Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
JOHN CLARKE: “L’UE SI E’ ILLUSA CHE AVREBBE POTUTO STRAPPARE UN ACCORDO SERIO”
Nello sterminato elenco di reazioni che ha fatto seguito all’accordo sui dazi siglato tra Donald Trump e Ursula von der Leyen è difficile trovare qualcuno che applauda al risultato ottenuto dall’Unione europea. I giudizi negativi sono piovuti un po’ dappertutto: governi, imprese, associazioni di categoria e non solo. Bruxelles si difende dicendo che l’accordo – siglato a Turnberry, in Scozia, in un golf club di proprietà del presidente americano – ha permesso di scongiurare lo scenario peggiore: dazi al 30% su tutto l’export europeo. Ma davvero non c’era alcuna alternativa? «L’Ue ha dimostrato di essere un negoziatore molto debole, la sua credibilità è stata danneggiata per sempre», spiega in questa intervista a Open John Clarke, ex negoziatore commerciale della Commissione europea ed ex capo della delegazione Ue presso il Wto e l’Onu
Ha scritto sui social che l’accordo di Turnberry potrebbe passare alla storia come uno dei peggiori accordi commerciali di sempre. Perché?
«Per due ragioni. La prima è che, a differenza di qualunque altro accordo commerciale, riduce il commercio invece di aumentarlo. Imporre un dazio del 15% su quasi tutto l’export europeo danneggerà le imprese e aumenterà i costi per i consumatori. Francamente, credo che si tratti di un accordo anti-commerciale. La seconda ragione ha a che fare con le conseguenze sul lungo termine».
Cosa intende?
«L’Unione europea ha dimostrato di essere un negoziatore molto debole. Nonostante sia il più grande blocco commerciale del mondo e nonostante abbia una politica commerciale comune, l’Ue ha approcciato questi negoziati credendo di avere a che fare con un partner razionale intenzionato a siglare un accordo win-win. Ma questo non è affatto l’approccio di Donald Trump e l’Ue non l’ha capito. In più, gli Stati membri erano divisi sulle contromisure da adottare e la mancanza di unità si è trasformata in un handicap per i negoziatori della Commissione europea».
E quali sono le conseguenze sul lungo periodo di cui parla?
«Penso che la credibilità dell’Unione europea sia stata danneggiata per sempre e che la politica commerciale comune si sia dimostrata fallace. D’ora in poi saremo più deboli sullo scacchiere internazionale e credo che la Cina abbia preso nota di questo accordo con gli Stati Uniti e abbia visto quanto impotente è l’Europa».
Eppure, dalla Commissione europea continuano a ripetere che il peggio – ossia i dazi al 30% – è stato scongiurato. Hanno ragione? Davvero non c’era alcuna alternativa?
«È vero, c’erano alternative peggiori. Un dazio al 30% avrebb
danneggiato moltissimo le imprese europee e l’Ue non si puòpermettere una guerra commerciale con gli Usa. Questo accordo è stato un esercizio di limitazione del danno. Quindi sì, da un certo punto di vista la Commissione europea ha ragione. Ma comunque non c’è molto di cui essere contenti».
Pensa che l’Ue avrebbe dovuto adottare un approccio più duro di fronte alle minacce di Trump?
«Sì, avrebbe potuto e avrebbe dovuto essere più risoluta fin all’inizio, quando a inizio aprile Trump ha iniziato a imporre dazi. La Cina è stata dura, il Canada è stato duro e lo stesso ha fatto il Giappone, almeno per un po’ di tempo. Anche l’Unione europea avrebbe dovuto fare lo stesso. Credo che Trump sarebbe tornato sui suoi passi se l’Ue si fosse unita fin da subito per approvare contromisure solide».
trump accordo dazi usa ueEPA/Tolga Akmen | Il presidente americano Donald Trump
Lei dice che l’accordo Ue-Usa ridurrà il commercio tra le due sponde dell’Atlantico. Eppure, l’Ue si è impegnata ad acquistare armi ed energia per svariate centinaia di miliardi di dollari. Questo non vuol dire che, almeno in quei due settori, gli scambi aumenteranno?
«Questa è una di quelle parti dell’accordo su cui Usa e Ue hanno detto cose molto differenti nelle rispettive dichiarazioni alla stampa. Washington parla di un chiaro impegno da parte dell’Europa di comprare armamenti, energia e investire nella manifattura americana, ma l’Ue non può fare una promessa del genere e in conferenza stampa ha spiegato che quei numeri riflettono l’intenzione del settore privato e le prospettive di investimento in questi settori».
Per quanto riguarda l’energia, peraltro, sono le imprese a comprare il gas, non i governi.
«Non esiste uno strumento attraverso cui i governi possono costringere le aziende a comprare gas da uno Stato e non da u altro. Ciò che può fare l’Europa è continuare a limitare l’importazione di energia dalla Russia, così da spingere le imprese a cercarla altrove. Se il petrolio o il gas naturale liquefatto americani avranno prezzi attrattivi, le imprese li compreranno, altrimenti no».
La promessa di acquistare combustibili fossili e armi dagli Stati Uniti non contraddice gli obiettivi del Green Deal e di autonomia strategica?
«Questo accordo è pieno di contraddizioni. Molta dell’energia che sarà acquistata dagli Usa è di origine fossile, che è in contrasto con gli obiettivi di sostenibilità europei e provocherà un aumento delle emissioni di gas serra. Quindi sì, si muove in direzione opposta al Green Deal, che è già oggetto di continue modifiche, perciò non credo che sarà una grossa preoccupazione per von der Leyen. Per quanto riguarda le armi, gli investimenti negli Usa vanno senz’altro contro le raccomandazioni dei report di Draghi e Letta, che chiedevano più investimenti in Europa».
sefcovic usa ue accordo daziEPA/Guillaume Horcajuelo | Il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic
Chi ha la “colpa” per questo accordo così sbilanciato? La Commissione europea o i governi?
«Non mi piace molto l’idea di addossare le colpe per ciò che è successo, ma credo che la Commissione sia stata molto naive nel modo in cui ha approcciato le trattative. Detto questo, sono sicuro che la Commissione avrebbe preferito avere un solito supporto degli Stati membri per rispondere ai dazi di Trump, ma questo non è avvenuto. L’Italia e la Germania, in particolare, sono state molto caute, a differenza della Francia».
Molti governi hanno criticato apertamente l’accordo raggiunto tra von der Leyen e Trump. Cosa può accadere ora? C’è ancora spazio per ottenere qualche concessione in più rispetto a quanto annunciato?«Come disse Winston Churchill, questa è solo la fine
dell’inizio. Ci sono ancora molte questioni irrisolte, a partire da cosa prevede l’accordo per le auto, la farmaceutica o per l’approvazione di quote nel commercio di acciaio e alluminio. C’è ancora molta confusione su ciò che è stato già deciso e ciò che è ancora da decidere, il diavolo sta nei dettagli e ci sono ancora molti nodi da sciogliere. Quindi no, non è ancora finita. In più, negli Usa continuano a esserci cause legali in corso sull’effettiva legalità dei dazi di Trump».
Nei mesi scorsi, Giorgia Meloni si è fatta avanti per fare da ponte tra Usa e Ue e strappare un accordo migliore. Ha fallito? Oppure non le è stata data la chance di provarci?
«Sicuramente non ha avuto successo, e non perché la Commissione europea ha provato a trattenerla. Anzi, Meloni è andata a trovare Trump nello Studio Ovale e ha chiarito fin da subito che non era lei a guidare le trattative per l’Europa. È stata fedele all’Ue e ha facilitato il dialogo, ma la sua strategia non ha funzionato. In fin dei conti, a Trump non importa di lei. Gli importa solo dei suoi dazi e di far arricchire se stesso e i suoi amici».
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
STARMER: “CRISI UMANTARIA INACCETTABILE E DISGUSTOSA”
Secondo quanto riportato dal New York Times, più di 250 deputati di nove partiti hanno
sottoscritto una lettera inidirizzata a Starmer e al ministro degli Esteri inglese, sollecitando il riconoscimento dello Stato palestinese
Anche il primo ministro britannico, Keir Starmer, starebbe valutando seriamente il riconoscimento dello Stato palestinese. A riportarlo è il New York Times, secondo cui le pressioni interne, accentuate dall’aggravarsi della crisi umanitaria a Gaza, stanno spingendo Downing Street a fare un passo nella direzione già annunciata dalla Francia qualche giorno fa.
La spinta del Parlamento
Nonostante la pausa estiva, Starmer ha convocato il consiglio dei ministri per discutere un nuovo piano britannico per la pace in Medio Oriente. Il documento, elaborato con Francia e Germania, è stato già presentato a Donald Trump durante l’incontro avvenuto in Scozia. L’obiettivo: affrontare quella che il premier ha definito «un’inaccettabile e disgustosa crisi umanitaria» e gettare le basi per una pace sostenibile e duratura. Il riconoscimento della Palestina, considerato da Starmer «undiritto inalienabile», è un tema caldo tra molti dei parlamentari di Westminster. Più di 250 parlamentari di nove diversi partiti, incluso quello di Starmer, hanno firmato una lettera indirizzata a Starmer e al ministro degli Esteri David Lammy per chiedere un gesto forte in occasione della conferenza delle Nazioni Unite di questa settimana, dedicata alla soluzione dei due Stati.
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
“ABBIAMO STIMATO 22,6 MILIARDI DI EURO DI MINORI VENDITE NEGLI USA” – ORSINI BOCCIA L’IPOTESI DEL GOVERNO DI USARE PARTE DELLE RISORSE DEL PNRR PER AIUTARE LE AZIENDE COLPITE DALLA GUERRA COMMERCIALE: “NO, I SOLDI DEL PNRR VANNO UTILIZZATI PER GLI INVESTIMENTI IN INDUSTRIA E PRODUTTIVITÀ. SERVE UNA RISPOSTA ALL’ALTEZZA”
L’Europa ha preso una sberla», dice il presidente di Confindustria Emanuele Orsini, il giorno dopo l’accordo commerciale con gli Stati Uniti e quelle tariffe unilaterali al 15% ingoiate dall’Unione. «Ora deve mostrare di saper reagire, come è riuscita a fare dopo il Covid, compensando le imprese colpite, aprendo nuovi mercati e mettendo davvero l’industria al centro con un piano straordinario».
Presidente Orsini: una tariffa al 15% è gestibile per le imprese italiane, come dice la premier Meloni, oppure no?
«Ogni scenario con dazi superiori allo zero per noi è un problema, è chiaro che nessun imprenditore oggi è contento. E neanche io lo sono. Per non fermarmi a una risposta di pancia però bisogna allargare il ragionamento.
Se tutti i Paesi del mondo fossero sulla stessa linea di partenza, con dazi simili, le direi che il made in Italy può restare competitivo anche con questo 15%. Ma se ai dazi si somma pure la svalutazione del dollaro rispetto all’euro, che è del 12-13%
dall’inizio dell’anno e in prospettiva potrebbe arrivare al 20, il problema per noi diventa enorme».
Quanto enorme?
«Abbiamo stimato 22,6 miliardi di euro di minori vendite negli Stati Uniti. L’impatto più importante sarebbe per i settori dei macchinari, della farmaceutica e dell’alimentare, e poi a scendere per tutti gli altri».
Pensa che le aziende più strutturate sposteranno la produzione negli Stati Uniti? È uno degli obiettivi di Trump…
«Non credo che siano questi dazi a far spostare gli imprenditori, per vari motivi. Il primo è che negli Stati Uniti trovare manodopera, soprattutto qualificata, è molto difficile. Il secondo è che per molte imprese è proprio il fatto di vendere un prodotto italiano a fare la differenza».
Quindi le aziende cosa faranno? Scaricheranno l’extra sui clienti o proveranno ad assorbirlo?
«Alcuni prodotti italiani sono insostituibili per gli Stati Uniti, penso per esempio a molti farmaci. Altre eccellenze potranno restare comunque competitive alzando i prezzi. Detto questo, anche per chi ha produzioni di alta qualità, il combinato di dazi e tasso di cambio è un colpo difficile da assorbire».
Per l’Italia è uno scenario da recessione?
«No, non da recessione: non dimentichiamoci che le nostre esportazioni globali valgono oltre 600 miliardi di euro. Ma senza una reazione significherebbe restare fermi a una crescita da zero virgola. Per questo dico che non c’è più tempo per l’Europa, che serve una grande sveglia»
Quindi di che reazione parla?
«Serve un piano straordinario europeo per l’industria, che abbatta i dazi interni della burocrazia e – come ha raccomandato Draghi nel suo rapporto – mobiliti investimenti in deroga al patto di stabilità, come è stato fatto per la difesa. È necessario aprire subito nuovi mercati alternativi, non è possibile che si aspetti ancora per il voto definitivo sull’accordo di libero scambio con il Mercosur, che a regime può valere 30 miliardi per le imprese europee e tra i 4 e i 7 per quelle italiane. E poi servono delle compensazioni per i settori più colpiti dai dazi».
Il governo italiano ipotizza di usare per questo parte delle risorse del Pnrr che non riusciremo a spendere. Siete d’accordo?
«No, i soldi del Pnrr vanno utilizzati per gli investimenti in industria e produttività. La Zes unica per il Mezzogiorno è il modello: uno stanziamento di risorse pubbliche per 4,8 miliardi negli ultimi due anni ha generato investimenti privati da parte delle imprese per 28, con 35 mila posti di lavoro. Questa è la parte di risposta che ci aspettiamo dall’Italia, interventi per aiutare a crescere un tessuto produttivo che oggi è composto ancora per il 94% da medie e piccole imprese. Le compensazioni per i dazi invece devono venire dall’Europa».
I soldi del Pnrr da lì vengono…
«Ma sono già assegnati all’Italia, in parte sotto forma di debito. Queste devono essere nuove risorse europee, visto che è stata l’Europa, come è giusto, a trattare questo accordo per tutti i 27. All’occorrenza c’è anche lo strumento degli eurobond».
Investimenti comuni, eurobond: sa benissimo che la resistenza a tutte queste proposte viene dai governi, non certo da Bruxelles.«I governi eletti devono decidere, è la democrazia. Ed è chiaro che non tutti i Paesi hanno gli stessi interessi. Ma ricordiamoci anche che l’euro non è stato fatto da tutti, bensì da un gruppo di Paesi che si è lanciato in avanti»
In tutti questi mesi si è detto che la vera tassa che Trump fa pagare agli altri Paesi e alle loro aziende è l’incertezza. Questo accordo rende almeno più chiaro lo scenario per voi imprenditori oppure teme che il presidente americano lo possa ribaltare da un momento all’altro?
«Come ogni volta che si subisce una sberla credo che ci vorrà un po’ di tempo per riprendersi, l’incertezza non passerà subito».
Ma passerà mai con Trump?
«Mettiamola così: se ho un interlocutore volatile, che cambia le regole del gioco a piacimento, la chiave è averne meno bisogno possibile. Ecco, io penso che a determinare davvero il sentimento degli imprenditori sarà il fatto di vedere una risposta all’altezza, oppure no».
(da La Repubblica”)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
DOPO AVER PRESSATO L’UE PER CEDERE A TRUMP, ORA PRETENDE CHE SIA L’EUROPA A PAGARE.
Le mani libere sugli aiuti di Stato per sostenere i settori più colpiti. Con soldi europei. Fino
a 25 miliardi, pescando dal Pnrr e i fondi di coesione. Quando al mattino i ministri coinvolti in prima linea nel dossier sui dazi si sentono al telefono, l’etichetta posta sulla strategia degli aiuti alle imprese italiane recita così: paga l’Europa. Perché — ragionano i titolari di Imprese, Esteri e Agricoltura — è la Ue che ha chiuso l’accordo con Donald Trump e per questo — insistono — «il conto ora deve essere caricato su Bruxelles».
La regia delle contromosse è a Palazzo Chigi. È da qui che partono le prime direttive ai titolari dei dicasteri chiamati a tessere la rete dei sussidi. Con una premessa. La fissa Giorgia Meloni da Addis Abeba quando sente al telefono il suo vice Antonio Tajani. L’atto iniziale è il confronto con le imprese. Per questo il titolare degli Esteri convoca subito una riunione alla Farnesina con le associazioni più rappresentative. Ai presenti spiega che si è evitato lo scenario peggiore, quello dei dazi al
30%, ma alla riunione non tira aria di festeggiamenti.
«Non c’è nulla da brindare, il contesto è complesso», rivela una fonte governativa di primo livello. Il convitato di pietra è il rischio che i dettagli dell’accordo, fino a ieri sera ancora non del tutto chiari, presentino un saldo più negativo rispetto alle valutazioni fatte a poche ore dalla firma dell’intesa tra Usa e Ue.
Un passo per volta. Il prossimo è evitare brutte sorprese dall’accordo politico che sarà finalizzato entro il primo agosto. Poi la trattativa sull’accordo relativo al commercio reciproco, che è vincolante a livello giuridico. Tra i settori che l’Italia vuole tutelare c’è quello vitivinicolo.
Per queste ragioni, Tajani annuncia l’attivazione di una task force permanente sui dazi. Aiuterà le imprese a mettere a fuoco le priorità durante i negoziati. Oggi nuovo appuntamento al ministero delle Imprese, dove il padrone di casa, Adolfo Urso, sarà affiancato proprio da Tajani alla riunione del Comitato attrazione investimenti esteri (Caie) che sarà tutta dedicata all’impatto delle nuove tariffe. Sono tutte iniziative che puntano a rafforzare le connessioni con le imprese. Ma le incognite sono ancora troppe per definire una strategia compiuta.
Lo schema dei ristori alle imprese ha bisogno del via libera della Ue.
L’idea allo studio del governo è dirottare 25 miliardi dal Pnrr e i fondi di coesione verso le attività che saranno più danneggiate. In cima alla lista ci sono le aziende della meccanica e dell’agroalimentare, insieme a quelle della farmaceutica. Dallo stralcio degli investimenti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza sono attesi circa 14 miliardi: i fondi saranno congelati dentro veicoli finanziari e potranno essere spesi entro il 2028. Dalla riconversione dei progetti della Coesione dovrebbero arrivare invece circa 7-8 miliardi.
Un contributo è atteso anche dal Fondo sociale per il clima. Ma
le risorse, una volta liberate, non saranno utilizzabili per gli indennizzi in modo automatico. Serve il via libera della Ue che vigila sugli aiuti diretti alle imprese da parte degli Stati.
Gli aiuti alle filiere Nella lista delle richieste potrebbero rientrare anche i sostegni dedicati alle filiere. Non però a quelle nazionali. Per strappare un finanziamento europeo, l’ipotesi caldeggiata in ambienti di governo guarda a sostegni transnazionali, calibrati appunti sulle filiere dei settori più colpiti dai dazi. Tajani propone anche di modificare lo Sme supporting factor, il programma che agevola il credito alle piccole e medie imprese.
Il no alla manovra correttiva Il vicepremier esclude il ricorso a una correzione dei conti. «Ancora non sappiamo l’effetto reale…», taglia corto. La manovra correttiva è un’ipotesi che non rientra neanche nei piani di Palazzo Chigi.
La richiesta alla Bce: giù i tassi Sempre Tajani chiede un intervento della Bce: «Ritengo si debba ridurre ancora il costo del denaro: ora siamo al 2%, si può arrivare anche a zero, e si può pensare e al quantitative easing, cioè all’acquisto da parte della Bce di titoli di Stato di Paesi dell’Unione».
Le difficoltà sul Patto di stabilità Il governo non intende derogare alle regole del Patto di stabilità. L’obiettivo, infatti, è evitare di fare nuovo debito preservando così il tentativo di portare il deficit sotto al 3% già in autunno. Un risultato che garantirebbe l’uscita dalla procedura d’infrazione entro la metà del 2026.
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
CI SONO ASSOCIAZIONI EBRAICHE CHE DOCUMENTANO I MORTI DELLA STRISCIA, LE IMMAGINI DELLA CARESTIA ARRIVANO IN TV, I RISERVISTI BRUCIANO LE LETTERE DI RICHIAMO AL FRONTE, LE UNIVERSITÀ CHIEDONO LA “FINE DELLA FAME” E C’È CHI ARRIVA A PARLARE PERSINO DI GENOCIDIO
Adi Ronen Argov ha acceso la luce quando nessuno voleva vedere. In Cisgiordania, documentando le giovani vittime dell’occupazione israeliana.
E dopo il 7 ottobre, raccogliendo metodicamente i nomi, i volti, le voci dei bambini uccisi nell’infernale sequenza di guerre che ha investito Israele e la Palestina: gli israeliani massacrati da Hamas; i libanesi e gli iraniani sepolti dalle bombe di Israele. Soprattutto, i bambini di Gaza
Forcibly Involved, il sito che ha fondato, è diventato l’unico archivio-testimonianza in ebraico delle piccole vittime della Striscia, commemorate senza infingimenti, mostrando i corpi, il sangue.
«Abbiamo raggiunto un livello di violenza e crudeltà tale che cercare di rendere le cose accettabili per chi si rifiuta di sapere è come sostenere la tossicodipendenza di qualcuno. Non abbellirò la realtà», spiega ad Haaretz questa psicologa di 59 anni, che è diventata da sola un sito di informazione.
Le foto dei bimbi di Gaza hanno aperto una breccia: stampate su grandi cartelloni, accompagnano ora le manifestazioni contro la guerra sempre più partecipate in Israele. Puntellano gli incroci delle città come Tel Aviv, i parchi di Gerusalemme, l’ingresso delle basi militari. Sono le facce del dissenso che monta in Israele contro la guerra di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir, straripa oltre le piazze, tocca l’élite, gli intellettuali, i media.
Per la prima volta, le immagini della fame a Gaza bucano le reti televisive mainstream, appaiono sul Canale 12, che è pubblico. Gruppi di riservisti bruciano in strada le lettere che li richiamano al fronte, perché, dicono, «non vogliamo renderci complici». I numeri dei suicidi tra i soldati crescono: 21 nel 2024, 17 in questa prima metà dell’anno.
I rettori di cinque università israeliane scrivono al premier perché con urgenza metta fine alla «grave crisi della fame» che sta «causando danni immensi ai civili, compresi bambini e neonati», nella Striscia. E per la prima volta una organizzazione israeliana, B’Tselem, che da anni si occupa di monitorare le violazioni dei diritti umani in Cisgiordania, pubblica un rapporto che parla apertamente di «genocidio» a Gaza.
(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
URSULA SI RITROVA 27 PAESI ALLE SPALLE, OGNUNO CON I SUOI INTERESSI, SPESSO CONFLIGGENTI: MENTRE MACRON AVREBBE VOLUTO USARE IL BAZOOKA CONTRO IL ”DAZISTA”, COME LA CINA, CHE HA TENUTO TESTA, DA VERA POTENZA, A WASHINGTON, MERZ E MELONI ERANO PER IL “DIALOGO”, TERRORIZZATI DALLE “VENDETTE” POLITICHE CHE TRUMP AVREBBE POTUTO METTERE IN ATTO … MELONI SA BENE CHE IL PEGGIO DEVE ANCORA VENIRE: LA STANGATA SULL’ECONOMIA ITALIANA DOVUTA AI DAZI SI ANDRÀ AD ACCAVALLARE ALLA FINE DEL PNRR E AI SALARI PIÙ BASSI D’EUROPA
Siamo davvero sicuri che l’unica grande colpevole della ”doccia scozzese” dell’Unione
Europea, con i dazi trumpiani al 15%, più pesanti imposizioni su gas e armi, sia Ursula von der Leyen?
La presidente della Commissione Ue è oggi nel mirino di politici e commentatori per aver messo la faccia sull’accordo doloroso e oneroso per i 27 Stati membri, ma trasformarla in capro espiatorio è un atto di grande ipocrisia.
Innanzitutto, trattare con Donald Trump non è mai facile. Da immobiliarista e giocatore di poker, il tycoon è un osso duro, che non deve rendere conto ad altri delle sue decisioni.
Si muove in modo volatile, ribalta il tavolo quando gli occorre senza che qualcuno possa interferire con le sue mosse. Ursula, invece, ha 27 Paesi alle spalle, ognuno con i suoi interessi, le sue priorità, e fare la sintesi di una pletora di posizioni spesso confliggenti non è un pranzo di gala.
In vista del faccia a faccia con Trump in Scozia, venerdì scorso Lady Ursula ha contattato telefonicamente i principali leader dell’Unione (Macron, Merz, Tusk, Sanchez, Meloni) per condividere la strategia.
Non voleva ritrovarsi un fucile puntato alla schiena un secondo dopo l’accordo. Infatti, il cancelliere tedesco, Merz, ha ammesso che l’intesa produrrà “danni sostanziali”, ma ha dato la sua copertura politica alla connazionale Ursula: “Non potevamo ottenere di più”.
I timori dell’ex cocca di Angela Merkel erano legati alla posizione intransigente di Macron, che avrebbe voluto colpo su colpo a Trump, come ha fatto la Cina, utilizzando il bazooka dello strumento anti-coercizione.
D’altronde, lo stesso presidente francese, quando Trump evocò i dazi al 30% per l’Unione europea, non ebbe tentennamenti sul da farsi: Bruxelles avrebbe dovuto subito rispondere, dismettendo le sue quote di debito pubblico americano (è andata all’opposto, come scriveva ieri Federico Fubini, gli acquisti di T-bond da parte degli stati europei sono cresciuti di 400 miliardi di dollari).
La linea “bazooka” immaginata da Macron si è annacquata tra i cacadubbi e “patrioti” filo-putiniani di Bruxelles e i principali leader europei, con Fredrich Merz e Giorgia Meloni in testa, che hanno fatto pressioni sulla povera Ursula: la guerra commerciale
con gli Stati Uniti è una sciagura che va evitata.
Alla linea dura di Macron, Meloni e Merz hanno risposto sollevando non solo le possibili ripercussioni economiche, ma sottolineando le “vendette” politiche che Trump avrebbe potuto consumare nei confronti dei Paesi europei, dal possibile disimpegno sull’Ucraina all’uscita degli States dalla Nato, fino al ritiro dallo scacchiere mediorientale, fronte su cui l’Europa non tocca palla.
Caro Macron, gentile Ursula, i paesi europei hanno intenzione e capacità di accollarsi le conseguenze delle ritorsioni multiple di Trump? Questa è la domandina del duplex Meloni-Merz che ha portato l’ex cocca di Angela Merkel a presentarsi disarmata all’incontro scozzese con il Caligola della Casa Bianca.
I dazi al 15% sono sembrati, agli occhi dei “dialoganti”, il male minore, a conferma che l’Unione europea è una conventicola di nazionalismi in cui nessuno riesce a elaborare una visione più alta, che vada oltre il proprio orticello (e fino a quando non riusciranno a far fuori il voto all’unanimità l’Ue, davanti a un Trump, sarà sempre debole).
Anche Giorgia Meloni ha commentato con il solito paraculismo la stangata dei dazi: ha nascosto la preoccupazione per le ripercussioni economiche sul Made in Italy, parlando di ”un accordo ancora da mettere a punto”.
“Bisognerà studiare i dettagli, bisognerà lavorare ancora perché quello che è stato sottoscritto è un accordo giuridicamente non vincolante, di massima. C’è ancora da battersi e all’esito di questo lavoro bisognerà lavorare per aiutare quei settori che dovessero essere particolarmente coinvolti. E’ il lavoro che
faremo nei prossimi giorni”.
Nonostante le dichiarazioni prudenti e un eccesso di cautela, anche per non indispettire l’amico (de che?) Trump, la Statista della Garbatella sa bene che il peggio deve ancora venire: la stangata sull’economia italiana dovuta ai dazi si andrà ad accavallare alla fine del Pnrr, al debole potere d’acquisto dei cittadini, afflitti dai salari con la crescita più bassa d’Europa.
Un mix pericoloso che lascia temere non solo un autunno rovente, sia economicamente che politicamente (con il test delle Regionali), ma preannuncia un 2026 da sudori freddi (le tasche dei consumatori italiani si accorgeranno degli effetti dei dazi, e bene, tra 7/8 mesi)
(da Dagoreport)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
MA E’ DALLA SUA GERMANIA CHE URSULA PRENDE I CEFFONI PIU’ FORTI …IL CANCELLIERE MERZ CI VA GIU’ DURO: “L’INDUSTRIA TEDESCA SUBIRA’ DANNI ENORMI” … IL QUOTIDIANO CONSERVATORE “FAZ”, DA SEMPRE VICINO AL PPE, RANDELLA: “L’EUROPA SI AUTO RIMPICCIOLISCE” – LO SPIEGEL PARLA DI “CAPITOLAZIONE” DELL’UE, LE IMPRESE DELL’ACCIAIO WV STAHL EVOCANO UNA “CATASTROFE”
L’accordo siglato da Ursula von der Leyen piace a pochi. I più hanno scelto la linea della cautela ma chi non lo ha fatto, come la Francia, ha parlato di “giorno più buio” e di “sottomissione” agli Usa. E perfino Berlino, dopo aver letto meglio i termini dell’accordo, ha lanciato l’allarme. Delle tre grandi potenze economiche del continente la reazione più negativa arriva da Parigi. «È una giornata buia» ha commentato il premier François Bayrou qualche ora dopo l’annuncio dell’intesa. Bayrou parla addirittura di un’Europa che «si rassegna alla sottomissione».
Per tutta la giornata di ieri Emmanuel Macron ha scelto il silenzio la stretta di mano tra il leader Usa e la presidente della Commissione in Scozia deve essere ancora tradotta in un testo scritto e concordato, punto per punto, dalle due sponde dell’Atlantico entro il 1 agosto. La Francia insiste per continuare a lavorare per «riequilibrare la situazione», soprattutto per quanto riguarda i servizi, dato che l’accordo riguarda i beni. […]
In Spagna, il premier Pedro Sanchez, sempre ostile a Trump e che già si era opposto al diktat americano sulle spese militari dell’Ue nella Nato, spiega di «sostenere l’accordo, ma senza entusiasmo». Per comprendere il clima in Germania è sufficiente osservare il cambio d’umore di Friedrich Merz, il principale architetto dell’appeasement con Trump. A caldo il cancelliere
tedesco aveva espresso «un grande ringraziamento» a von der Leyen per l’intesa con Trump.
A distanza di poche ore, dopo la levata di scudi di mezza Germania, Merz ha ammesso che l’industria tedesca «subirà danni enormi» e ha ammesso di «non essere soddisfatto». Aggiungendo però che «di più non si poteva fare».
Un’affermazione discutibile, dopo la resa incondizionata ai diktat del presidente americano imposta da Berlino all’intera Ue. Un’ammissione arrivata dopo essere stato travolto dalla rivolta delle aziende e dai commenti al vetriolo dei principali quotidiani, in testa la conservatrice Faz, da sempre vicina al partito del cancelliere e von der Leyen: «L’Europa si auto rimpicciolisce», è forse una delle sintesi migliori della giornata, insieme a “capitolazione” dello Spiegel. Ma se la Confindustria tedesca Bdi parla di «segnale fatale» di un «compromesso insufficiente», le potenti imprese dell’acciaio Wv Stahl sottolineano una «catastrofe» e da uno dei colossi dell’energia trapela: «Siamo senza parole».
Il settore è sgomento per l’invasione di gas, carbone e petrolio americano accettata da von der Leyen. Anche dal settore dell’auto arriva un giudizio fatale: «Questa è pura sottomissione», ha commentato un top manager a Spiegel, a microfoni spenti.
Anche da Est arrivano segnali di rivolta. Secondo Orban il presidente americano «si è mangiato la presidente della Commissione europea a colazione».
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(da agenzie)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
LA SCULTURA SAREBBE TRE VOLTE PIÙ ALTA DELLA CATTEDRALE, PATRIMONIO DELL’UNESCO, DELLA CITTÀ SPAGNOLA
Dopo il rifiuto di Madrid, dovrebbe essere la città di Burgos a ospitare quella che il partito
di estrema destra Vox ha già definito la nuova icona del turismo spagnolo: un toro di metallo alto 300 metri di cui l’Accademia di Tauromachia coprirebbe i costi di realizzazione.
Per il vicesindaco della città di 175 mila abitanti, Fernando Martínez-Acitores, di Vox, nonostante le 700 mila firme raccolte dai cittadini spagnoli per chiedere che la corrida smetta di essere parte del patrimonio culturale del Paese, la costruzione del toro gigante sarebbe «un’opportunità unica». Un modo, per Burgos, per acquisire un «grande simbolo di attrazione turistica» che, come la Torre Eiffel in Francia o il Colosseo in Italia, attirerebbe turisti nazionali e internazionali.
Così Martínez-Acitores ha chiesto al Consiglio comunale e alla sindaca, Cristina Ayala, del Partito Popolare, di prendere sul serio la sua proposta e di discuterne affinché la città possa offrire il terreno di cui l’enorme statua – la cui altezza triplicherebbe quella della locale cattedrale patrimonio dell’Unesco, di 112 metri – ha bisogno per essere costruita. Il mega toro, secondo il progetto presentato da Jorge Álvarez, presidente e fondatore dell’Accademia di Tauromachia spagnola, dovrebbe avere sulle
corna alcune piattaforme panoramiche.
L’ex sindaco e membro del Psoe, oggi all’opposizione, Daniel de la Rosa, spiega a El Paíis che quando ha sentito la notizia ha pensato che fosse uno scherzo: «Il problema è che non lo è. Nei miei 14 anni a Burgos non c’è mai stata un’idea così folle. Dimostra l’incapacità dell’estrema destra di fare proposte, costretta a ricorrere a questo tipo di cose per attirare l’attenzione».
A trovare assurda l’idea del vicesindaco, c’è anche Judith Sánchez, portavoce dell’associazione per i diritti degli animali ProAnBur, che aggiunge: «Questa iniziativa di Vox manca completamente di sensibilità e, visto il dibattito controverso sulla corrida nel nostro Paese, mi sembra provocatorio voler imporre un simbolo che rappresenta la tortura e il maltrattamento degli animali».
(da L a Repubblica)
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Luglio 29th, 2025 Riccardo Fucile
SONO DUE GLI SCOGLI: IL PRIMO È IL DISCORSO SULLO “STATO DELL’UNIONE”. IL MALUMORE DI SOCIALISTI E LIBERALI, CHE FANNO PARTE DELLA SUA MAGGIORANZA PUÒ PORTARE A UN ALTRO “PROCESSO” POLITICO. MA SARA’ L’APPROVAZIONE DEL BILANCIO PLURIENNALE DI 2 MILA MILIARDI IL VERO TEST LE ARMI DELLA VON DER LEYEN PERÒ, RESTANO LE DEBOLEZZE ALTRUI
«Vi auguro un buon viaggio di ritorno a casa». Quando domenica sera la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha salutato i giornalisti nel resort scozzese nel quale hsiglato l’accordo con Trump, sembrava quasi che volesse augurarlo a se stessa. Perché a Palazzo Berlaymont ormai sanno che la pace sui dazi può significare la guerra dentro l’Unione. «I conti – è la frase ripetuta nella sede della Commissione europea – si fanno a settembre».
Già a inizio luglio, infatti, von der Leyen aveva subito uno smacco politico con il dissenso aperto di socialisti e liberali sulla mozione di sfiducia nei suoi confronti. Adesso la sua forza appare ancora più intaccata. Nei corridoi delle istituzioni comunitarie, infatti, la presidente della Commissione gode indubbiamente di solidità e autorevolezza. Ma la sta perdendo fuori dalla “bolla” brussellese.
La sua “squadra” è stata costruita un anno fa per non avere “competitor” interni. La struttura dell’esecutivo si fonda sulla debolezza dei commissari e su un sistema di deleghe che, alla fine, fanno riferimento solo a lei. Il suo sistema di potere nella capitale belga non è dunque intaccato.
Ma questa debolezza le si sta ritorcendo contro. Basta leggere quel che ha detto -Jorgen Warborn, portavoce del Commercio internazionale per il Ppe, ossia il partito di Ursula: «Imporre un dazio di base del 15% è una palese violazione dei principi dell’Organizzazione mondiale del commercio e un duro colpo per la competitività industriale europea». Segno che la struttura della sua forza, sebbene ancora salda, mostra qualche scricchiolio.
«La presidente si è indebolita – è il ragionamento che fanno alcuni dei suoi consiglieri – ma i leader nazionali non hanno acquistato forza». Ed è esattamente la linea di difesa che von
Leyen intende costruire in vista dei prossimi appuntamenti. Sottolineare che i governi non hanno mostrato potenza o rilancio
In autunno, però, ci sono almeno due scogli su cui rischia di incagliarsi. Il primo è il cosiddetto discorso sullo “Stato dell’Unione”. E’ una sorta di programma annuale. Il malumore di socialisti e liberali, che fanno parte della sua maggioranza può però portare a trasformare il suo discorso in un altro “processo” politico. Persino con un documento da votare nella sessione plenaria del Parlamento europeo.
L’altro, ben più importante, è l’approvazione del bilancio pluriennale. I 2 mila miliardi di euro richiesti per i prossimi sette anni saranno il vero test per la presidente della Commissione. Che ha capito che stavolta non potrà impuntarsi.
La sua tattica sarà di nuovo quella di trattare e scendere a compromessi. Cedere con flessibilità. Il bilancio rischia però di trasformarsi in una vera e propria battaglia campale per infilzare la Commissione. E al suo fianco non avrà nemmeno il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, che ha già schierato i suoi vassalli contro il bilancio e non ha mai nascosto di coltivare più di una antipatia nei confronti della sua commilitona Ursula.
Le armi della presidente della Commissione, però, restano le debolezze altrui. Fino al 2029 lei resterà al suo posto. Quasi tutti i capi di Stato e di governo dell’Ue non ci saranno più in quella data o dovranno affrontare l’esame delle urne. Un fattore non da poco. Anche se il pericolo, ben presente a Palazzo Berlaymont, è che lo scontro interno produca una paralisi nei prossimi quattro anni. Una “palude” nella quale l’esecutivo comunitario rischia di affogare trascinando l’intero Vecchio Continente.
(da agenzie)
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