Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
LA PSICOTERAPEUTA NADIA BOLOGNINI, DOPO IL PROCESSO, TUONA: “È STATO UN TERREMOTO CHE HA ANNIENTATO LA MIA VITA”
«Altro che demoni!». Stefano Davoli in realtà lo dice in dialetto reggiano stretto,
davanti all’unico bar aperto sulla strada principale del paese, ma il senso è inequivocabile. Nel tardo
pomeriggio sonnolento di Bibbiano, Davoli dà corpo al suo pensiero: «Guardi, qui nessuno ha mai dubitato del sindaco di allora (Andrea Carletti, messo agli arresti domiciliari per poi trovarsi a rispondere solo d’abuso d’ufficio e venire assolto, ndr), noi qui non ci credevamo a quelle accuse, lui è stato sempre onestissimo. Poi è cominciato l’assedio delle telecamere e poi sono arrivati i politici, Salvini, la Meloni…».
C’erano le elezioni regionali vicine e «Parlateci di Bibbiano» con P e D maiuscole a indicare il partitone diventò il ritornello preferito di chi sognava di strappare l’Emilia-Romagna ai rossi. L’ex sindaco, nella sua casa di Albinea, ha vissuto la sentenza dell’altro giorno come un momento di rinascita: «È un passaggio rivelatorio che arriva dopo una grande sofferenza per la condizione di indagato e processato, ora per me è una grande soddisfazione», così ha detto al suo legale, Giovanni Tarquini
Autosospeso dal partito, la tessera gli è stata restituita lo scorso aprile e qui, davanti al bar, c’è chi giura che se si fosse ripresentato a ipotetiche elezioni subito dopo lo scoppio dello scandalo – in realtà è rimasto al suo posto – avrebbe raggiunto di nuovo la percentuale bulgara con cui era stato eletto al secondo mandato: quasi l’80%. «Le teorie sono crollate davanti alla sentenza», sottolinea l’avvocato.
L’assistente sociale Francesco Monopoli, condannato a un anno e otto mesi con pena sospesa rispetto agli undici anni richiesti dall’accusa, continua ad avere «fiducia nella giustizia, l’opinione sulla sentenza è del tutto positiva».
Nicola Canestrini, il suo legale, dice di non aver capito «quale sia la condotta che gli è stata addebitata. Aspettiamo le motivazioni e ci prepariamo certamente all’Appello».
Un’altra protagonista del processo, la psicoterapeuta Nadia
Bolognini della cooperativa Hansel e Gretel di Moncalieri, ex moglie di Claudio Foti, ci racconta come ha passato questi ultimi anni e gli sconquassi emotivi e familiari provocati dall’indagine: «Un’accusa così feroce non lascia armi per difendersi, si è in balia dell’odio. Sono stata rappresentata come colei che rubava e manipolava i bambini, un’accusa atroce e insopportabile per chiunque. Io invece li curavo». In famiglia?
«È stato uno tsunami, quando si viene esposti alla gogna poi chi paga il prezzo più alto sono i figli: mi sono dovuta dedicare a proteggere loro».
Il bilancio finale è grave: «È stato un terremoto che ha annientato la mia vita, si è fermato tutto, il lavoro, la vita di relazione, tutto». E poi la strumentalizzazione politica: «È stata la rovina di questa vicenda e per noi. Ci siamo trovati mezza Italia contro, per il solo fatto di essere stati scelti come bersaglio».
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
A TOBRUK I FIGLI DEL MILITARE GOLPISTA STANNO TRATTANDO CON ERDOGAN PER PERMETTERE AD ANKARA DI SFRUTTARE I GIACIMENTI PETROLIFERI. E PER RITORSIONE ALLE PROTESTE DELLA GRECIA, LASCIANO PARTIRE PESCHERECCI COLMI DI MIGRANTI VERSO CRETA …LE MIRE EGEMONICHE DEI RUSSI, IL RISCHIO DI UN’INVASIONE DI DISPERATI SULLE COSTE EUROPEE
Che si tratti di Bengasi, dove il ministro Piantedosi viene respinto alla frontiera, o di Tripoli, dove incriminano il trafficante che l’Italia ha rilasciato con tanti ossequi, il panorama della Libia diventa sempre più problematico per il governo Meloni.
E non si tratta di una questione secondaria. Sull’altra sponda del Mediterraneo esiste una grande risorsa, il petrolio, e una minaccia altrettanto rilevante, l’uso dei migranti come arma, che condizionano la vita del nostro Paese.
Dalla morte di Gheddafi il potere in Libia è a dir poco
frammentato ma in questo momento l’Europa, e in particolare l’Italia, sono in difficoltà su tutti i fronti. Il nuovo scenario viene ricondotto alla politica dell’amministrazione Trump che porta avanti un suo piano di unificazione e taglia fuori le cancellerie del Vecchio Continente.
È un argomento toccato un mese fa nei colloqui tra Macron e Meloni : sotto la spinta della Casa Bianca si sta delineando un’intesa globale sul futuro del Paese e delle sue ricchezze.
La mediazione statunitense sta lentamente livellando i contrasti tra la Turchia, referente principale di Tripoli, e l’Egitto, protettore di Bengasi, in un processo che non sembra dispiacere neppure alla Russia.
La pedina più debole è il premier tripolino Dbeibeh, l’unico con una forma di riconoscimento internazionale, che a metà maggio ha tentato di liberarsi del condizionamento delle milizie ma ne è
uscito con le ossa rotte.
Il blitz fallito gli ha alienato i consensi di Ankara e da allora punta sull’appoggio dell’Ue, promettendo in cambio di arginare le partenze dei migranti. Anche martedì però nella capitale ci sono stati combattimenti tra i suoi pretoriani e l’agguerrita Forza Rada, quella a cui è legato il generale Najeem Osama Almasri.
La sua incriminazione non nasce da una tardiva attenzione dei magistrati tripolini per i diritti umani, ma dalla volontà di colpire un rivale del premier e assecondare le richieste di Bruxelles. Allo stesso tempo però il provvedimento potrebbe portare i trafficanti in lotta con Dbeibeh a scatenare un’ondata di scafisti verso la Sicilia: gli imbarchi chiave della costa sono nelle loro mani.
L’ottantenne maresciallo Kalifha Haftar, autoproclamato signore della Cirenaica, invece sente di avere l’ultima occasione per impadronirsi dell’intero Paese e garantire la successione ai figli. C’è chi ritiene che sia proprio la competizione tra gli eredi a imprimere una linea più dura verso gli europei, da cui è scaturito il respingimento di Piantedosi e degli altri ministri Ue.
Con scaltrezza levantina, sono diventati alleati della Turchia: il nemico che nel 2020 li ha sconfitti nell’assedio di Tripoli. Adesso Erdogan e Haftar stanno per ratificare il trattato sullo sfruttamento dei giacimenti petroliferi sottomarini che ignora le prerogative greche e cipriote.
Alle proteste di Atene, il clan di Bengasi ha risposto lasciando salpare grandi pescherecci colmi di migranti verso Creta. Il primo ministro Kyriakos Mitsotakis due settimane fa ha schierato la flotta davanti alla Cirenaica e intensificato il dialogo con Dbeibeh.
Il clan Haftar non si è lasciato intimidire: lunedì e martedì altre
1400 persone sono approdate a Creta. Per disincentivare gli arrivi, la Grecia ha sospeso per tre mesi le domande di asilo: una mossa che però potrebbe dirottare il flusso verso l’Italia.
Non si tratterebbe del solito braccio di ferro per strappare finanziamenti: i padroni della Cirenaica ambiscono a una legittimazione europea o quantomeno a spezzare il rapporto tra l’Ue e Dbeibeh, rendendo concreta la prospettiva di una nuova marcia su Tripoli.
Gli Haftar continuano a ricevere armamenti e mercenari da Mosca che usano già per estendere il controllo del Fezzan, la regione meridionale strategica per l’espansione africana del Cremlino.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
LA PROCURA GENERALE DI TRIPOLI HA PROMULGATO UN ORDINE DI COMPARIZIONE PER NAJEEM OSAMA ALMASRI: E’ LA CONSEGUENZA DI UNA GUERRA TRA LE MILIZIE LOCALI… IL POTENTE GRUPPO PARAMILITARE “RADA” POTREBBE SACRIFICARE ALMASRI PUR DI RIMANERE LEGATA AL CARRO DEL PRIMO MINISTRO ABDUL HAMID DBEIBAH E NON VENIRE MARGINALIZZATA DA ALTRE MILIZIE MINORI
La mossa l’altro ieri della Procura generale di Tripoli di promulgare un ordine di
comparizione per Najeem Osama Almasri — l’influente capo della polizia locale ricercato dal tribunale dell’Aia per le violenze da lui commesse contro i migranti nel carcere di Mitiga di cui è stato direttore — è conseguenza delle faide tra milizie che si spartiscono il potere nella capitale e in larga parte della Tripolitania.
«Almasri oggi è vittima della scelta della potente milizia Rada di sacrificarlo pur di rimanere legata al carro del primo ministro
Abdul Hamid Dbeibah e non venire marginalizzata da altre milizie minori, ma più fedeli al premier», ci spiegano fonti giornalistiche locali […] Per Dbeibah la situazione è peggiorata da metà aprile, quando l’Onu, gli Stati Uniti e i partner europei hanno intensificato le pressioni affinché indicasse le elezioni nazionali e soprattutto si liberi delle milizie
«Dbeibah si è valso del suo viceministro della Difesa, Abdulsalam al Zoubi, e del capo della fedelissima milizia 444, Mahmud Hamza, per trattare specie con gli americani e cercare di eliminare la Rada. Ma le cose sono andate male a partire dal 12 maggio, quando Hamza ha assassinato a sangue freddo il capo della milizia Ghnewa, Abdul Ghani al-Kikli, assieme a 11 guardie del corpo», ci raccontano.
Doveva essere un lavoro «pulito», un omicidio mirato durante una riunione ristretta, ma si è trasformato in una carneficina, che ha rilanciato la guerra civile armata nel cuore della capitale. Il 14 maggio la città è diventata terreno di battaglia, si è sparato per molte ore, alla fine sul selciato si sono contati almeno 77 cadaveri […] Una situazione difficile: il progetto di annullare la rilevanza delle milizie ha visto al contrario il loro ritorno
A quel punto la Ghnewa si è ritirata priva del suo capo nel suo quartiere di Abu Salim.
Ma la Rada e le altre milizie sono riapparse in forze. Lo stesso Dbeibah è comparso sui canali televisivi locali per chiedere scusa alla popolazione. Sperava di riprendere il controllo dell’aeroporto, del porto e di larga parte delle tasse municipali, ma è rimasto con un pugno di mosche. «A quel punto sono ripresi i negoziati sottobanco tra la Rada, le milizie di Misurata, quelle di Tripoli e lo stesso Dbeibah.
Il premier ha promesso allora alla Rada che avrebbe cessato di
attaccare se gli fosse stato consegnato Almasri. Se avesse avuto nelle sue mani il cittadino libico più ricercato dalla comunità internazionale magari anche le pressioni nei suoi confronti per rinnovare il sistema di potere interno sarebbero diminuite», osservano.
In quel contesto, Dbeibah spiegò anche che il rilascio da parte delle autorità italiane di Almasri in gennaio non aveva nulla a che fare con lui. In conclusione, la stretta su Almasri rafforza il premier e gli permette di esercitare un controllo più stretto sulla Rada, che comunque resta la milizia più importante. Non è però certo quale sarà il destino di Almasri. L’estradizione all’Aia, oppure il processo a Tripoli e magari la liberazione? Tutto resta aperto.
(da Corriere della Sera)
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Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
“CHI HA DECISO DI SCARCERARE UN VIOLENTATORE DI BAMBINI COME ALMASRI? PERCHÉ È STATO SCELTO IL VOLO DI STATO? MELONI COSA SAPEVA? MANTOVANO COSA HA DECISO? ALTRO CHE SEPARAZIONE DELLE CARRIERE, SIAMO NELLE MANI DI EX MAGISTRATI (DA MANTOVANO A BARTOLOZZI A NORDIO), CHE GUIDANO UN GOVERNO ALLA DERIVA”
Matteo Renzi, leader di Italia viva, il ministro Nordio dice che il vostro è solo «chiacchiericcio» e che sul caso Almasri ha già
chiarito tutto.
«L’unica cosa chiara è che qualcuno ha mentito. E devono dirci in Aula chi è stato. Il Parlamento va rispettato: l’opposizione deve fare domande, il governo deve dare risposte. Da qui passa la civiltà democratica di un Paese. Meloni viene in aula e non risponde, Tajani idem, Nordio vedremo. Il Parlamento non è il luogo del chiacchiericcio, ma la casa della democrazia: questi non l’hanno ancora capito».
A prescindere da se e quando verrà in Aula, a questo punto Nordio è ancora credibile?
«Nordio disse in Aula che la prima comunicazione su Almasri non era chiara. Scopriamo ora che invece la sua capo di gabinetto Bartolozzi era così preoccupata da chiedere di non lasciar traccia nei documenti ufficiali e di parlarsi solo su Signal. Delle due l’una: o Nordio ha mentito o Bartolozzi gli ha
nascosto le informazioni».
Secondo lei?
«Per la stima che nutro verso Nordio paradossalmente mi auguro che stia mentendo. Se, infatti, ha detto la verità, significa che la sua capo di gabinetto lo eterodirige. Preferisco un Nordio che mente a un Nordio fantoccio. Se Nordio mente è grave. Se Nordio dice la verità, il ministero della giustizia è guidato dalla capo di gabinetto, non da Nordio. Ed è ancora più grave» .
In un caso o nell’altro Nordio dovrebbe dimettersi?
«Sì, è indifendibile. Potrebbe salvarsi solo cacciando chi gli sta intorno. Ma Bartolozzi è difesa dalla fiamma magica, a cominciare da Mantovano e Delmastro. Perché è evidente che quando la Bartolozzi scrive di essere già informata – e Nordio dice di non sapere nulla – significa che qualcuno da Palazzo Chigi l’ha informata. Chi? Che uno dei due debba lasciare è
ovvio. Se lo facessero entrambi, sarebbe buon gusto. Se non lo farà nessuno dei due, sarà uno scandalo».
Nordio non ha alcuna intenzione di fare un passo indietro: «Hic manebimus optime», ha detto ieri in Senato.
«Gli rispondo con il suo amato Cicerone: “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”. Fino a quando abuserai della nostra pazienza? ».
Quali sono i punti principali della vicenda Almasri che devono essere chiariti?
«Chi ha deciso di scarcerare un violentatore di bambini? Perché? Perché è stato scelto il volo di Stato? Meloni cosa sapeva? Mantovano cosa ha deciso? Alla fine, in questa storia l’unico che ha tenuto la schiena dritta è stato Piantedosi. Almeno al Viminale dimostrano di sapere come si gestiscono vicende del genere, vecchia scuola prefettizia».
Gli altri?
«Da Mantovano a Bartolozzi a Nordio, siamo nelle mani di ex magistrati che guidano un governo alla deriva. Altro che separazione delle carriere: con questa destra i magistrati contano più dei politici. Ma io, che ho combattuto a viso aperto contro le toghe rosse e il loro eccesso di protagonismo politico, non consentirò mai che queste toghe brune si sostituiscano al Parlamento».
Quindi, non finirà con Bartolozzi che fa il capro espiatorio?
«Non credo, la conosco dai tempi in cui guidava Azione in Sicilia, non è una che si fa da parte in silenzio. L’altra mattina, alle 6.50, mi ha mandato un sms dal vago sapore minatorio: “Buon vento”. E lo ha fatto perché io avevo annunciato un’interrogazione parlamentare su di lei. Questi non conoscono le istituzioni. Ma non conoscono nemmeno me: pensano di
farmi paura e invece mi invitano a nozze».
L’ha attaccata anche Pier Silvio Berlusconi, se l’aspettava?
«No. Berlusconi junior è entrato a piedi uniti nel dibattito politico per puntellare il governo Meloni, richiamare all’ordine il maggiordomo Tajani e dare una stoccata, preparata, a un membro dell’opposizione. Pier Silvio Berlusconi, che purtroppo per tutti non è Silvio ma solo Pier Silvio, trasforma la sua azienda in partito senza fare come il padre, che almeno prendeva i voti. No, Pier Silvio tratta Tajani come Ilary Blasi. E se Mediaset diventa il braccio armato di Giorgia Meloni ne prendo atto. La Mondadori andrà avanti tranquillamente anche senza di me, ma io non faccio il dipendente di un Ceo che pensa di possedere un partito e di dettare la linea al mondo».
Torniamo a Nordio e soci: Giorgia Meloni continuerà a coprire tutti?
«Sì. È una donna che ha meno coraggio di quello che vuol far credere. Lei è fragile, vede fantasmi ovunque, ha la sindrome del complotto. Ed è per questo che ha una squadra ridotta all’osso di parenti, ex parenti e fedelissimi. Ma così non si governa un consiglio comunale di terza fascia, figuriamoci l’Italia».
Da Almasri al caso Paragon, la premier è convinta che su queste vicende non perderà consensi. Sbaglia?
«No. Meloni non perde consensi su Paragon e Almasri. Lo farà a breve sugli stipendi e sulle tasse. Ma io continuo a porre il tema istituzionale, anche se dovessi essere l’unico a farlo. Anche se dovessi rimetterci economicamente, politicamente, elettoralmente. Continueremo la battaglia in Parlamento, anche se sembra che non produca frutti».
(da La Stampa)
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Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
LA “ZARINA” DEL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, GIUSI BARTOLOZZI, IL 12 FEBBRAIO AVREBBE CHIESTO CONTO, CON UNA NOTA AGLI UFFICI MINISTERIALI, DI ALCUNE INTERLOCUZIONI INTERCORSE CON IL TRIBUNALE DEI MINISTRI, CHE STA INDAGANDO SU NORDIO STESSO
Le opposizioni ne chiedono le dimissioni. Carlo Nordio però resiste. E passa
all’attacco. Sul caso Almasri, e cioè sulla vicenda del torturatore libico rimpatriato su un volo di Stato, la strategia adottata sembra quella di sempre: confondere, smentire, mischiare le carte in tavola.
«Gli atti che abbiamo smentiscono totalmente quanto è stato riportato, non so come e perché, dai giornali», ha dichiarato il Guardasigilli dopo le rivelazioni di Domani sul ruolo della sua capo di gabinetto, Giusi Bartolozzi, nel pasticcio sulla scarcerazione del generale ricercato dalla Corte penale internazionale.
La “zarina” di via Arenula, ex giudice in Sicilia e berlusconiana doc, in base a quanto risulta a questo giornale, intorno al 12 febbraio scorso avrebbe chiesto conto con una nota agli uffici ministeriali di alcune interlocuzioni intercorse col tribunale dei
ministri, titolare del fascicolo d’indagine contro Nordio stesso, la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Un fatto che porrebbe la super dirigente in una posizione scomoda: con quella nota avrebbe potuto interferire nell’indagine?, è la domanda alla quale non è ancora stata data una risposta. Bartolozzi, contattata da Domani, non ha voluto rispondere. Fonti a lei vicine, tuttavia, hanno minimizzato: «Rientrava tra le sue prerogative farlo».
Ma oltre che giudiziario, il fronte è ormai tutto politico. L’opposizione all’unisono accusa Nordio di aver mentito al Parlamento quando dichiarò di «essere venuto a conoscenza del caso Almasri il 20 gennaio». Dagli atti del tribunale dei ministri «è emerso invece – continuano i parlamentari – che Nordio
sapeva da diversi giorni prima».
«Lo sa cosa disse il generale McAuliffe durante l’assedio di Bastonia? Nuts!», ha detto inoltre Nordio nel corso del questione time in Senato, citando un’esclamazione passata alla storia e riferita a un episodio clou della Seconda guerra mondiale, quando le forze tedesche, sicure della loro posizione, inviarono una delegazione per consegnare un ultimatum di resa al comandante americano a Bastogne, il generale di brigata Anthony McAuliffe, che rispose ufficialmente con un laconico “nuts”. Tradotto: sciocchezze.
La strategia governativa, dunque, parrebbe quella di spostare l’attenzione su una presunta «violazione di atti riservati» arrivati alla stampa in attesa della decisione del collegio composta dalle tre giudici.
A questo proposito la legale dei quattro indagati eccellenti, Giulia Bongiorno, sta anche valutando la presentazione di una denuncia contro ignoti per divulgazione di atti coperti dal segreto
Domani ha raccontato della nota nella quale Bartolozzi chiedeva conto delle interlocuzioni avute dagli uffici con gli inquirenti, così come erano emerse richieste di comunicare su canali riservati, via Signal, nelle prime ore dopo l’arresto di Almasri.
Informazioni in mano a chi indaga e che agitano l’esecutivo. Ecco allora il tentativo di sviare l’attenzione: Bongiorno ha intenzione di presentare una denuncia contro ignoti per divulgazione di atti coperti dal segreto. Ora non si comprende a quali atti faccia riferimento. Ma di certo in questa storia c’è chi ha tentato di acquisire informazioni utili alla difesa: torniamo così alla nota di Bartolozzi con cui chiedeva agli uffici del ministero di riferire che richieste avesse fatto il tribunale dei
ministri durante l’indagine in corso.
Ma parlare di violazione di segreto in via Arenula fa sorridere molti: proprio in quel dicastero siede ancora indisturbato un condannato in primo grado per quel reato, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. Il tribunale di Roma lo ha riconosciuto colpevole di rivelazione di segreto d’ufficio per aver spifferato atti riservati al fido amico e deputato, Giovanni Donzelli, che li ha diffusi in parlamento inguaiandolo.
(da “Domani”)
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Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
INFINITAMENTE MENO DEI 500 MILIARDI CHE LA BANCA MONDIALE STIMA COME NECESSARI PER RIMETTERE IN PIEDI IL PAESE DI ZELENSKY… IL GUAIO È CHE, PROPRIO ALLA VIGILIA DEL SUMMIT ROMANO, IL COLOSSO USA BLACKROCK HA INTERROTTO LA RICERCA DI INVESTITORI A SOSTEGNO DI UN FONDO MULTIMILIARDARIO PER L’UCRAINA. E SENZA IL GRANO DEI PRIVATI NON SI VA MOLTO LONTANO
All’apertura della Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina l’impressione è che i diversi leader europei e statunitensi parlino rivolti alla platea, pensando però al proprio “pubblico di casa”. Tutti si dicono concordi sulla visione di fondo: siamo pronti a sostenere Kiev fino alla fine e grazie a una tale unità sarà possibile risollevare il paese dalle devastazioni della guerra, anzi si potrà sperare in un vero e proprio «miracolo economico e sociale».
Abbondano a questo proposito i riferimenti al piano Marshall, quasi a tradire, forse, l’investimento emozionale delle cancellerie europee affinché, attraverso gli affari post-bellici, si verifichi una rifondazione anche “ideologica” del continente.
A citarlo è innanzitutto il presidente ucraino Zelensky, accolto da un lungo applauso, così come l’inviato speciale della Casa Bianca Keith Kellogg, che addirittura si spinge in paragoni con Afghanistan e Iraq.
Ma, appunto, sotto la retorica della coesione (condita da altisonanti parallelismi storici) si intravedono sfumature e divergenze, a riflettere le titubanze dei differenti paesi: se per il ministro capo dell’Estonia Kristen Michal quella da perseguire con il sostegno all’Ucraina è una «vittoria definitiva» sulla
Russia («non esiste alcun piano b», ammonisce), altri rappresentanti preferiscono usare formule meno nette, e già sentite in numerose occasioni al punto da risultare oramai molto vaghe, come un «cessate il fuoco giusto» (il premier greco Mitsotakis) o una «pace attraverso il multilateralismo» (il primo ministro spagnolo Sánchez),
È proprio Merz a mettere sul piatto il problema delle fratture interne alla coalizione europea. Nel suo intervento, infatti, redarguisce la Slovacchia per l’ostruzionismo in tema di sanzioni contro Mosca (il 18esimo pacchetto è ancora in attesa di approvazione). Dall’altro lato, lusinga Washington: «Cari americani, siate con noi!», afferma nel tentativo di ingraziarsi l’imprevedibile leadership a stelle e strisce.
Ed ecco che arriva la risposta, sul filo dello sdolcinato, di Kellogg (della cui presenza si vanta Giorgia Meloni): «Siamo
qui con voi», dice passando per un attimo alla lingua tedesca.
Ma è lecito chiedersi in che senso, soprattutto nel momento in cui a migliaia di chilometri di distanza da Roma il segretario di stato Usa Marco Rubio incontra il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. Al netto dei quotidiani ripensamenti è ormai chiaro che rispetto al dossier ucraino la Casa Bianca va per la propria strada, cercando anzi di usarlo come “banco di prova” per ridisegnare i rapporti col resto del mondo.
L’Inviato statunitense è esplicito: secondo lui la ricostruzione dell’Ucraina è un’occasione per abbordare un «nuovo tipo di governance» e un «nuovo modello di capitalismo» a livello globale, ripensati attraverso lo spirito d’impresa coi suoi tre pilastri Esg (gestione, società e ambiente). Su questo, in effetti, tutti sono davvero concordi: i soli investimenti pubblici non sono sufficienti, il punto è mettere Kiev nelle condizioni di attrarre capitale privato (in una «combinazione bilanciata di partnership multilaterali e bilaterali», sostiene il ministro Giorgetti).
La stessa ministra dell’economia ucraina Julija Svyrydenko annuncia perentoriamente «privatizzazioni su larga scala» che interesseranno il paese e che gli permetteranno di procedere verso l’integrazione nell’Unione.
A questo proposito, un’ulteriore ambiguità: se i leader riuniti presso la Nuvola di Fuksas snocciolano con orgoglio cifre a nove zeri per progetti di assistenza umanitaria e ricostituzione infrastrutturale (110 miliardi di accordi», dicono: meno dei 16 raccolti alla conferenza di Berlino l’anno scorso, infinitamente meno dei 500 miliardi stimati come necessari dalla Bacna mondiale), allo stesso tempo non fanno mistero del fatto che il tutto si intreccia a uno sviluppo della difesa e del settore
militare, ormai individuato come principale volano di crescita industriale per il continente
D’altronde, il tanto evocato piano Marshall arrivava sulle macerie di un conflitto già concluso, ieri si immaginava una ricostruzione mentre Mosca lancia gli attacchi più feroci dall’inizio dell’invasione.
Perciò è probabile che Zelensky sia a Roma ma abbia la testa a Londra, dove si sono riuniti i Volenterosi che da lontano salutano, promettendo passi concreti per «mettere in sicurezza» i cieli ucraini. E intanto firmando un patto di mutuo soccorso nucleare: «risposta comune» atomica di Macron e Starmer in caso di attacco. I nemici sono avvisati.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
POI FA INCAZZARE PADELLARO, CHE MODERAVA L’INCONTRO: “CHI SE NE FREGA DELLA MURGIA”. E IL FONDATORE DEL “FATTO QUOTIDIANO” MINACCIA DI ANDARSENE
E’ sfociato, in vari momenti, nel caos l’incontro fra l’ex deputato Italo Bocchino e il
giornalista Antonio Padellaro a Il libro possibile, il festival sostenuto da Pirelli in corso a Polignano a Mare.
La platea, dove c’erano anche persone con cartelli come ‘Governo Meloni colpevole di genocidio’, ha più volte contestato con grida e fischi l’ex parlamentare (che presentava il volume Perché l’Italia è di destra), soprattutto per le sue frasi entusiastiche sui risultati raggiunti dall’esecutivo.
Posizioni che hanno creato scintille anche con Padellaro:.”Tu sei innamorato di Giorgia Meloni – gli ha detto il giornalista, fondatore de Il fatto Quotidiano – tant’è vero che l’hai proposta per il premio Nobel per l’economia”.
Un’affermazione contestata da Bocchino (“ho detto in una trasmissione televisiva, che Meloni con i numeri che ha fatto sarebbe da proporre per il Nobel per l’Economia”), ribadendo gli indici positivi dell’esecutivo. Poi, in una selva di fischi, ha attaccato l’opposizione: “La colpa più grave è non dire con chiarezza i danni che ha fatto la sinistra al Paese. Oggi c’è Tajani come ministro degli Esteri,prima c’era un bibitaro”.
La tensione è di nuovo salita quando l’ex esponente di An se l’è presa con la segretaria del Pd: “Non c’è una proposta alternativa della sinistra. La politica della Schlein è ballare al Gay Pride, inaugurare il murale dedicato a Michela Murgia… ma chi se ne frega della Murgia, agli italiani serve altro”.
Dichiarazioni che hanno portato una reazione forte di Padellaro: “Non ti permettere, era una grande scrittrice, morta di tumore… se continui così mi alzo e me ne vado… “.
(da agenzie)
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Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
NON SI SA QUANTO METTERÀ SUL TAVOLO TRUMP, DOPO CHE GLI USA HANNO FORNITO 65 MILIARDI PER ARMAMENTI A ZELENSKY DAL 2022 A OGGI… SECONDO LA BANCA MONDIALE, ALL’UCRAINA SERVIRANNO 500 MILIARDI PER RIPARTIRE DAVVERO DOPO LA GUERRA. I 10 MILIARDI ANNUNCIATI DA GIORGIA MELONI AL SUMMIT ROMANO SONO SOLO BRICIOLE
In un’immagine tra foto e disegno si vede una palazzina come se si potesse guardarne l’interno. Davanti ad alcuni alberi una scala bianca porta nel sottosuolo. Dal gradino più in basso comincia una fila di classi, una a fianco all’altra, che hanno metri di terreno sopra i soffitti. È la riproduzione di una scuola materna sotterranea.
L’edificio, del quale all’aperto spunta solo un ingresso, serve a permettere ai bambini ucraini di frequentare l’asilo al riparo dalle bombe russe.
Maksym Karavetian, un ragazzo della Regione di Zaporizhzhia, la stessa della centrale nucleare ricorrentemente bersagliata da attacchi, mostra il depliant con l’immagine e racconta: «Di scuole così ne sono state già costruite dodici, altre 13 sono da costruire. Mio fratello ha dieci anni. Prima per il Covid e poi per la guerra, non ha mai ricevuto lezioni che non fossero online, a distanza. Adesso potrà averne in presenza».
È più che legittimo domandarsi che senso abbia una conferenza internazionale sulla ricostruzione dell’Ucraina – peraltro la quarta, neppure la prima – mentre la guerra dovuta all’invasione
russa dura dal 2022 e neppure se ne intravvede al momento la fine. Una risposta la si può ottenere dando uno sguardo ai banchi di enti locali ucraini, come lo stand in cui lavora il ragazzo.
La ricostruzione dell’Ucraina della quale si discute non è solo quella da sviluppare in una pace futura: è la riparazione di danni causati da bombardamenti e incursioni che tuttora, appena possibile, vengono contenuti o superati affinché la vita di tutti i giorni non risulti paralizzata.
Malgrado i cinque milioni e 643 mila profughi ucraini contati dall’Unhcr, l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Malgrado i droni russi che tormentano ogni notte diverse località. Malgrado la corruzione diffusa
La maggioranza degli aiuti economici stranieri arriva all’Ucraina dall’Unione europea. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha annunciato un nuovo pacchetto di accordi per due miliardi e trecento milioni di euro. A sottoscriverli sono istituzioni finanziare pubbliche internazionali e Paesi: un miliardo e 800 milioni in garanzie su prestiti, 580 milioni in sovvenzioni.
L’intenzione è d’impiegare i fondi, parole della presidente, per «sbloccare fino a dieci miliardi di investimenti per ricostruire case, riaprire ospedali, rilanciare imprese, garantire l’energia».
Salvo annunci di oggi, meno facile è individuare una somma aggiornata dei fondi destinati a Kiev dagli Stati Uniti, il Paese che dal 2022 ha fornito circa 65 miliardi per armamenti (primo al mondo su questo) e nel nuovo mandato presidenziale di Donald Trump sta sottoponendo a tagli numerosi aiuti all’estero.
Nel gennaio 2024 il ministro degli Esteri Antonio Tajani informò il Parlamento che dall’inizio della guerra l’assistenza italiana all’Ucraina, al netto della militare e del contributo
nazionale a quella europea, «ammonta a più di due miliardi di euro».
La Farnesina ieri ha fatto sapere che la Simest, di Cassa depositi e prestiti, attiverà un massimo di 300 milioni per crediti alle esportazioni. La cooperazione italiana prevede 150 milioni fra crediti di aiuto e fondi a dono.
Le sovvenzioni e i prestiti all’Ucraina hanno una provenienza ampia. Dal Giappone, che tra il 2022 e il 2024 si è impegnato per oltre dieci miliardi di euro, al Sovrano Ordine di Malta che tra i suoi contributi ha reso possibili 60 rifugi per sfollati e assistenza psicologica a ucraini non espatriati oltre che sostegni a rifugiati in Stati confinanti.
«Le condizioni della sicurezza non rendono facile investire in Ucraina, ma per una ricostruzione che è in corso e che dopo la guerra richiederà anni occorre programmazione a lungo
termine», osserva Nicoletta Pirozzi, responsabile per l’Ue nell’Istituto affari internazionali.
(da Corriere della Sera”)
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Luglio 11th, 2025 Riccardo Fucile
31.948 ARRIVI IN ITALIA NEI PRIMI SEI MESI DEL 2025 CON UN AUMENTO DEL 12%, DI CUI 20.800 DALLA LIBIA… NEGLI ULTIMI 4 ANNI GLI ARRIVI DALLA LIBIA SONO SEMPRE INTORNO ALLE 50.000 UNITA’, NON E’ CAMBIATO NULLA, NONOSTANTE I MILIONI CHE PAGHIAMO AI TORTURATORI LIBICI
I dati di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, evidenziano
una diminuzione complessiva del 20 per cento degli attraversamenti irregolari delle frontiere esterne dell’Ue nella prima metà del 2025.
Ma nonostante il calo, scrive l’Agenzia, “la rotta del Mediterraneo centrale ha registrato oltre 29.300 attraversamenti irregolari, il 12% in più rispetto allo stesso periodo del 2024”. E in particolare, “la Libia continua a essere il principale Paese di partenza per questi viaggi pericolosi, con circa 20.800 migranti arrivati in Italia, con un aumento dell’80% rispetto all’anno scorso”.
In generale, il cruscotto giornaliero del Viminale dice che dal primo gennaio sono sbarcate sulle nostre coste 31.948 persone. Nello stesso periodo del 2024 erano state 28.376 e nel 2023, anno record per gli arrivi dalla Tunisia, 72.036.
Tra le principali nazionalità per numero di sbarchi ci sono Bangladesh (33%), Eritrea (15%), Egitto (12%). Quanto agli arrivi dalla Libia, nei primi 6 mesi del 2025 sono aumentati dell’87 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024.
A spiegare il dato è il fatto che il 91% di tutti gli sbarcati nel 2025 è partito dalla Libia (27.200 persone), mentre nei primi sei mesi del 2024 erano il 56% (14.500 persone).
Nello stesso periodo, la Tunisia è scesa dal 39% del 2024 al 6% di quest’anno.
Qualcosa è cambiato? Dopo gli scontri di maggio e il successivo cessate il fuoco, a Tripoli la missione Onu (Unsmil) segnala nuovi movimenti di milizie e rinforzi militari. E se il governo di Abdelhamid Dbeibah è più debole, a Est il generale Khalifa Haftar, spalleggiato da Russia ed Egitto, mostra i muscoli, anche con la delegazione di ministri e diplomatici europei, compreso il ministro dell’Interno italiano Matteo Piantedosi, cacciati martedì da Bengasi perché “persone non gradite“.
Tornando ai dati dell’Italia, l’aumento recente va confrontato con il trend registrato negli ultimi anni. Sempre in base ai dati del Viminale, l’analista Matteo Villa, direttore DataLab dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), fa notare che “gli sbarchi sono identici da cinque anni a questa parte“.
E che, al netto della parentesi tunisina che ha spinto gli arrivi soprattutto nel 2023, il calo degli sbarchi “non è mai davvero esistito”. Dalla Libia sono arrivate 53 mila persone nel 2022, 52 mila l’anno successivo, 41 mila nel 2024 e per il 2025, in base ai dati degli ultimi 12 mesi, possiamo aspettarci 55 mila arrivi.
(da Il Fatto Quotidiano)
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