Destra di Popolo.net

L’EX MINISTRO FORZISTA ELIO VITO: “FORZA ITALIA DI TAJANI SEMBRA IL PARTITO COMUNISTA CINESE. SERVIREBBE UNA GUIDA PIÙ CORAGGIOSA E AUTONOMA, DISINTERESSATA ALLA PROPRIA CARRIERA. FORZA TALIA AL GOVERNO NON TOCCA PALLA”

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

I VOLTI NUOVI CHIESTI DA “PIER DUDI” BERLUSCONI? “MARINA E PIERSILVIO NON SONO INTENZIONATI A ENTRARE NEL MERITO DELLE NOMINE, MA SONO ATTENTI AGLI INTERESSI DI FAMIGLIA. SARANNO DELUSI, TAJANI HA PAURA DELLA SUA OMBRA”

«La Forza Italia di Tajani sembra il Partito comunista cinese. Una gestione egocentrica e inadeguata». Elio Vito, ex ministro del governo Berlusconi e capogruppo azzurro alla Camera, non si riconosce più nel partito in cui ha militato per trent’anni.
Tajani come Xi Jinping?
«Ho letto il documento del consiglio nazionale di Fi, approvato all’unanimità: sembra un documento del partito comunista cinese dove si elogia il capo e si conta quante volte viene citato. Poi una citazione a testa pure per i membri del Comitato centrale, ministri e presidenti di regione. Siamo al culto della personalità».
Ci sono delle novità: segretari regionali eletti e due anni di tesseramento per votare al congresso.
«Una norma con cui Tajani blinda se stesso e il suo cerchio magico. Una concezione chiusa del partito. Servirebbe una guida più coraggiosa e autonoma, disinteressata alla propria carriera. Tajani invece ha aspirazioni così alte…» .
Pensa al Quirinale?
«Ognuno può fare i sogni che vuole, ma realisticamente sa che non lo farà mai. Se vuole fare il presidente della Repubblica deve rompere col centrodestra e aggregare il centro. Il problema è la Lega: per le posizioni che ha non può essere un partito al governo di un Paese occidentale».
Dove sono i volti nuovi chiesti da Piersilvio Berlusconi?
«Non deve essere lui a fare il casting di Forza Italia. Marina e
Piersilvio non sono intenzionati a entrare nel merito delle nomine e delle candidature, ma sono attenti agli interessi di famiglia. Saranno delusi, ma le aspettative sono scarse. Tajani ha paura delle sue ombre e scoraggia nuovi arrivi. Una gestione egocentrica».
Il nuovo segretario dei giovani, Simone Leoni, si è fatto notare. Che ne pensa?
«È un’operazione che manca di coraggio, li mandano in tv premiando l’estetica e dicono le stesse cose che dice Tajani.
Lui però pensa solo a gestire nomine, candidature e potere: vicepresidente del Ppe, vicepremier, ministro, segretario. Ma molla qualcosa: metti un giovane, una donna a capo del partito».
Quanto incide Forza Italia in questa maggioranza?
«Vedo disastri ovunque: la politica estera la fa Meloni, non Tajani. Sulla sicurezza hanno votato un decreto repressivo e reazionario. Sul fine vita va a ruota della destra. Lo ius scholae è stato tirato fuori solo per far parlare di sé sui giornali. Della separazione delle carriere se ne sono occupati Mantovano e Nordio, Forza Italia non ha toccato palla».
(da La Stampa)

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L’EUROPA SI CALA LE BRAGHE DAVANTI A TRUMP, L’UE RINUNCIA A IMPORRE LA WEB TAX ALLE BIG TECH AMERICANE, LA VERA ARMA PER FARE MALE AL TYCOON, SPERANDO COSÌ DI FAVORIRE UN’INTESA SUI DAZI

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

URSULA NON HA ANCORA CAPITO CHE L’UNICO MODO PER TRATTARE CON IL DAZISTA IN CHIEF È TENERE UNA LINEA DURA, COME HA FATTO LA CINA

«Vedrò Trump solo per chiudere l’accordo, non per discutere».
La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha ripetuto questa frase per quattro mesi.
L’incontro di oggi alle 17:30 in Scozia, dunque, è un indizio più che probante a favore di un’intesa sui dazi. I due si stringeranno la mano nel Golf Club di Turnberry, di proprietà dello stesso presidente americano. Una sede, certo, ben poco protocollare.
Nelle ultime 48 ore, infatti, i negoziatori delle due parti hanno fornito garanzie su alcuni dei nodi che non erano stati ancora sciolti. Inizialmente i punti di attrito erano una ventina, ne sono rimasti un paio.
Ma cosa ha sbloccato la trattativa? Da parte europea, ovviamente, l’accettazione di uno “squilibrio” nelle tariffe: 15 per cento sui beni del Vecchio Continente, da zero a 4,8 per i prodotti americani. E nelle ultime ore due passaggi espliciti hanno rassicurato la Casa Bianca. Il primo si è consumato giovedì scorso a Pechino.
Il summit tra la delegazione dell’Unione e il presidente cinese Xi Jinping non ha spostato l’asse degli interessi europei. Anzi, la presidente della commissione e Antonio Costa, il presidente del Consiglio europeo, hanno indirizzato il colloquio proprio con l’obiettivo di inviare a Washington un messaggio esplicito: non apriamo un canale preferenziale con Pechino per sostituirvi.
Il secondo segnale è stato trasmesso l’altro ieri al governo statunitense e poi esplicitato ieri: l’Ue non prende in considerazione l’idea di introdurre una web tax. Le “Big Tech” come Google, Microsoft, Netflix sono infatti nel cuore di Trump e soprattutto producono nel settore dei servizi un possente saldo positivo negli scambi con l’Europa. L’Unione ha quindi voluto sgombrare il campo dagli equivoci e offrire al “Commander in Chief” un altro scalpo.
Nello stesso tempo nelle ultime ore sono arrivate dagli States due aperture fondamentali per l’economia del nostro continente. Il presidente Usa si è detto disponibile ad applicare il dazio del 15 per cento anche alle auto (ora sarebbe al 27,5 per cento) e ai medicinali per i quali Trump aveva addirittura minacciato una tariffa del 200 per cento.
Insomma l’Unione ha concesso all’alleato storico tutto il possibile pur di allontanare lo spettro del “no deal” che avrebbe avuto ripercussioni pesantissime sulla crescita. Basti pensare che anche le tariffe al 15 per cento avranno un impatto sensibile sul pil europeo che potrebbe aggirarsi nei prossimi due anni intorno allo 0,3 per cento.
Von der Leyen atterra oggi in Scozia con la convinzione di firmare l’accordo. Se così non fosse, l’Ue sarebbe costretta a dissotterrare le armi seppellite: dai controdazi per 93 miliardi di euro allo Strumento anticoercizione. E la stessa web tax.
–
(da agenzie)

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VON DER LEYEN È DISPOSTA A FARE NUOVE CONCESSIONI SULL’EXPORT PER NON INCRINARE L’ALLEANZA CON TRUMP SULLA SICUREZZA

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

L’AMBASCIATORE STEFANINI: “ANDANDO IN SCOZIA PER INCONTRARE TRUMP, VON DER LEYEN SI ACCODA AL PELLEGRINAGGIO DI LEADER CHE ACCETTANO LE SUE REGOLE DEL GIOCO. IL GUAIO È CHE PIÙ LE SUBISCONO PIÙ LE CAMBIA A PIACIMENTO…”

Di più Atlantico della Scozia c’è poco. Ultima spiaggia, o scogliera, dell’Europa, fa daperfetto sfondo all’incontro di oggi fra la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e Donald Trump che può dare una piega alle relazioni transatlantiche dell’era Trump 2.0. Il tema del colloquio sono naturalmente i dazi.
E con un Presidente americano che fa della politica tariffaria uno strumento centrale delle relazioni internazionali, i risultati dell’incontro investiranno l’intero clima dei rapporti fra Ue e Stati Uniti. Schermaglie preliminari a parte, una guerra commerciale sarebbe difficile da conciliare con un’alleanza nella sicurezza. Uno dei due deve cedere.
Il colloquio di oggi sarà principalmente commerciale; le ricadute geopolitiche. I due protagonisti lo sanno bene altrimenti non si incontrerebbero. Da mesi Ursula chiede di vedere Donald; da mesi Donald la ignora. L’unico frettoloso abboccamento è avvenuto a Roma a margine delle esequie di Papa Francesco grazie soprattutto all’intercessione di Giorgia Meloni.
Nelle ultime due-tre settimane i negoziatori Usa e Ue hanno lavorato intensamente. I termini di un accordo sono stati probabilmente raggiunti. Manca una sola cosa: il benestare del Presidente, senza il quale tutto quanto negoziato non vale niente. A Trump basterebbe annunciarlo, come ha fatto con altri. Tre righe su Truth Social.
Sceglie invece di incontrare di persona la Presidente della Commissione. Improbabile lo faccia per conversione europeista. O perché le vuole chiedere di più, nel qual caso l’accordo è a
rischio, o perché ritiene l’accordo importante, per tutto il male che dica dell’Ue.
Per von der Leyen l’importante è portare a casa l’accordo, cioè quanto i suoi negoziatori sono riusciti a ottenere. Per quanto asimmetrico è il meglio che in questa fase passi il convento Usa. Poi si vedrà. Tanto, sui dazi, con Trump non ci sarà mai pace ma tregua nel migliore dei casi altrimenti guerriglia.
Sempre preferibile a una guerra a tutto spiano che vede l’Ue obiettivamente più debole e, soprattutto, la dividerebbe. Per chiudere l’accordo bisogna andare da Trump? Così fan tutti.
C’era una volta la diplomazia del ping-pong tra Washington e Pechino. Oggi c’è la diplomazia del golf con Mar-o-Lago. O con Turberry, in Scozia.
Dove sul tavolo, o meglio sul “green”, c’è molto di più di un accordo tariffario tra Usa e Ue. Quanto a contenuti, oltre al “numero” che fissi il dazio Usa su tutte le esportazioni Ue – sarà l’ormai atteso 15%? – sarà comunque molto stringato e sommario, come tutti i precedenti (Regno Unito, Cina, Vietnam, Filippine, Giappone) stipulati in fretta e furia da quest’amministrazione americana.
Per fondamentale che sia il quantum del dazio, la discriminante geopolitica è soprattutto fra accordo e non accordo. Il non accordo sarebbe uno schiaffo in faccia degli Usa all’Ue. A quel punto la guerra commerciale diventa inevitabile.
Una guerra commerciale fra Washington e Bruxelles sfilaccerebbe il rapporto strategico e di sicurezza transatlantico. Da un divorzio euro-americano scaturirebbero due tangenti in direzioni opposte. L’una spingente l’Europa nelle braccia
mercantilistiche della Cina, pronta a fare, verso Bruxelles, ponti d’oro a parole e zero concessioni su concorrenza ed esportazioni a buon mercato – lo ha confermato il recentissimo vertice Ue-Cina conclusosi con un niente di fatto.
La seconda di accelerazione della marcia di avvicinamento di Trump a Putin, finora a singhiozzo. Un’intesa fra i due avrebbe doppia conseguenza: a breve termine, di abbandono dell’Ucraina alle mire russe; a medio termine, di disimpegno Usa dalla sicurezza europea.
Se gli interessi americani si concentrano sull’emisfero occidentale, vedi impossessarsi della Groenlandia, e sul Pacifico per il confronto con la Cina, l’Europa è costretta a far fronte da sola alla Russia, con l’Ucraina a farne le spese per prima.
Le acrobazie di Volodymir Zelenzky per rientrare nelle buone grazie di Trump si squaglierebbero come neve al sole se l’Europa perde la sponda transatlantica e gli Usa scoprono quella dell’Eurasia.
La necessità di tenere agganciata Washington sul sostegno all’Ucraina, a costo di pagare il conto dei Patriot americani a Kiev, è stata pertanto il tallone d’Achille strategico e geopolitico della saga commerciale dei dazi. Corollario di un Presidente americano per il quale la bilancia commerciale conta quanto le alleanze strategiche – tanto in Europa quanto in Asia: in questo Donald è coerente.
Andando in Scozia per incontrare Trump, von der Leyen si accoda al pellegrinaggio di leader, europei e non, che accettano le sue regole del gioco. Il guaio è che più le subiscono più le cambia a piacimento.
Non così Vladimir Putin, Xi Jinping, Benjamin Netanyahu; e neanche Mark Carney. I tre anni e mezzo che restano a Trump meritano una riflessione su come resistergli oltre che assecondarlo, ma oggi Ursula non ha scelta che cercar d’incassare l’accordo sui dazi. Per la sicurezza, nostra e di Kiev, non solo per le esportazioni.
Stefano Stefanini

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RESA DI CONTI IN VENETO TRA SALVINI E ZAIA: IL LEADER LEGHISTA INTIMA AL GOVERNATORE DI NON FARE UNA SUA LISTA (STIMATA SOPRA IL 40%) E DI CANDIDARSI COME CAPOLISTA DEL CARROCCIO

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

IL NO DEL “DOGE”, PICCATO PER LO STOP AL TERZO MANDATO: “SALVINI NON HA FATTO NULLA PER DIFENDERLO”, SI LAMENTANO I FEDELISSIMI DEL GOVERNATORE

A casa sua, nella Marca, lo paragonano a Maradona. «È come se il Napoli negli anni Ottanta non avesse fatto giocare Diego. E noi dovremmo rinunciare alla lista di Luca Zaia che cinque anni fa ha preso più voti di tutti?», si è sfogato col Gazzettino Giuseppe Fantuz, il segretario della sezione di Gaiarine, in provincia di Treviso.
Base in subbuglio, comitati di autoconvocati.
Il Veneto profondo spinge per la lista del governatore uscente alle prossime elezioni regionali d’autunno. Giorgia Meloni non la vuole. Ma anche Matteo Salvini è contrario. Teme che una lista personale possa togliere troppi voti alla Lega. Il «partito» di Zaia è stimato sopra al 40 per cento, secondo alcuni sondaggi interni. La Lega tra il 10 e il 12. Col rischio di essere superati da Forza Italia. Perciò il leader del Carroccio ha fatto sapere che non se ne parla: «Luca» dovrà accontentarsi di fare il capolista della Lega.
Ma il governatore, piccato per lo stop al terzo mandato, («Salvini non ha fatto nulla per difenderlo», si lamentano i suoi), ha già fatto trapelare che non intende più ubbidire.
E tra i motivi addotti per la resistenza ci sono proprio le richieste che arrivano dal territorio.
Nel 2020 la Lega si fermò al 17 per cento. La lista Zaia volò al 44,6. E anche stavolta uno schieramento personale potrebbe dragare i voti dei moderati che non se la sentono di mettere la croce sull’insegna leghista. Gli avversari, al contrario, temono che un successo troppo esteso possa mettere in ombra il futuro
governatore. Zaia ha fatto il Doge negli ultimi quindici anni. Non sono abbastanza? Perché insiste?
Chi ha parlato con Zaia negli ultimi mesi sa che ha fatto l’impossibile per ottenere un nuovo mandato. «Ha una passione sfrenata per il Veneto…», lo giustifica un amico. «Non mollerà». E quindi è facile immaginare che le prossime settimane saranno nel segno di un duello tra lui e Salvini, come del resto è stato in questi anni. Una partita a scacchi sotterranea, silenziosa, discreta, da democristiani.
Che ora, per la prima volta, potrebbe però esplodere pubblicamente. Del resto non è un mistero che Zaia non sia propriamente in sintonia con Salvini, col vicepremier che l’ha sempre ritenuto un avversario ingombrante, un amministratore in buoni rapporti istituzionali anche con molti del campo avverso.
L’altro giorno Zaia ha fatto gli auguri di buon compleanno al presidente Mattarella, a cui a maggio, durante la visita a Venezia del capo dello Stato, aveva donato il leone di San Marco in vetro di Murano. L’ha definito «una persona di riferimento per umanità, capacità di ascoltare e comprendere».
Si dice che per lui sia già pronta una poltrona da ministro. «Luca sarà valorizzato», ha dichiarato pubblicamente Salvini. Zaia non si tirerebbe indietro. Ma prima ci sono le elezioni. E se la vittoria del centrodestra è scontata, meno chiaro è al momento come arrivarci. Chi sarà il candidato presidente? Gli assi di Fratelli d’Italia sono due: il bellunese Luca De Carlo, 52 anni e il veneziano Raffaele Speranzon, 53. Entrambi sono senatori. Nel campo leghista il favorito è Alberto Stefani. Ha 32 anni, ma è deputato da quando ne aveva venticinque, è anche vicesegretario
della Lega (il più giovane di sempre), un enfant prodige espressione di Salvini, ma gradito anche al «partito» di Zaia.
È il presidente della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale e ha già fatto il sindaco del suo Comune, Borgoricco. Culturalmente è affine a Zaia per senso della moderazione e stile politico.
Gli altri nomi che circolano sono quelli del sindaco di Treviso, Mario Conte, e di Elisa De Berti, avvocata, già sindaca di Isola Rizza, nel Veronese, e attuale vicepresidente in Regione. La numero due di Zaia.
Chi la spunterà? Difficile dirlo.
Zaia ha fatto sapere che lui non c’entra con le manovre in corso.
Non vuole che si pensi che voglia dire la sua anche nella scelta del successore. Chiede solo di poter correre con la sua lista.
(da ilfattoquotidiano.it)

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“ECCO IL MIO PIANO DISOCCUPAZIONE ZERO”, E POSTA LA FOTO DI AUSCHWITZ: IL DELIRIO DEL REPUBBLICANO LANGFORD

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

QUESTO DEMENTE E’ IL CANDIDATO A GOVERNATORE DELLA CALIFORNIA

Torna a far parlare di sé Kyle Langford, candidato repubblicano (auto candidato a dire il vero) in corsa per la carica di governatore della California. Se ad aprile aveva proposto di costringere le donne immigrate che vivono illegalmente negli Stati Uniti a sposare “incel” americani per evitare l’espulsione, poche ore fa ha postato un “selfie” con, sullo sfondo, il campo di concentramento nazista Auschwitz. E una didascalia che non lascia spazio a dubbi: «Il mio piano disoccupazione zero».
Come se per risolvere il problema della crisi lavorativa negli USA (con enorme manovalanza straniera) basta eliminare i stessi lavoratori extracomunitari.
La risposta del museo di Auschwitz a Langford
Il post sta girando ovunque, tanto che sulla vicenda è dovuto intervenire lo stesso museo di Auschwitz. «La strumentalizzazione della tragedia di tutti coloro che furono imprigionati e assassinati nel campo di concentramento e sterminio nazista tedesco di Auschwitz per diffondere messaggi politici è un profondo fallimento morale. Auschwitz non è un oggetto di scena. Kyle Langford, il tuo post è un affronto alla dignità delle vittime e una sconvolgente dimostrazione di
insensibilità e disprezzo per l’orribile storia umana», riporta il polo museale su X.
«Sposate i nostri incel californiani»
Fervente fanatico cattolico, Langford si prepara alla corsa del 2026 al grido di “California first“. Ad aprile, durante un’apparizione al The Lilly Show della conduttrice Lilly Gaddis, fece una proposta, inquietante, diventata poi virale in rete. «Sappiamo dove siete», ha detto riferendosi alle cittadine straniere irregolari negli Usa. «Se sposate uno dei nostri incel californiani, allora potete restare. Ma se non lo fate, beh, allora verrete rimandate indietro». Non era una battuta, perché poi il repubblicano ha insistito confermando l’idea al quotidiano Newsweek. «È un’iniziativa che incoraggerà la formazione di famiglie nello Stato della California; promuovere famiglie giovani, sane e stabili è la mia priorità numero uno», ha dichiarato Langford. Finora, nonostante le controverse dichiarazioni, il partito repubblicano (e il presidente USA Donald Trump) non hanno ancora preso una posizione chiara su di lui.
(da agenzie)

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FDI PIGLIATUTTO ALLA CAMERA: PROMOSSO IL TESORIERE AMICO

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

FRATI CURO’ L’OPERAZIONE MELONIANA DEI SERVIZI

Fratelli d’Italia se la comanda a Montecitorio e non c’è tradizione o prassi che tenga: basta accordi, basta strapuntini da riservare agli altri. Il nuovo corso è da asso pigliatutto: il Palazzo
va occupato e i meloniani sono già a buon punto. L’operazione della società in house – con cui sono stati internalizzati i servizi di ristorazione, facchinaggio, pulizie (prima in appalto a ditte esterne) e soprattutto inaugurato il modo per assumere direttamente le maestranze – è stato l’antipasto.
Dopo cuochi, addetti ai cappotti, parcheggiatori, commessi di rinforzo, da parte dei meloniani è partito il corteggiamento che riguarda il personale assunto per concorso, unico metodo, almeno fin qui, per entrare alla Camera: il questore meloniano Paolo Trancassini, già tra i principali sponsor dell’operazione in house (vedi intervista sotto) nell’ultimo ufficio di presidenza ha avuto la meglio in una partita strategica e che si è conclusa con una proroga solo di pochi mesi e annesso preavviso di sgombero, a partire da gennaio, di due vicesegretari, figure che nell’ambito della geografia del potere interno a Montecitorio sono caselle ambitissime. È la rampa di lancio per la poltrona più ambita: quella del segretario generale, capo supremo dell’amministrazione. Per questo le attuali cinque caselle di vicesegretario valgono oro, un gradino appena sotto il paradiso.
Ebbene, Fratelli d’Italia ha prenotato quella attualmente occupata da Annibale Ferrari (che lavora in stretta connessione con la vicepresidente della Camera Anna Ascani del Pd): al suo posto arriverà Carlo Frati, il tesoriere capo della Camera, ma soprattutto l’uomo che ha reso possibile l’operazione in house di Cd Servizi sì cara a Trancassini.
Non ci sono ancora certezze invece per il secondo vicesegretario che sarà disponibile dopo l’addio di Costantino Rizzuto, altro “figlio” di Ugo Zampetti, deus ex machina per anni della Camera
e oggi al Quirinale al fianco di Sergio Mattarella: come per Ferrari, anche a Rizzuto è stato rinnovato l’incarico, ma solo fino a gennaio.
Ma anche ai piani più bassi Fratelli d’Italia cerca di fidelizzare le truppe. Anche a costo di scivoloni, come quello di cui è stato vittima il vicepresidente della Camera di FdI, Fabio Rampelli, che sfidando il destino ha pensato di proporre un ordine del giorno che si è trasformato in un caso politico: quello che serviva per equiparare i trattamenti della Camera a quelli, più ricchi, del Senato.
Si sa come è finita: i 5Stelle lo hanno accusato di aver tentato il blitz per aumentare gli stipendi ai deputati e lui per giustificarsi ha confessato a cosa doveva servire l’impegno di bilancio: adeguare i trattamenti dei funzionari di Montecitorio che prendono meno dei loro colleghi di Palazzo Madama. “Sono stato accusato da un gruppo di straccioni dei 5Stelle di aver tentato di aumentare di 1.000 euro al mese l’indennità dei parlamentari. Non c’è niente di più falso: ho solo chiesto agli uffici della Camera di stilare un ordine del giorno per equiparare gli istituti comuni di Camera e Senato, ma relativamente al trattamento dei dipendenti ossia dirigenti, documentaristi, archivisti, assistenti, consiglieri perché queste persone una volta assunte hanno fatto altri concorsi o cercato altre soluzioni, ad esempio al Senato o in altre istituzioni dove guadagnavano meglio”.
La manovra è fallita, ma comunque resta agli atti l’impegno e pure l’aver sfidato le polemiche.
(da ilfattoquotidiano.it))

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MELONI DIVENTA “BUONA E POP”: SI PENSA A UN FILM E A SANREMO

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

LE NUOVE LINEE PER LA COMUNICAZIONE: “BASTA ESTREMISMI IN FDI, COMPARSATA A SANREMO E UN POOL DI CRONISTI SULL’AEREO DI STATO

Allontanare l’immagine della leader troppo dura ed estremista. Per far posto alla donna di Stato e contemporaneamente nazionalpopolare che guida le cancellerie europee e media tra Stati Uniti e Ue per “tenere unito l’Occidente”, come ripete spesso. Insomma, la premier “di tutti”. È questa la nuova strategia comunicativa che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni vuole tenere da qui alle elezioni del 2027. Un cambio di immagine pubblica. Tale da coinvolgere tutto il suo staff, i vertici di Fratelli d’Italia e, si racconta, anche se la notizia non trova conferme ufficiali, un’agenzia di comunicazione statunitense.
Di come far diventare concreto questo cambio di immagine, Meloni ne ha parlato nei giorni scorsi in una riunione con il suo staff della comunicazione a Palazzo Chigi. Tutti presenti, compreso il sottosegretario e responsabile comunicazione del governo, Giovanbattista Fazzolari. L’idea, spiega una fonte a conoscenza della questione, sarebbe quella di trasformare l’immagine della premier in una leader sempre più internazionale e che parli anche ai moderati per ottenere la riconferma a Palazzo Chigi.
Venerdì, poi, lo staff si è riunito di nuovo per far partire la macchina della svolta comunicativa e dare seguito al “briefing” con Meloni. Tra le idee sul tavolo c’è quella di far partecipare la presidente del Consiglio al prossimo Festival di Sanremo, come già avvenuto nel 2023 con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e migliorare i rapporti con la stampa al seguito per
dimostrare che la premier risponde alle domande dei cronisti: non è escluso che da qui a breve Meloni e il suo staff inizino a portare con sé i giornalisti sul volo di Stato nelle missioni internazionali. L’idea è partire con un pool di poche testate – un’agenzia, un quotidiano, una tv e una all news – e poi allargare.
Parallelamente nel partito sarebbe iniziata l’organizzazione di un grande evento pre-elettorale tra un anno, nell’autunno del 2026, come fu nel 2024 a Pescara alla vigilia delle europee. E dopo l’estate inizierà anche la partita delle “liste” elettorali: anche se nel prossimo Parlamento Fratelli d’Italia riconfermerà lo stesso numero di eletti del 2022, Meloni vuole fare “piazza pulita” di molti parlamentari che si sono dimostrati inaffidabili o che hanno commesso troppe gaffe.
Quindi la riconferma e l’inserimento nelle liste elettorale si baserà su un criterio: oltre alla candidatura dei ministri uscenti in quota FdI (compreso quello della Giustizia, Carlo Nordio), Meloni non farà correre le figure “troppo estremiste”.
In questo contesto si inserisce la copertina del Time con il volto della presidente del Consiglio dal titolo Where Giorgia Meloni is leading Europe (“Dove Giorgia Meloni sta portando l’Europa”). Nell’articolo, nonostante diverse critiche, Meloni e i suoi collaboratori (compresa la sorella Arianna) si concentrano da un lato proprio sul ruolo internazionale della premier, che ha “abbracciato” l’Unione europea e la Nato; dall’altro sulle sue origini popolari, dalla Garbatella a Palazzo Chigi. Il passaggio che più si lega a questa “svolta” però è quello in cui Meloni dice: “Non sono razzista, non sono omofoba, non sono fascista, non
sono tutto quello che hanno detto”. Specularmente, un cambio di linea rispetto al “sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana” del comizio di Vox a Madrid del 2021.
La copertina di Time è servita alla premier anche per provare a spingere negli Stati Uniti la sua autobiografia uscita in Italia nel maggio 2021 (qui ha venduto oltre 170 mila copie) e tradotta a maggio anche negli Usa dal titolo I am Giorgia. My roots, my principles con la prefazione di Donald Trump junior, figlio del presidente degli Stati Uniti. Trump junior nella prefazione scrive che “Giorgia Meloni ha apportato un cambiamento duraturo nella politica italiana, proprio come mio padre qui in America”. Il libro è uscito in America il 20 maggio scorso con la casa editrice Skyhorse. Non sono ancora disponibili i primi dati di vendita negli States ma se il libro dovesse avere il successo che ha avuto in Italia l’idea sarebbe addirittura quella di trasformarlo in un film. Giorgia Meloni a Hollywood, meglio di qualsiasi spot elettorale verso il 2027.
(da Il Fatto Quotidiano)

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MELONI SUL “TIME”: LE BUGIE PER CHI NON VUOL SAPERE

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

AI GONZI BASTA UNA FOTO PER ESULTARE, SE LEGGESSERO L’ANALISI CRITICA DELL’ARTICOLO AVREBBERO POCO DA FESTEGGIARE

Luglio, caldo torrido, l’aria che scotta e la politica che – come al solito – scambia la comunicazione per una vetrina di autocompiacimento.
Il settimanale Time pubblica in copertina una Giorgia Meloni in posa imperiale, sfondo nero, camicetta blu Fratelli d’Italia, sguardo austero e rivolto dritto verso l’obiettivo, perché si sa, attiva percezione di fiducia e sicurezza, e un titolo che suona epico: Where Giorgia Meloni is Leading Europe. Apriti cielo. O, meglio, apriti social: la destra italiana parte in delirio, sventola tricolori digitali e grida al trionfo planetario. Peccato che, a leggere l’articolo (quel testo misterioso che di solito accompagna le foto) di Massimo Calabresi, la narrazione cambia. Eccome se
cambia. Non è una celebrazione, è un’analisi. E anche piuttosto spigolosa. Calabresi racconta sì una leader influente, capace di incantare Bruxelles e rassicurare Washington, ma poi scende nel dettaglio: concentrazione del potere, scarsa tolleranza per il dissenso, attacchi alla stampa libera, una linea culturale che non fa mistero delle sue radici nostalgiche. Altro che standing ovation: è un cartellino giallo.
Ma il Paese della scrollata veloce con a capo Daniela Santanchè non ha tempo per leggere. L’importante è che sembri una vittoria. È bastata una copertina e una manciata di pixel ben messi per innescare l’orgasmo identitario. Il contenuto? Superfluo. Nella Repubblica dell’Immagine, le parole sono diventate un optional, la comprensione un ostacolo, il pensiero critico una specie in via di estinzione. Siamo al punto in cui il titolo diventa verità, la foto diventa narrazione, e il brand di un giornale internazionale viene strumentalizzato come un bollino di qualità sul pacco regalo della propaganda. Non serve nemmeno forzare i contenuti: è sufficiente lasciarli intatti, tanto nessuno li leggerà.
Ma non si tratta solo di superficialità. Qui c’è qualcosa di più profondo, di più allarmante: la complicità. Il bisogno collettivo di essere raccontati in un certo modo, anche quando quel racconto è falso. È un’abdicazione cognitiva, una scelta emotiva. Il cittadino postmoderno non vuole capire, vuole sentirsi confermato. Non vuole informarsi, vuole riconoscersi. Non vuole nemmeno vedere l’orrore che c’è fuori casa, perché tanto non lo riguarda, casomai lo disturba come una pubblicità petulante e aggressiva. Lo sappiamo: il cervello umano cerca
scorciatoie. Funziona con il pilota automatico. Appena vede un segnale che sembra positivo, chiude il rubinetto del dubbio. Kahneman lo chiama Sistema 1: veloce, intuitivo, superficiale. Il Sistema 2, quello che ragiona, analizza, pesa, ormai lo accendiamo solo per scegliere tra due serie su Netflix.
Il risultato è un Paese che si beve tutto, basta che sia servito con la stimolazione percettiva giusta. Un popolo che applaude mentre lo ammoniscono, convinto di essere osannato. Una classe dirigente che ha capito che la verità è un dettaglio e l’immagine – purché condivisibile – è tutto ciò che conta.
E allora eccolo, il capolavoro: una critica alle tendenze autoritarie del governo italiano trasformata in un poster celebrativo. La stampa estera che si interroga con tono preoccupato, trattata come uno sponsor elettorale. La consapevolezza rovesciata in propaganda, e il fraintendimento eretto a strategia nazionale.
Ma non facciamoci illusioni: questo non è un incidente. È la regola. È il modello di comunicazione che ci siamo cuciti addosso. Velocità, sintesi, emotività. L’ignoranza non è più un problema, è un vantaggio. La complessità non è una sfida, è un nemico. E leggere è un atto radicale. Non è colpa di una testata, né di un algoritmo. È un intero ecosistema informativo che ha fatto pace con l’equivoco. E noi, cittadini consenzienti, siamo i primi azionisti della nostra disinformazione.
Il punto, allora, non è più chi dice cosa. È chi siamo diventati mentre nessuno dice più niente. E così ci ritroviamo qui. A battere le mani a una copertina, mentre l’articolo ci segnala che il nostro modello politico è osservato con preoccupazione. A
esultare con la benda sugli occhi. Questa non è comunicazione. È ipnosi collettiva. E non è nemmeno più manipolazione: è autogestione dell’illusione. Un teatro di specchi dove ogni riflesso ci rassicura, ci fa sentire intelligenti, protagonisti, centrali. Patologia della fragilità patriota.
E allora no, il problema non è la propaganda. Il problema siamo noi, che non vogliamo più la verità: vogliamo solo la versione che ci fa comodo. Siamo diventati consumatori di narrazioni che ci lusingano, ci narcotizzano. Scambiamo il fake per la verità e viceversa. Applaudiamo una critica perché ci piace la cornice. Sorridiamo al ritratto del nostro stesso scivolamento democratico, perché almeno ci hanno detto che siamo fotogenici.
Non è più Giorgia Meloni a portarci da qualche parte. Ci stiamo portando da soli verso un Paese dove la menzogna è più sopportabile della complessità, dove chi non legge è più influente di chi capisce, e dove la democrazia è ancora in piedi, sì ma su un pavimento che scricchiola ogni volta che si accende una notifica.
Il finale è questo: non siamo più un popolo disinformato. Siamo un popolo che sceglie di non informarsi. E chi sceglie di non sapere, ha già scelto da chi vuole farsi comandare.
(da Il Fatto Quotidiano)

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IRRUZIONE DEI MILITARI ISRAELIANI SULLA NAVE FREEDOM FLOTILLA AL LARGO DI GAZA: ARRESTATI GLI ATTIVISTI

Luglio 27th, 2025 Riccardo Fucile

LA HANDALA HA DUE ITALIANI A BORDO

La barca Handala, 37ma missione in 18 anni della Freedom Flotilla, è stata abbordata dall’Idf al largo della costa di Gaza. E gli attivisti sono stati arrestati. La nave voleva forzare il blocco marittimo per portare aiuti alla popolazione palestinese affamata. Haaretz ha riferito che le persone a bordo non hanno opposto resistenza.
Poco dopo l’irruzione dei militari israeliani, sono state interrotte le riprese live dalla nave: l’ultima immagine trasmessa mostra un soldato sequestrare una telecamera.
A bordo ci sono 21 attivisti di dieci nazionalità dell’Ong pro-palestinese, tra i quali due italiani — lo skipper Tony La Piccirella, barese, e il blogger siciliano Antonio Mazzeo. In caso di arresto avevano già annunciato che avrebbero fatto collettivamente uno sciopero della fame per protestare contro Israele e il «genocidio» di Gaza.
La missione della nave bloccata era anche un messaggio «ai governi che hanno mancato di difendere il diritto internazionale», «abbandonato i palestinesi» e «deluso l’umanità», recitava un drammatico post dell’equipaggio pubblicato su X.
L’Ong chiede ai dieci Paesi di provenienza dell’equipaggio «protezione e un salvacondotto per i loro cittadini a bordo», che «stanno facendo ciò che dovrebbero fare i governi», cioè portare
aiuti umanitari a «rompere l’assedio illegale di Israele su Gaza».
La Handala è partita il 13 luglio da Siracusa e aveva già superato il punto in cui il 9 giugno fu intercettata e portata al porto israeliano di Ashdod la missione precedente della Flotilla, la barca a vela Madleen con a bordo anche l’attivista svedese Greta Thunberg.
(da agenzie)

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