testimonianza di quando da piccola venne espulsa da scuola a causa delle leggi razziali di Benito Mussolini.
«Inorridita anche da quanto succede in Russia e in Europa»
Dal tentativo di fuggire dall’Italia alla deportazione dalla stazione ferroviaria di Milano, fino ai campi di sterminio di Auschwitz: il racconto di Segre attraversa tutti i crimini della Shoah vissuti sulla propria pelle. E a fronte di quanto sta accadendo nel mondo e del clima generale di odio, si chiede se non sia stato tutto fiato sprecato. Il massacro in corso a Gaza la lascia «disgustata» e la guerra in Ucraina la interroga, soprattutto in riferimento al presidente russo Vladimir Putin: «Chi è questo, un altro Hitler?».
A nausearla è, infine, anche il vento che soffia sempre più a destre in Europa, con «l’ascesa dell’estrema destra in Francia e Germania».
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
UN ANARCHICO? NO, UN CARABINIERE
«Cos’ha detto Mattarella?», domanda una voce gentile di donna, con il tono di chi sa benissimo cos’ha detto, ma vorrebbe sentirselo ripetere dall’interlocutore.
«Con tutto il rispetto, signora, lui non è il mio Presidente», risponde una voce d’uomo altrettanto cortese.
La signora sembra sorpresa: «Di che Paese è lei?». E lui, lapidario: «Non l’ho votato, non l’ho scelto io, non lo riconosco».
Se, basandosi solo sull’audio, mi avessero sfidato a tracciare l’identikit dei due protagonisti di questo breve dialogo avvenuto durante la manifestazione milanese a favore della Palestina di sabato scorso, non avrei avuto il minimo dubbio: la signora che fa riferimento a Mattarella sarà una borghese benpensante, se non addirittura una rappresentante delle istituzioni.
Mentre l’uomo che prende le distanze dal Presidente, contestandone la legittimità a parlare in suo nome, è con tutta evidenza un anarchico o un sovranista, comunque una persona allergica allo Stato e all’autorità.
Guardando le immagini, si scopre invece che la donna che sventola l’icona di Mattarella è una manifestante novantacinquenne di estrema sinistra e il signore che si rifiuta di riconoscerlo come Presidente un carabiniere in servizio.
I cultori del «mondo al contrario», per dirla alla Vannacci, ne dedurranno che Mattarella sia il capo degli insorti e che abbia appena compiuto un golpe con l’appoggio determinante della signora di novantacinque anni, mentre l’eroico carabiniere guida la resistenza.
(da corriere.it)
argomento: Politica | Commenta »
Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
SE FACESSE IL MINISTRO INVECE DEL DEMAGOGO
I genovesi sono avari, i russi bevono troppo, gli africani hanno il ritmo
nel sangue, i francesi sono presuntuosi. Piccolo breve elenco di luoghi comuni (tra i tanti) buoni per le barzellette, ma inutilizzabili fuori dalle barzellette: per la semplice ragione che esistono genovesi prodighi, russi astemi, africani goffi, francesi umili.
E non si pecca, né si spicca, per categorie. Lo si fa persona per persona e ognuno a modo suo.
Purtroppo non è per raccontare una barzelletta che il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida ha aggiunto, al ridicolo elenco dei luoghi comuni, questo: i giornalisti bevono champagne nei salotti e non conoscono l’odore del letame.
Ho un poco perso i contatti con il mio ambiente di provenienza (frequento più contadini che giornalisti), ma sento di poter dire che l’idea che il signor ministro ha dei giornalisti, e del giornalismo, è fuori dal mondo.
Per prima cosa: ci sono giornalisti di ultima generazione che guadagnano meno dei contadini. Cinque o dieci euro a pezzo. E se non bloccano le autostrade con i trattori, è perché un trattore, per loro, costa troppo.
Per seconda cosa: l’odore del letame (che è odore della vita e con il quale, personalmente, ho familiarità quotidiana) non circola da decenni non solo nelle redazioni dei giornali, ma nei ministeri, nelle sedi di partito e nei palazzi di ogni ordine e grado.
La questione agricola, e la filiera del cibo, sono al centesimo posto in ogni agenda di potere. I pochi che lo fanno presente, inutilmente, da molti anni – giornalisti, intellettuali e politici – sono una ristretta minoranza in ciascuna delle rispettive categorie.
Lollobrigida, che fa politica, si occupi delle sue competenze e litighi con i suoi colleghi. Non faccia il demagogo, faccia il ministro.
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
MELONI PROMETTE STANZIAMENTO DI 5,5 MILIARDI CHE PERO’ PROVENGONO DA FONDI GIA’ ESISTENTI
Il 29 gennaio si è tenuto al Senato il vertice “Italia-Africa”, organizzato dal governo Meloni per rafforzare la cooperazione tra il nostro Paese e oltre 40 Paesi africani. Nel suo discorso di apertura la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rilanciato il “Piano Mattei per l’Africa”, presentato come «un piano concreto di interventi strategici, concentrato su poche, fondamentali, priorità di medio e lungo periodo». Le priorità di intervento presentate durante il vertice – su cui, come vedremo, mancano ancora molti dettagli concreti – sono l’istruzione e la formazione, la salute, l’agricoltura, l’acqua e l’energia.
Meloni ha detto anche su quante risorse potrà contare il “Piano Mattei” (che prende il nome dall’imprenditore Enrico Mattei), mostrando che il governo non è riuscito a recuperare soldi aggiuntivi rispetto a quelli già a disposizione. Il piano, ha dichiarato la presidente del Consiglio, «può contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, dei quali circa 3 miliardi verranno destinati dal Fondo italiano per il clima, e circa due miliardi e mezzo dalle risorse della cooperazione allo sviluppo».
Il Fondo italiano per il clima è stato istituito alla fine del 2021 dalla legge di Bilancio per il 2022, durante il governo tecnico di Mario Draghi, supportato da tutti i principali partiti in Parlamento, eccetto Fratelli d’Italia. Con questo fondo l’Italia contribuisce agli impegni presi nel 2015 a livello internazionale per finanziare i progetti di adattamento e contrasto ai cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo. Per questo obiettivo sono stati stanziati 840 milioni di euro per ogni anno dal 2022 al 2026 e 40 milioni di euro dal 2027 in poi. In totale stiamo parlando di almeno 4,2 miliardi di euro, che possono essere concessi ai Paesi e alle imprese beneficiarie sotto forma di prestiti o garanzie. Il fondo è infatti “rotativo”: è sostenuto da risorse pubbliche, ma si autofinanzia quando le imprese restituiscono i prestiti di cui hanno beneficiato.
Il Fondo italiano per il clima è gestito da Cassa Depositi e Prestiti, una società il cui azionista di maggioranza è il Ministero dell’Economia e delle Finanze, sotto la guida di due comitati interministeriali: il Comitato di indirizzo, che si è insediato a luglio 2023, stabilisce la strategia di investimento del fondo, mentre il Comitato direttivo approva il finanziamento delle singole operazioni.
Le intenzioni del governo sono ancora poco chiare. Meloni ha parlato di circa 3 miliardi di euro provenienti dal Fondo italiano per il clima, una cifra pari a oltre il 70 per cento delle risorse a disposizione. Tra le altre cose, il governo deve spiegare se vuole inserire dentro al “Piano Mattei” progetti che sarebbero comunque stati finanziati con il Fondo italiano per il clima oppure se vuole spostare le risorse a disposizione del fondo su voci di spesa alternative. In questo secondo caso si pone il problema di come rifinanziare eventualmente il fondo che, ricordiamo, è nato per rispettare gli accordi sul clima presi a livello internazionale. Su questo punto in passato l’Italia non ha sempre rispettato la parola data. Come spiega un dossier del Parlamento, «le risorse effettivamente messe a disposizione dall’Italia nel periodo 2015-2018 si sono attestate su valori inferiori rispetto agli impegni assunti, risultando mediamente pari a circa 500 milioni di dollari all’anno».
Durante l’introduzione alla conferenza stampa finale del vertice “Italia-Africa”, Meloni ha elencato una serie di progetti che il governo vuole sostenere in alcuni Paesi africani. Tra questi ci sono lo sviluppo della filiera dei biocarburanti in Etiopia, il potenziamento delle stazioni di depurazione delle acque in Tunisia e la costruzione in Congo di pozzi e reti di distribuzione dell’acqua a fini agricoli.
La cooperazione allo sviluppo è la seconda voce di spesa da cui il governo vuole attingere risorse da destinare al “Piano Mattei”. La presidente del Consiglio ha detto che saranno recuperati «circa due miliardi e mezzo» dagli stanziamenti già previsti, oggi suddivisi tra vari ministeri. La cosiddetta “cooperazione allo sviluppo” raccoglie infatti una serie di iniziative tra i Paesi più sviluppati del mondo per combattere la povertà, tutelare i diritti umani e prevenire e risolvere i conflitti nei Paesi più poveri. Tra le iniziative della cooperazione allo sviluppo, ci sono per esempio la partecipazione ai programmi di cooperazione dell’Unione europea o interventi diretti in aree di emergenza umanitaria.
Secondo le stime di Openpolis, una fondazione che promuove più trasparenza nella politica italiana, la legge di Bilancio per il 2024 ha stanziato per quest’anno 6,5 miliardi di euro destinati alla cooperazione allo sviluppo. Oltre 400 milioni di euro finanzieranno progetti infrastrutturali in Libia, mentre un’altra parte delle risorse può essere usata per l’accoglienza dei migranti in Italia, dunque non per interventi nei Paesi africani. In cooperazione allo sviluppo l’Italia spende meno di quanto dovrebbe in base agli impegni presi a livello internazionale, anche se negli anni i soldi destinati a questa voce di spesa sono aumentati.
L’unico provvedimento concreto che il governo Meloni ha preso finora sul “Piano Mattei” è stato il decreto-legge presentato in Parlamento lo scorso novembre e convertito in legge il 10 gennaio. Il decreto è composto da 11 articoli, ma non contiene i progetti che saranno finanziati dal piano né le risorse che saranno usate. Il provvedimento ha solo definito i settori di collaborazione tra l’Italia e i Paesi africani, dando al governo il compito di adottare un piano di quattro anni, rinnovabili, con un decreto del presidente del Consiglio (Dpcm), dopo aver ricevuto il parere delle commissioni parlamentari. La definizione e l’attuazione del “Piano Mattei” saranno seguiti da una Cabina di regia, di cui faranno parte la presidente del Consiglio e vari ministri, affiancata da una struttura di missione, finanziata con poco più di 2 milioni di euro.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
IL PROGETTO DELLA MELONI SUSCITA DIFFIDENZA TRA I PAESI DEL CONTINENTE NERO, A CUI NON PIACE IL NOME MATTEI (“NEOCOLONIALE”). DIFFICILMENTE IL PIANO SARÀ COMPETITIVO RISPETTO ALLA PENETRAZIONE RUSSA E CINESE IN AFRICA: NON A CASO ALGERIA E EGITTO HANNO MANDATO DELEGAZIONI DI SERIE B, LA LIBIA È IN MANO AI RUSSI E IL SAHEL È NEL CAOS. BOLA TINUBU, PRESIDENTE DELLA NIGERIA, INVECE CHE A ROMA VOLA A…PARIGI
Il malessere covava da settimane. Ignorato da Palazzo Chigi, ma
diffuso ai massimi livelli della diplomazia africana a Roma. Condensato nell’accusa espressa ieri pubblicamente dal presidente della commissione dell’Unione africana, Moussa Faki: «Sul Piano Mattei non siamo stati coinvolti».
Quello che non è emerso, però, è se possibile anche peggio. Perché ai partner africani non è piaciuto soprattutto un dettaglio […] della grande operazione mediatica e politica portata avanti da Giorgia Meloni in questi mesi: il nome del Piano. Chiamarlo “Mattei” come il fondatore dell’Eni — una scelta di cui sembra abbia il copyright il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari — non è stata una mossa apprezzata.
E non lo è stata soprattutto nella regione subsahariana, in cui la visione illuminata del dirigente pubblico italiano è poco conosciuta. Ed evoca semmai il precedente di una presenza straniera, che alimenta sospetti. E rischia di far passare l’operazione italiana come neocoloniale, per certi versi addirittura predatoria. Proprio lo scenario che la premier intende in tutti i modi evitare.
Alcuni segnali di questo malessere hanno lambito i vertici di governo, di recente. Ma l’esecutivo ha proseguito sulla linea imposta da Palazzo Chigi e portata avanti per mesi, evitando di scegliere l’unica strada che avrebbe garantito consenso: aprire al confronto, proporre una scrittura concordata del Piano.
E dunque, il progetto parte male, suscitando reazioni quantomeno tiepide in chi dovrebbe invece beneficiarne. Ma soprattutto — è opinione diffusa in ambienti diplomatici — si mostra poco competitivo rispetto alla penetrazione russa e cinese in Africa.
Di Russia, in effetti, si discute poco durante la Conferenza. Ma basta osservare presenze e assenze per comprendere quanto Mosca riesca a complicare gli sforzi meloniani di conquistare sostegno sulla sponda Sud del Mediterraneo. Già un primo segnale era arrivato da Algeria ed Egitto.
I primi — che mantengono solide relazioni diplomatiche con i russi, i cinesi e pure con Hamas — hanno scelto di inviare a Roma soltanto la ministra degli Esteri. I secondi hanno scelto di limitare la delegazione alla ministra per la cooperazione internazionale. Ma il dato più significativo è un altro, riguarda la Libia e lo segnala a metà giornata il renziano Enrico Borghi.
Nelle ore in cui il premier del governo di unità nazionale libico Abdulhameed Mohamed Dabaiba si trova a Roma, il viceministro della Difesa russo Yunus-Bek Yevkurov viene accolto a Bengasi dal generale Haftar. Sul tavolo, un accordo per una base navale a Tobruk, che punta a rafforzare la presenza della flotta di Mosca nel Mediterraneo.
«E a schierare i sommergibili nucleari russi», azzarda Borghi. È un segnale della fragilità della tela che Roma prova a tessere. La stessa che aveva spinto pochi giorni fa la premier a chiedere a Istanbul, durante la visita ad Erdogan, l’intercessione dei turchi per gestire la partita libica.
Gestire i flussi migratori che partono dalle coste della Libia e della Tunisia significa infatti investire in stabilità. È la ragione per la quale Meloni cerca di sfruttare la presenza a Roma del tunisino Saied e del direttore del Fmi Kristalina Georgieva per provare a favorire quel finanziamento di tre miliardi di dollari senza il quale Tunisi minaccia ritorsioni sul fronte dei migranti.
La Conferenza viene disertata da altri Paesi determinanti nello scacchiere africano. Sono quelli del Sahel, preda di recenti colpi di Stato militari, territori in cui la Wagner presta la propria opera di “protezione” dei regimi in cambio dello sfruttamento di materie prime pregiate. Una regione che è ormai polveriera. Ecco, a Palazzo Madama mancano le delegazioni di Burkina Faso, Mali e, soprattutto, Niger. In quest’ultimo caso, la ritirata dei francesi ha aperto definitivamente il campo alle milizie.
Meloni deve fare i conti con queste defezioni, ma anche con un banco vuoto che la diplomazia non aveva previsto: quello della Nigeria. Non è un dettaglio, visto il peso del Paese, il più popoloso del continente con 210 milioni di abitanti. A disturbare Palazzo Chigi, però, è una circostanza poco nota e ancora più scomoda: il presidente nigeriano Bola Tinubu, assente, è [in Europa. Dallo scorso 24 gennaio si trova a Parigi
(da La Repubblica)
argomento: Politica | Commenta »
Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
MESI DI ATTESA, POI AL FORUM ITALIA-AFRICA NON C’E’ ALCUN PROGRAMMA
Doveva essere il grande giorno del piano Mattei. Lunedì 29 gennaio, in occasione del forum Italia-Africa a palazzo Madama, la premer Meloni avrebbe dovuto svelare il dettaglio del grande progetto di cooperazione italoafricana del governo, il cui varo era stato annunciato per mesi e più volte ritardato.
A fine giornata, in realtà, le carte del piano (se esistono) rimangono ben custodite a palazzo Chigi. Né il testo, né delle schede di sintesi vengono resi pubblici. Per capirne di più, allora, non resta che affidarsi al discorso pronunciato da Meloni in apertura dei lavori del forum, svolti poi per la maggior parte a porte chiuse. Quello che sembra emergere è che il grande programma italiano per l’Africa in realtà per ora ha ben poco di rivoluzionario, ma si basa su fondi già stanziati e su progetti riciclati dal passato.
Davanti ai leader africani, ai vertici dell’Unione Europea e degli organismi internazionali, Meloni è tornata a battere su quello che è a suo giudizio sarà il grande elemento di discontinuità del piano Mattei, ovvero un modello di cooperazione non “predatoria” ma da pari a pari, per riuscire a promuovere lo sviluppo dei Paesi africani e rimuovere alla radice le cause delle migrazioni. Nella pratica, si fatica però a cogliere dove sia questa discontinuità. Non nella misura delle risorse iniziali stanziate, solo 5 miliardi e mezzo, da dividere in più anni. Soldi provenienti da due fondi già esistenti, quello per il Clima e quello per la Cooperazione e lo Sviluppo.
Forse allora, l’aspetto innovativo del piano Mattei va cercato nel tipo di interventi da finanziare?
Difficile dare una risposta compiuta visto che, come detto, non sono stati forniti dettagli. Meloni ha accennato in maniera generica ad alcuni “progetti pilota”. Per la maggior parte, si tratta di azioni già in essere o che sembrano ricalcare iniziative promosse negli anni scorsi, la cui origine risale anche a diverso tempo addietro. In alcuni casi, è la stessa premier ad ammetterlo, come per i grandi collegamenti energetici: l’elettrodotto Elmed o il corridoio Sud dell’idrogeno, infrastruttura peraltro sviluppata a livello europeo. E ancora è già avviato il progetto, spiega Meloni nel suo discorso, per potenziare stazioni di depurazione di acque non convenzionali in Tunisia e irrigare un’area di 8mila ettari.
I progetti riciclati
Anche quando la premier non ne fa cenno, tuttavia, è possibile trovare nei progetti presentati come nuovi, tracce di passato. Prendiamo l’idea di sviluppare la filiera dei biocarburanti in Kenya. Si tratta in realtà di un’operazione farina del sacco di Eni, che la stessa azienda dell’energia descrive sul suo sito come “in stato avanzato”. L’iniziativa è partita nel 2021, durante il governo Draghi e secondo il Cane a Sei Zampe attiva attualmente 50mila agricoltori in territorio keniota. Meloni si è limitata a cambiare obiettivo: dai 200mila soggetti coinvolti entro il 2026, si passa a 400mila, entro il 2027. Le stime peraltro erano già state riviste al rialzo dalla compagnia energetica.
La premier cita poi l’idea di riqualificare le scuole in Tunisia. Anche qua, in realtà, già dal 2019 c’era traccia di un programma di questo tipo, che prevedeva di finanziare con i fondi alla Cooperazione allo Sviluppo la ristrutturazione di scuole primarie, la creazione di mense e servizi igienici. A settembre 2023 poi, il progetto è stato rilanciato dall’allora ambasciatore a Tunisi Fabrizio Saggio, oggi consigliere diplomatico di palazzo Chigi. Stesso discorso si per un altro degli interventi citati da Meloni, quello relativo alla creazione di un centro agroalimentare, che valorizzi le esportazioni dei prodotti locali, in Mozambico. Il riferimento della premier sembra essere al complesso di Manica, distrutto da un ciclone nel 2019. Per la sua ricostruzione, il nostro governo ha stanziato tra il 2021 e il 2022 quasi 40 milioni di euro.
Anche sul lato dell’energia e del clima, la presidente del Consiglio elenca interventi, che somigliano molto ad azioni già programmate dal ministero competente. Prendiamo il “recupero ambientale di alcune aree e risanamento delle acque” in Etiopia. Qua il riferimento potrebbe essere alle zone di Somali e Afar, afflitte dalla siccità. A dicembre 2023, il ministro l’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin aveva siglato un’intesa con il Paese del Corno d’Africa per la “fornitura di un sistema di captazione delle risorse idriche”. in quelle aree. Impegni dello stesso tipo sono rintracciabili anche in accordi siglati anche in periodi precedenti.
Sempre il ministero dell’Ambiente a fine 2022 ha firmato un memorandum con il Marocco che prevede, tra l’altro, la formazione di giovani imprenditori nel campo della green economy, l’incentivo per il lancio di nuove startup, la creazione di cinque incubatori di impresa a livello universitario e di una piattaforma per lo scambio e la condivisione sui temi delle tecnologie verdi. Un progetto che ne ricalca uno simile, mai completato, sviluppato negli anni precedenti. E che somiglia molto all’idea lanciata da Meloni nel corso del suo intervento al forum Italia-Africa, per realizzare nello Stato maghrebino “un centro di eccellenza per la formazione professionale sul tema energie rinnovabili”.
Intendiamoci, non vogliamo qua mettere in discussione la validità dei progetti presi in esame. Solo non si capisce in cosa consisterebbe il cambio di passo del piano Mattei, il passaggio da una cooperazione “predatoria” a una “paritetica”, se le iniziative presentate da Meloni già esistevano, oppure ce ne erano di molto simili.
Va dato atto alla presidente del Consiglio di aver descritto la giornata di oggi, come il punto di partenza di un cammino, non la sua conclusione. Probabilmente, il successo dell’impresa si misurerà nella capacità di coinvolgere, oltre alle aziende private, anche i partner internazionali, finora molto restii a partecipare. Per il momento, la sensazione è che sotto il nome roboante del piano Mattei si sia raccolto quello (non molto) che l’Italia già faceva, nella sua opera di cooperazione con il continente africano.
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »
Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
LE ACCUSE RIDICOLE E MAI PROVATE, GLI ATTI MAI CONSEGNATI AGLI AVVOCATI, LE “LESIONI” CON PROGNOSI DI 5 E 8 GIORNI, LE VITTIME CHE NON HANNO MAI SPORTO DENUNCIA… UNA FARSA GIGANTESCA DI UN GOVERNO INDEGNO DI STARE IN EUROPA
Per chi, a differenza nostra, non avesse seguito la vicenda giudiziaria
di cui è vittima Ilaria Salis, forniamo una breve sintesi, premettendo una obiezione che qualcuno si porrà: “perchè voi di destra difendete una militante di sinistra?” Risposta: non ce ne frega nulla di come la pensi Ilaria, ha diritto a pensarla come gli pare.
Ricordiamo quando, in difesa di Paolo Signorelli, ideologo di destra ingiustamente incarcerato, si alzarono le voci di molti intellettuali di sinistra.
L’onestà intellettuale viene prima alle appartenenze, questo è il nostro modo di pensare e di agire da 50 anni.
Veniamo alle accuse a Ilaria che avrebbe partecipato a scontri di piazza tra militanti antifascisti e neonazisti circa un anno fa, nel corso dei quali avrebbe “aggredito” (lei donna e loro due uomini) due avversari politici, procurando loro lesioni ridicole ( refertate in 8 e 5 giorni), cose che in Italia ci vuole pure la querela di parte.
Gli stessi aggrediti non hanno ritenuto di sporgere denuncia, piccolo inciso.
In pratica, per chi ha una minima dimestichezza con scontri di piazza, una cazzata, per cui una volta si evitava persino di andare in ospedale e farsi “protocollare”.
Precisiamo che Ilaria ha sempre sostenuto di aver assistito agli scontri, non di avervi partecipato.
Veniamo alle prove: esiste un verbale di polizia che l’accuserebbe, ma non è mai stato messo a disposizione dei suoi avvocati, al pari di un video generico sugli scontri di cui i legali non hanno mai potuto prendere visione.
Su queste basi chiunque potrebbe incarcerare anche vostra madre, senza nessuna prova.
Trattamento in carcere: Ilaria da un anno è chiusa in una cella tra scarafaggi e sporcizia, con catene per impedirle i movimenti.
Cosa rischia: per “terrorismo” la pena prevista è di 11 anni.
Questo avviene non in Paese sudamericano in mano a militari, ma in Paese europeo aderente alla Ue.
Ora che avete compreso la situazione, potete girarvi dall’altra parte o ribellarvi.
Noi abbiamo scelto da che parte stare, quella della civiltà umana e giuridica.
argomento: Politica | Commenta »
Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
UNA ITALIANA INNOCENTE TENUTA AL GUINZAGLIO DA AGENTI CON IL PASSAMONTAGNA, NEANCHE FOSSE PABLO ESCOBAR
Manette e guinzaglio a catena, saldamente tenuto in mano da un agente: le immagini del processo ungherese a Ilaria Salis dovrebbero scandalizzare l’Italia e l’Europa più degli abbracci di Victor Orban a Vladimir Putin e delle sue intemerate contro «l’Unione stupratrice». Sono la prova provata che nello spazio di libertà che immaginiamo di abitare, nel Continente dello Stato di diritto che celebriamo ogni giorno, esiste un’area franca in cui una militante coinvolta nei tumulti contro una manifestazione neonazista può essere trattata così. Come un animale da tenere al laccio.
Il processo è stato rinviato al 24 maggio e non si sa come finirà: Ilaria Salis rischia 11 anni di carcere. In aula erano presenti i genitori, che Salis ha potuto rivedere solo nel settembre scorso dopo sei mesi di detenzione senza alcun contatto, e soltanto in due colloqui.
Il suo avvocato non ha potuto presentare richieste probatorie perché gran parte degli atti non sono stati tradotti e la difesa non ha avuto accesso ai filmati dell’accusa. L’idea che la giustizia ungherese ha dei diritti di una detenuta è risultata evidente dalle modalità del suo ingresso in aula: non solo le catene ma pure la vigilanza di due colossi in tenuta antisommossa, col volto celato dai passamontagna, che hanno affiancato l’imputata a ogni passo neanche fosse Pablo Escobar.
Non c’è aula giudiziaria d’Europa dove queste siano considerate modalità accettabili, per quanto gravi siano le accuse.
Persino gli jihadisti del Bataclan o il pluriomicida di Utoya sono entrati in tribunale a mani libere e hanno potuto sedersi vicino ai loro avvocati. Il pieno riconoscimento dei diritti della difesa è considerato, ovunque, il pilastro indispensabile di un verdetto che non appaia un atto di ritorsione o di vendetta. Per la democratura ungherese il problema, evidentemente, non si pone, anzi: l’esibizionismo securitario di ieri contiene un chiaro messaggio agli alleati, e persino al governo amico dell’Italia. Da noi si fa così, se non vi piace amen.
Che il caso Salis sia per l’Ungheria un caso simbolico, su cui costruire un messaggio al tempo stesso revanchista e intimidatorio, lo conferma l’accanimento su un’imputazione in apparenza di poco conto: le due presunte vittime dell’aggressione contestata hanno riportato lesioni guaribili in 6 e 8 giorni e non hanno sottoscritto alcuna denuncia. Erano in piazza per il cosiddetto “Giorno dell’onore” che celebra la resistenza nazista all’Armata Rossa: una manifestazione che sarebbe in teoria vietata ma continua a riunire, anno dopo anno, skinheads e neonazisti da tutta Europa, e ovviamente è catalizzatore anche dei contestatori di opposto segno. E anche qui il corto circuito è evidente: è difficile immaginare come pienamente europeo un Paese dove ogni 9 febbraio è normale imbattersi in cosplayer in divisa da SS e zaini con la croce uncinata.
“L’anomalia ungherese” ci dice, con questo processo, che ha intenzione di rimanere tale non solo nelle grandi questioni che la oppongono al resto d’Europa, come gli aiuti all’Ucraina, ma anche – soprattutto – nella gestione autocratica di ogni potere e conflitto interno, dove il metro che misura l’azione dello Stato sono gli interessi del governo e del suo capo: bene skin e neonazi che tutto sommato condividono il verbo identitario e il vangelo anti-immigrati del sistema, male, malissimo, chi attraversa le frontiere per accapigliarsi con loro.
Ilaria Salis forse ha preso parte a un pestaggio insieme a un gruppo di anarchici, forse no: lei si dice innocente. Ma suo malgrado è diventata la bandiera di un ammonimento molto più largo, non molto dissimile a quello riservato da ogni dittatura agli “stranieri” che si impicciano delle loro questioni interne. E si capisce perché il governo italiano, che pure si sta interessando alla vicenda, avanzi con i piedi di piombo. Evidenziare con troppa veemenza l’assoluta anomalia del trattamento ungherese nelle carceri e nei tribunali significherebbe avallare gli allarmi sulla deriva antidemocratica di quel Paese.
E tuttavia qualcosa si muove. La Farnesina si è interessata al caso. È stata superata la fase in cui Salis era descritta dalle destre come «il nuovo caso Cospito» costruito dalle sinistre intorno a una «sedicente maestra» in realtà attivista di un gruppo militarizzato, e si è capito che in questa storia è in gioco anche la reputazione italiana e il rispetto dovuto ai diritti dei nostri cittadini.
Le immagini dell’imputata alla catena hanno fatto il resto: il ministro degli Esteri Tajani ieri ha chiesto al governo ungherese di “vigilare e intervenire”, ricordando che Salis è una carcerata (da un anno!) in attesa di giudizio e che ci sono norme comunitarie a tutela della dignità dei detenuti. Si ipotizza il trasferimento ai domiciliari, magari in Italia, visto che il processo potrebbe richiedere altri lunghi mesi
L’augurio ovviamente è che la diplomazia arrivi dove il diritto ungherese non è ancora arrivato. Resteranno comunque le immagini di quelle catene e di quel guinzaglio, insieme col racconto di una detenzione medievale tra topi e brodaglie: testimonianza innegabile che le sanzioni dell’Europarlamento alla “anomalia ungherese” non sono invenzioni radical-chic o attacchi a uno Stato sovrano ma tentativi di difendere il nostro modello di civiltà e diritti, quello che fa la differenza tra cittadini e sudditi.
(da La Stampa)
argomento: Politica | Commenta »
Gennaio 30th, 2024 Riccardo Fucile
LA SEDICENTE “PATRIOTA” PREMIER DIMOSTRI PER UNA VOLTA DI TUTELARE UNA ITALIANA: RITIRI AMBASCIATORE ITALIANO A BUDAPEST E CACCI QUELLO UNGHERESE A ROMA… POI REGOLIAMO I CONTI CON ORBAN E I SUOI SERVI
«Credo che l’Ambasciata italiana abbia partecipato ad almeno quattro
udienze in cui mia figlia è stata portata in queste condizioni davanti al giudice. Noi fino al 12 ottobre, quando mia figlia ha scritto una lettera, non avevamo evidenza del trattamento che stava subendo nostra figlia. Gli unici che lo sapevano e non hanno detto nulla sono le persone dell’Ambasciata italiana in Ungheria».
Lo ha detto ad Agorà Rai Tre Roberto Salis, il padre di Ilaria, mostrata ieri in catene davanti al tribunale di Budapest.
Le immagini diffuse ieri della attivista in udienza con mani e piedi legati hanno scatenato il dibattito e indignato tutti in Italia. «E’ una fotografia molto dura. Abbiamo incontrato il padre, naturalmente la magistratura ungherese è sovrana. Ci si può attivare, cosi come ci stiamo attivando, attraverso i canali diplomatici, facendo tutto il possibile per attenuare le condizioni rigorose in cui e’ detenuta».
Lo ha detto, a proposito dell’udienza in Ungheria per Ilaria Salis, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, intervistato da Francesco Giorgino nella trasmissione XXI Secolo su Rai 1.
«Questa volta mi sembra che si sia ecceduto»: si tratta di «violazione delle orme comunitarie» e non è «in sintonia con la nostra civiltà giuridica»: lo ha detto il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, in un’intervista a Radio Anch’io. Secondo Tajani, «gli avvocati devono chiedere gli arresti domiciliari in Italia».
(da agenzie)
argomento: Politica | Commenta »