Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
IL QUOTIDIANO TRANSALPINO MOTIVA LE ACCUSE DEL “TRUCE” AL PRESIDENTE FRANCESE CON LA SUA VICINANZA AL CREMLINO: “QUANDO ANCORA AVEVA DAVANTI A SÉ UNA CARRIERA PROMETTENTE, SALVINI (SOSTENITORE DELL’ANNESSIONE DELLA CRIMEA) SI ERA FATTO FOTOGRAFARE NEL 2014 SULLA PIAZZA ROSSA A MOSCA CON UNA MAGLIETTA CON IL VOLTO DEL PRESIDENTE RUSSO. NEL 2019, SALVINI AVEVA DEFINITO PUTIN “IL MIGLIOR UOMO DI STATO ATTUALMENTE SULLA TERRA”, MENTRE IL SETTIMANALE “L’ESPRESSO” AVEVA RIVELATO, NELLO STESSO ANNO, UN PRESUNTO TENTATIVO DI FINANZIAMENTO ILLECITO DELLA LEGA TRAMITE UN CONTRATTO PETROLIFERO CON LA RUSSIA”
Una foto di Matteo Salvini con alle spalle la maglietta di Vladimir Putin. Quella indossata dal leghista sulla Piazza rossa, e sventolata ai suoi danni dopo nella celebre contestazione durante la sua missione al confine polacco.
Così Le Monde sceglie di illustrare l’articolo, in cui racconta l’incidente diplomatico accaduto ieri fra Francia e Italia a causa delle uscite del vicepremier, che ha attaccato duramente Macron sulla questione delle truppe in Ucraina.
Il quotidiano francese non ha dubbi sui motivi delle provocazioni nei confronti dell’Eliseo e descrive il ministro italiano come “conosciuto per la sua vicinanza a Mosca”.
“Nel panorama politico italiano, il capo della Lega (estrema destra) si distingue come il principale responsabile politico ad aver mantenuto legami più stretti con il Cremlino”, scrive.
“Quando ancora aveva davanti a sé una carriera promettente, Salvini — sostenitore dell’annessione della Crimea — si era fatto fotografare nel 2014 sulla Piazza Rossa a Mosca con una maglietta con il volto di Vladimir Putin. Nel 2017, la Lega — partito che affonda le sue radici nell’autonomismo del Nord — aveva firmato un accordo con il partito Russia Unita, egemone a
Mosca, per poi denunciarlo solo nel 2024”.
“Nel frattempo, nel 2019, Salvini aveva definito Putin “il miglior uomo di Stato attualmente sulla Terra”, mentre il settimanale L’Espresso aveva rivelato, nello stesso anno, un presunto tentativo di finanziamento illecito della Lega tramite un contratto petrolifero con la Russia. Il fascicolo giudiziario aperto su questa vicenda è stato poi archiviato”.
Nei giorni scorsi l’ambasciatrice italiana a Parigi è stata convocata dal governo francese a causa delle ‘’inaccettabili dichiarazioni’’ che il leghista ha dedicato a Macron. Espressioni come “taches al tram” – attaccati al tram, cavatela da solo – o “Ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina” hanno aperto un fronte diplomatico tra Palazzo Chigi e l’Eliseo.
Un motivo di imbarazzo per la premier Giorgia Meloni che secondo Le Monde avrebbe lavorato recentemente per ricucire i rapporti con Macron. Ma ora – scrive il quotidiano – “nonostante la buona volontà di entrambe le parti, il suo vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, ha aggiunto una nuova voce alla lunga lista di crisi diplomatiche
(da Il Corriere della Sera)
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Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
“PER L’ELISEO E’ INSOSTENIBILE CHE MELONI NON ABBIA PRESO SUBITO LE DISTANZE DA SALVINI PERCHÉ L’USCITA DEL LEADER LEGHISTA S’INSERISCE IN UN MOMENTO DELICATO PER LE SORTI DELL’UCRAINA” (SENZA CONSIDERARE CHE SALVINI È STATO A LUNGO ALLEATO DI PUTIN)
La riconciliazione con Emmanuele Macron è durata meno di tre mesi. La
convocazione al Quai d’Orsay dell’ambasciatrice italiana per protestare contro le dichiarazioni offensive del vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini ha riaperto le crep
che, il 3 giugno scorso, la visita del presidente francese a Roma per un faccia a faccia con Giorgia Meloni era parso chiudere.
Tra Parigi e Roma è tornato il tempo della provocazione e della diffidenza. Eppure, per la leader di Fratelli d’Italia, un partito ancora spesso definito Oltralpe come di “estrema destra”, l’estate sembrava indicare una sorta di normalizzazione e di accreditamento politico.
Non solo il settimanale ultraconservatore Le Figaro Magazine aveva dedicato la copertina di giugno a Giorgia Meloni titolando elogiativamente «Le ragioni di un successo».
La presenza del capo del governo italiano accanto a Volodymyr Zelensky e ai Volenterosi il 18 agosto, all’incontro con Donald Trump alla Casa Bianca, sembrava confermare che nel gioco dell’equilibrismo tra Stati Uniti e Europa Giorgia Meloni non avrebbe alla fine mai rotto con i partner del Vecchio continente. Un’ulteriore rassicurazione per gli interlocutori europei che negli ultimi tre anni hanno scoperto la pragmatica concretezza di una leader che nel passato era stata, alla rinfusa, nemica giurata delle sanzioni contro Mosca dopo l’invasione della Crimea, sostenitrice dell’uscita dell’Italia della moneta unica e fustigatrice di quell’Unione europea a cui, alla vigilia delle vittoriose elezioni politiche del 2022, prometteva la fine della «pacchia».
Il fatto di non aver preso subito le distanze dal suo vice e leader della Lega Matteo Salvini, che già nel marzo scorso aveva dato del «matto» a Emmanuel Macron e che questa volta lo ha prosaicamente invitato ad «attaccarsi al tram» in virtù della sua presunta smania di mandare truppe in Ucraina, è considerato a Parigi un punto insostenibile. Tanto nella forma quanto nella
sostanza.
Perché l’uscita di Matteo Salvini s’inserisce in un momento in cui la partita per le sorti dell’Ucraina e quella per le garanzie di sicurezza da fornire a Kiyv diventano delicate e determinanti.
Nel comunicato rilasciato dall’Eliseo per spiegare il richiamo dell’ambasciatore italiano, la presidenza francese ha non a caso ricordato che i recenti rapporti bilaterali «hanno messo in evidenza convergenze forti tra le due capitali, in particolare per quanto riguarda il sostegno incrollabile all’Ucraina».
In sostanza, Parigi manda alla presidente Meloni un messaggio chiaro, possono essere approcci diversi nel sostegno a Kyiv ma non ci può essere ambiguità.
E ancora meno possono essere tollerati attacchi al presidente francese sulla questione ucraina da parte del numero due del governo Matteo Salvini, un politico che è stato a lungo alleato di Vladimir Putin e che continua a riprendere e diffondere parte della narrativa del Cremlino.
Da questo punto di vista, la tensione diplomatica agostana con la Francia è per Giorgia Meloni molto diversa dalle precedenti schermaglie tra Roma e Parigi.
Sia rispetto a quando, nell’ottobre 2022, il ministro francese Laurence Boone irritava il governo Meloni annunciando di voler «vigilare sul rispetto dei diritti e della libertà» in Italia, sia rispetto allo scontro del maggio 2023 nel quale il ministro dell’Interno francese Darmanin accusava la Penisola di essere «incapace di sistemare la questione migratoria»: in entrambi i casi l’intera maggioranza italiana si compattò per rigettare le accuse Parigi.
Questa volta Giorgia Meloni è chiamata a scegliere. Scegliere tra sconfessare il populismo del suo vicepremier e tacere, macchiando cosi il paziente lavoro diplomatico svolto per accreditarsi come una responsabile seria e autorevole presso i partner europei. «Si esce dall’ambiguità solo a proprio danno», scriveva nel 1600 il Cardinal di Retz, illustre politico e letterato francese nato in una famiglia di origine italiana. Oggi sarà difficile per Giorgia Meloni sfuggire.
Eric Jozsef
per “La Stampa”
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Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
“ACCOGLIAMO FAMIGLIE IN DIFFICOLTÀ. DISABILI”, MA GLI ACCERTAMENTI HANNO RIVELATO CHE VI ALLOGGIANO FAMIGLIE DI DIRIGENTI E MILITANTI…ORGANIZZANO FESTE DI PARTITO, CON TANTO DI GRIGLIATE, DOVE VENGONO RACCOLTI SOLDI
A Casa Pound a Roma l’altro ieri era tutto un mostrare i muscoli: «Non arretreremo di un millimetro. Siamo pronti a difendere lo stabile». Oggi, nella Capitale, i fascisti del terzo millennio sembrano meno spavaldi. «Non lasceremo mai il palazzo», ribadiscono. Ma si affrettano a dirsi favorevoli a una sorta di accordo per evitare lo sgombero.
Il ministro dell’Interno a Rimini l’ha detto chiaro: «Arriverà anche il turno di CasaPound». E la richiesta di censimento, come anticipato da La Stampa, pare rappresentarne il preludio. «Piantedosi ha anche parlato di regolarizzazione…». Luca Marsella, il portavoce, cerca un appiglio. «Saremmo favorevoli. Com’è accaduto, proprio a Roma, per il Porto Fluviale e il Forte Prenestino».
Il Porto Fluviale, ex caserma del Demanio che per una decina d’anni è stata occupata da famiglie in difficoltà, è stato inserito in un progetto di rigenerazione urbana. Prima i 5 Stelle, poi l’attuale amministrazione Gualtieri, grazie a fondi Pnrr e finanziamenti del ministero delle Infrastrutture, stanno realizzando case popolari. Un progetto sociale e d’accoglienza, nel centro di Roma, senza distinzioni di religione o provenienza.
Il Forte Prenestino, luogo di cultura, di festival di vini e cibi biologici, di ritrovo per bambini, giovani e famiglie, non è mai
stato regolarizzato. O «comprato con soldi pubblici», una frase irrisoria che a quelli di CasaPound sembra piacere molto. Salvo poi affrettarsi ad aggiungere: «Ci paragonano agli altri centri sociali? Si seguano allora le stesse procedure che si utilizzano per regolarizzare loro». Spavaldi sì, ma meglio non esagerare.
«Accogliamo famiglie in difficoltà. Disabili. Da noi sono nati anche dei bambini». L’occupazione nella centralissima via Napoleone III, al civico 8, a Roma, la descrivono così.
Gli atti d’indagine, invece, la raccontano come un luogo di attività e propaganda politica. E poi le feste, le grigliate, la vendita di panini, birre, magliette con il simbolo della tartaruga. In quel palazzo di sei piani sono in trincea, non si può entrare (e poco importa che lo stabile sia del Demanio e il danno economico di oltre quattro milioni di euro ricada sui conti pubblici).
Sei piani che ospitano una ventina di famiglie «italianissime» (molte sono proprio degli stessi militanti) e tanta propaganda politica. Sareste disposti a rinunciarvi per trovare un accordo? Il portavoce Marsella ribatte: «Negli altri centri sociali è stato fatto? Noi vogliamo lo stesso trattamento». Ed è inutile sottolineare che la faccenda è differente. Un esempio tra tanti.
Il palazzo di via Napoleone III è luogo di ritrovo e condivisione per chi raggiunge Roma in occasione della commemorazione di Acca Larentia, tripudio di inni fascisti e saluti con il braccio teso. E proprio a marzo, la procura ha chiesto il processo per trentuno “camerati” di CasaPound che il 7 gennaio 2024, all’adunata, fecero il saluto romano violando, sostengono i magistrati, le leggi Mancino e Scelba.
I “camerati” non commentano. Optano per qualche frase denigratoria e provocatoria contro i giornalisti. Sullo sgombero? Quelli di Casapound sono soliti scandire il motto fascista «Me ne frego». Questa volta, forse, ne sceglieranno un altro.
(da La Stampa)
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Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
IL RAZZO È COSTRUITO DALLA COMPAGNIA UCRAINA “FIRE POINT”, MA COME HANNO FATTO GLI INGEGNERI DI KIEV A METTERE A PUNTO L’ARMA? PROBABILMENTE SONO STATI AIUTATI DA QUELLI INGLESI, VISTO CHE L’AZIENDA CHE PRODUCE IL “FLAMINGO” HA UNA SUCCURSALE NEL REGNO UNITO
Il presidente Zelensky l’ha indicato come il pilastro delle garanzie di sicurezza per
trattare la pace: “Un missile in grado di colpire anche a tremila chilometri”. Un’arma di deterrenza, che metta nel mirino le città e le industrie russe con una potenza distruttiva di gran lunga superiore ai droni ucraini scagliati quasi ogni notte contro raffinerie di petrolio e basi militari. Ora Kiev mostra di avere già un ordigno di prestazioni simili: l’FP-5 Flamingo, presentato proprio nel momento chiave dei negoziati.
Si tratta di un missile da crociera, cioè che vola con una traiettoria simile a un aereo, con una velocità di novecento chilometri orari e un raggio d’azione di oltre 2500 chilometri: può colpire Mosca o San Pietroburgo e arrivare fino agli Urali senza problemi. Dicono che la carica esplosiva sia di una tonnellata: un dato forse eccessivo, soprattutto sui bersagli più remoti, che però testimonia una significativa forza devastante.
Finora il limite dei raid scatenati – come ha detto Zelensky – “per portare la guerra nel cuore della Russia” sono state le piccole ogive dei velivoli senza pilota, con in genere meno di cinquanta chili di tritolo provocano danni limitati agli impianti industriali, senza azzerare le catene di montaggio. Con il Flamingo potrebbe essere un’altra storia e c’è l’ipotesi che sia stato utilizzato due giorni fa contro un’infrastruttura petrolifera.
Viene costruito dalla compagnia ucraina Fire Point, creata da un pool di professionisti senza competenze militari per realizzare droni. In realtà alcuni analisti ipotizzano che sia stato disegnato in Gran Bretagna, forse da una filiale inglese della stessa Fire Point chiamata Milanion.
Per avere un deterrente contro gli attacchi russi, Kiev ha cercato di trasformare il moderno missile nazionale Neptune – che ha esordito nella primavera 2022 affondando l’incrociatore Moskva – ma il raggio d’azione non va oltre 800 chilometri. Il progetto di un missile balistico ipersonico non sembra fare passi in avanti.
L’ingresso nel conflitto di queste armi in larghi numeri potrebbe mettere in difficoltà i russi e spingere Mosca a una escalation dagli esiti imprevedibili.
(da agenzie)
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Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
“A 75 ANNI, E DOPO 21 ANNI IN SERVIZIO, SERGEY LAVROV SEMBRA ESSERE DIVENTATO IL NUOVO TESTIMONIAL DELLA POLITICA DEL CREMLINO”
«Egregi compagni, se volete ordinare la maglia-leggenda Cccp dovrete aspettare 58-60 giorni». La lista d’attesa per la felpa sfoggiata da Sergey Lavrov in Alaska si sta allungando a vista d’occhio, e il sito di SelSovet, giovane marchio degli Urali che gioca abilmente con i motivi retrò dei film sovietici per declinarli in una versione trendy, si sta godendo una inaspettata fama internazionale.
«Ora lavoriamo senza sosta», racconta ai giornalisti Ekaterina Varlakova, che qualche mese fa era riuscita a ottenere una commessa dal ministero degli Esteri russo: «Immaginavo che una delle maglie fosse destinata al ministro, ma non avrei mai pensato che l’avrebbe indossata per il summit».
A 75 anni, e dopo 21 anni in servizio, Sergey Lavrov sembra essere diventato il nuovo testimonial della politica del Cremlino. È a lui che Vladimir Putin affida le repliche sulle iniziative diplomatiche che partono da Washington, è lui che butta
secchiate di acqua fredda sull’entusiasmo di Donald Trump rispetto a un vertice con Volodymyr Zelensky.
Dopo aver affidato alcune delle fasi più sottili del negoziato a mediatori lontani dal grattacielo del ministero degli Esteri, e addirittura aver escluso il ministro da alcune tornate di colloqui con la delegazione ucraina a Istanbul, il presidente russo ha recuperato il suo fedelissimo.
Negli ultimi anni, la politica estera veniva gestita da Putin in persona, e Lavrov insieme alla sua portavoce Maria Zakharova avevano ricoperto spesso un ruolo più di propagandisti che di diplomatici in senso tecnico. Ma ora le voci che il ministro più longevo di Putin avrebbe chiesto le dimissioni sembrano smentite: è tornato, diventando anche il trendsetter della moda.
Ovviamente è possibile che Mosca stia usando Lavrov – annoverato nelle classifiche dei cremlinologi come uno dei “falchi” – come “poliziotto cattivo”, per aumentare la pressione su Trump. Ma la felpa del ministro, da curiosità a margine di un vertice che ha prodotto poca sostanza, diventa un simbolo e una dichiarazione politica:
«Quella di Lavrov è stata una improvvisazione, che però ha colto correttamente il messaggio da trasmettere alla vigilia dell’incontro con Trump: non c’era da aspettarsi nessuna distensione», commenta il giornalista moscovita Georgy Bovt. E il politologo Sergey Medvedev eleva la maglia con la scritta Cccp a un manifesto politico del putinismo: «Vogliono la vecchia Urss, con i suoi confini, la sua influenza, la paura che incute, le armi che le permettevano di parlare alla pari con l’America e dall’alto in basso con il resto del mondo. È questa la
vera causa all’origine della guerra».
In effetti è surreale vedere un ministro che sfoggia sul petto il nome di Paese non suo, che per giunta non esiste più. Ma mentre una maglia con la scritta “Russia” farebbe pensare al massimo alla nazionale di hockey, la felpa dell’Urss identifica immediatamente un simbolo, uno stile e un’ambizione. Il dibattito sul look di Lavrov è possibile solo in un Paese in cerca disperata di una identità, come mostra anche la serie televisiva “Il sovrano”, che in dieci puntate riscrive il mito di Pietro I.
Lo zar nel quale il presidente russo dichiara di riconoscersi taglia le teste con le sue mani mentre bacia icone, e anche i fedelissimi non riescono più a sentirsi al sicuro: mentre i servizi segreti continuano ad arrestare governatori e imprenditori di regime, ogni venerdì si allunga implacabile la lista degli “agenti stranieri”.
Che finora comprendeva essenzialmente intellettuali dissidenti, ma questa settimana ha incluso anche Sergey Markov, un fervente propagandista putiniano, iscritto nel registro dei “nemici del popolo” per aver concesso interviste ai giornali stranieri (inclusi gli italiani). Il remake dell’Urss comincia ad assomigliare sempre di più all’originale.
(da La Stampa)
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Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
IL MINISTRO AVREBBE VOLUTO LASCIARE IL SUO POSTO DOPO IL CASO DEI DUE MEDICI, IDOLI DEI NO-VAX, FINITI ALL’INTERNO DELLA COMMISSIONE DEL SUO DICASTERO SUI VACCINI. IL COMITATO È STATO POI SCIOLTO – SCHILLACI GODE DELLA STIMA DI MATTARELLA
Nessuna richiesta ufficiale di dimissioni. Il ministro della Salute, Orazio Schillaci,
più o meno isolato, resta a Lungotevere Ripa, come se non ci fosse stato alcun terremoto politico o sanitario in seguito alla sua decisione di azzerare la commissione Nitag (Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni) per la presenza di due esperti, l’ematologo Paolo Bellavite e il pediatra Eugenio Serravalle, dubbiosi sull’obbligo vaccinale e bollati dalla gran parte dei media e della politica come «no vax».
Il «commissariamento politico» in un certo non c’è già, visto che Schillaci è un medico, quindi ministro tecnico, e il suo viceministro è un politico, Marcello Gemmato esponente di Fdi. Al momento, dunque, non pare immediata alcuna ipotesi di sostituzione del responsabile della Salute.
Certo la scelta di Schillaci, ministro scelto da Fdi, di non concordare con il resto dell’esecutivo la sua «retromarcia» sulle nomine appare ardita e farebbe pensare invece a una «manina»
che avrebbe messo quei due nomi nella lista a sua insaputa: non avendoli scelti né condivisi, quando il ministro li ha visti, li avrebbe tolti azzerando tutto. Un caso che ha provocato dentro Fratelli d’Italia parecchi malumori (il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, lo attacca, il vice presidente della Camera, Fabio Rampelli, lo difende), ma non c’è una difesa ufficiale.
Nel frattempo, malgrado l’ «irritazione» della Meloni, Palazzo Chigi non preme come detto per le dimissioni in quanto si rischierebbero tensioni con il Quirinale. Nella lista dell’esecutivo presentata dalla Meloni, si ricorda che Sergio Mattarella lo preferì a Rocco Bellantone, cugino del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari.
Infatti, come già anticipato dalla Verità, circola la voce, né confermata né smentita, secondo cui Schillaci si sarebbe visto respingere le proprie dimissioni dal presidente della Repubblica. Una «blindatura» che, se fosse vera, solleverebbe gravi interrogativi sulla dipendenza del ministro non dal premier ma dal capo dello Stato.
Questa ipotetica «protezione» avrebbe condizionato lo stesso ministro che, sempre secondo voci di corridoio, prima che scoppiasse il caso Nitag avrebbe espresso una certa stanchezza in merito alla sua missione governativa, rivendicando una maggiore autonomia dalla politica.
Difficile sciogliere i nodi di una vicenda piuttosto contraddittoria considerato anche che l’unica dichiarazione fatta dall’ex rettore di Tor Vergata è stata: «Non mi dimetto». Una mossa che comunque eviterebbe un rimpasto più ampio: si va da Daniela Santanchè a Marina Calderone, come chiesto dall’opposizione, ma soprattutto una nuova fiducia e quindi un «Meloni bis».
(da “la Verità”)
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Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
IL NUMERO DI ACCOUNT DI CREATOR CHE PRODUCONO CONTENUTI PER IL SITO È CRESCIUTO DEL 13%, RAGGIUNGENDO I 4,6 MILIONI, POICHÉ SEMPRE PIÙ PERSONE L’HANNO SFRUTTATO COME UN’OPPORTUNITÀ PER GUADAGNARSI DA VIVERE. NEL FRATTEMPO, IL NUMERO DI ACCOUNT FAN DI PERSONE CHE PAGANO PER ACCEDERE AI CONTENUTI SULLA PIATTAFORMA È AUMENTATO DEL 24% A LIVELLO GLOBALE, RAGGIUNGENDO I 377 MILIONI
Il proprietario di OnlyFans Leonid Radvinsky ha ricevuto 522 milioni di sterline (700,1 milioni di dollari) in dividendi lo scorso anno, mentre il sito di streaming, noto per ospitare contenuti per adulti, ha visto il numero di utenti aumentare di quasi un quarto.
Questo avviene mentre l’azienda con sede nel Regno Unito si prepara a una potenziale vendita multimiliardaria entro la fine dell’anno. I bilanci appena depositati presso la Companies House hanno mostrato un aumento del fatturato del 9%, raggiungendo 1,41 miliardi di dollari nel 2024, rispetto all’anno precedente.
Ha incassato circa 7,2 miliardi di dollari dagli abbonati nel corso dell’anno, di cui 5,8 miliardi di dollari sono stati restituiti ai creator. OnlyFans ha riferito che il numero totale di account di creator che producono contenuti per il sito è cresciuto del 13%, raggiungendo i 4,6 milioni, poiché sempre più persone lo hanno sfruttato come un’opportunità per guadagnarsi da vivere.
Nel frattempo, il numero di account fan di persone che pagano per accedere ai contenuti sulla piattaforma è aumentato del 24% a livello globale, raggiungendo i 377,5 milioni.
L’azienda ha sede e paga le tasse nel Regno Unito, ma realizza la maggior parte del suo fatturato negli Stati Uniti. Il gruppo ha anche riportato una crescita degli utili ante imposte del 4%, raggiungendo i 683,6 milioni di dollari nell’anno.
Keily Blair, amministratore delegato di OnlyFans, ha dichiarato: “Nel 2024 OnlyFans ha continuato a far crescere il suo fatturato e la sua base utenti globale. “Ci siamo espansi in nuovi settori verticali, dimostrando la forza e il potenziale della piattaforma in un’ampia gamma di generi. Con una serie di importanti partnership con marchi e singoli individui, in particolare nello sport, OnlyFans ha continuato a rafforzare la sua reputazione come elemento fondamentale dell’economia dei creator in senso più ampio
(da agenzie)
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Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
IL SILENZIO DI GIORGIA MELONI HA FA FATTO INCAZZARE PARIGI, IL MINISTRO DEGLI ESTERI FRANCESE BARROT, ALLIBITO, HA TELEFONATO A TAJANI: “E’ INAUDITO, IL GOVERNO PRENDA POSIZIONE” … SORA GIORGIA PREFERISCE ASSUMERSI IL RISCHIO DI GUASTARE ULTERIORMENTE I RAPPORTI CON MACRON, PIUTTOSTO CHE SCOPRIRSI A DESTRA CON LA LEGA
Il telefono di Antonio Tajani squilla e risquilla per tutto il giorno. Una chiamata,
però, lo agiterà più delle altre. Jean-Noel Barrot, ministro per l’Europa e per gli Affari esteri è allibito.Al collega italiano consegna lo stupore di sentire un silenzio tombale da parte del governo di Roma anche a seguito di un atto
clamoroso come è stata, giovedì, la convocazione dell’ambasciatrice italiana a Parigi. «Perché nessuno dice nulla?» è il senso della domanda di Barrot.
Perché, si chiede, soprattutto Meloni non prende le distanze dal leghista? Dopo gli insulti rivolti da Matteo Salvini a Emmanuel Macron, Tajani qualcosa ha detto nelle ore in cui l’ambasciatrice Emanuela D’Alessandro si recava negli uffici del governo francese per incassare la protesta dell’Eliseo.
Ma sono risposte che a Parigi considerano «insoddisfacenti». Un’altra toppa Tajani prova a metterla pubblicando nella serata di ieri una nota in cui si resoconta una telefonata a tre, con Barrot e con l’omologo tedesco Johann Wadephul, e in cui viene definito «decisivo» il coordinamento con Francia e Germania sulle garanzie di sicurezza da offrire all’Ucraina. Tajani è imbarazzato.
E lo è stato tante volte, spesso per colpa delle uscite di Salvini, indifferente al fatto di ricoprire un ruolo, di vicepresidente del Consiglio, che dovrebbe porre limiti istituzionali alla foga della battaglia politica. Tajani accenna al fatto che proverà a sistemare le cose – così riferiscono fonti francesi – e a trovare un’ulteriore strada di conciliazione. Quasi sicuramente lo farà oggi, intervenendo al Meeting di Comunione e Liberazione, dove è molto probabile che risfodererà la stessa dichiarazione già ampiamente usata innumerevoli altre volte per provare a tenere a bada Salvini, e che ieri ha ribadito attraverso Deborah Bergamini, vicesegretaria di Forza Italia e sua fedelissima: «La politica estera italiana spetta alla premier e al ministro degli Esteri. L’accaduto non cambierà i nostri rapporti di amicizia con
la Francia».
Ma Tajani è anche infastidito di doversi caricare tutto sulle proprie spalle e fa capire al francese che è più in alto che bisogna individuare la volontà politica di non concedere anche solo un segnale, che possa tradursi in una presa di distanza da Salvini.
È Meloni, chiusa nel resort pugliese a Locorotondo, che sente Tajani e ordina di non andare oltre una nota generica, allargata, come abbiamo visto, anche alla Germania.
La stessa linea del silenzio viene imposta ai parlamentari. Non è escluso che la premier possa comunicare in altro modo o che possa telefonare a Macron. Fino al momento in cui questo articolo viene chiuso, però, tutto tace. Anzi, a caldo una delle prime reazioni dalle parti di Fratelli d’Italia è stata una difesa piccata, poi ripetuta anche a livello di contatti bilaterali tra i due governi.
Meloni ha ricordato e fatto filtrare come due anni fa l’allora ministro dell’Interno, oggi passato alla Giustizia, Gérald Darmanin accusò la premier italiana di essere «incapace di risolvere i problemi migratori». Espressioni che però possono essere catalogabili più facilmente come critica politica rispetto a «matto» (lo scorso marzo) e «attaccati al tram» (tre giorni fa) che Salvini ha usato contro Macron.
Quel che al momento sembra certo è che Meloni non sconfessa gli insulti del leghista. A sua volta Salvini minimizza quell’espressione detta in milanese, «taches al tram», che è stata la goccia finale per l’Eliseo, arrivata dopo giorni di martellanti dichiarazioni contro il presidente francese e il suo piano che prevederebbe una missione militare internazionale se e quando ci
sarà il cessate il fuoco in Ucraina.
Per i francesi è «inaudito» quello che sta accadendo: il fatto che la serie di atti formali siano stati snobbati da un governo alleato. Contestualmente alla convocazione dell’ambasciatrice italiana, l’ambasciatore francese in Italia ha chiamato il capo di gabinetto di Tajani, e il consigliere di Macron ha parlato con il collega di Palazzo Chigi Fabrizio Saggio, consigliere diplomatico di Giorgia Meloni.
Nessuna critica del passato, è stato detto agli interlocutori italiani, ha mai raggiunto «la volgarità degli attacchi di Salvini». Il capo della Lega ha scelto Macron, avversario della sua alleata in Francia Marine Le Pen, come suo bersaglio internazionale, senza troppo curarsi delle implicazioni che invece il governo di Parigi ha ricordato all’ambasciatrice e a Tajani: soprattutto in questa fase in cui Meloni e Macron, pur non rinunciando alla loro storica competizione, cercano una qualche collaborazione sull’Ucraina.
Il risultato è che anche ai vertici di Forza Italia emerge forte il sospetto che Meloni, alla fine dei conti, preferisca assumersi il rischio di guastare ulteriormente i rapporti con Macron, piuttosto che scoprirsi a destra con la Lega.
(da agenzie)
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Agosto 24th, 2025 Riccardo Fucile
AL MOMENTO LE STIME DI CRESCITA DELL’ITALIA SONO UN’INCOGNITA. ED ENTRO UN MESE GIORGETTI DEVE METTERE A PUNTO LA LEGGE DI BILANCIO PER IL 2026, NEL PIENO DELLA CAMPAGNA ELETTORALE PER LE REGIONALI
Giancarlo Giorgetti appare al pubblico di Rimini da una webcam nella sua casa di Varese. All’ultimo momento il ministro del Tesoro rinuncia a partecipare in presenza al dibattito del Meeting di Comunione e Liberazione
Entro un mese deve mettere a punto la legge di Bilancio per il 2026, quella che dovrà preparare alla maggioranza il terreno della difficile prova elettorale delle Regionali in Veneto, Campania, Puglia, Marche e Calabria.
Da poche ore è chiuso l’accordo fra l’Unione europea e la Casa Bianca sui dazi al quindici per cento, e nonostante le pressioni italiane riguarderà anche l’esportazione di vino verso gli Stati
Uniti. Giorgetti accenna al problema in un breve passaggio del suo intervento.
«Il problema dei dazi è anzitutto nelle conseguenze che ha sulle aspettative delle imprese». Un modo per ammettere che nelle previsioni macroeconomiche il governo dovrà tenere conto dell’impatto sulla crescita complessiva del Paese.
L’ultimo aggiornamento è già prudente: +0,6 per cento, non però abbastanza recente per tenere conto con precisione delle tariffe imposte da Washington. Una delle ipotesi – ancora in discussione nella maggioranza – è utilizzare parte delle risorse non spese del Piano nazionale di ripresa e resilienza per compensare le aziende che pagheranno pegno a Donald Trump.
La Lega chiede una nuova rottamazione delle cartelle esattoriali, Forza Italia è tornata alla carica con la riduzione dell’Irpef sul ceto medio. Matteo Salvini ieri ha aggiunto una terza e costosa voce alla lista: «Molti bonus non arrivano alle famiglie del ceto medio perché c’è il metodo di calcolo dell’Isee. E quindi se non hai un Isee abbastanza basso non hai bonus per l’asilo, l’affitto, la bolletta della luce.
Solo che l’Isee risulta alto se hai una casa di proprietà, sei considerato ricco e sei eliminato.
Una follia. La prima casa bisogna toglierla dal calcolo, altrimenti i bonus vanno sempre ai soliti».
Per Giorgetti al momento è meglio limitarsi a rivendicare ciò che di buono ha ottenuto in questi mesi con una gestione prudente dei conti: «I primi risultati di questi tre anni di governo si iniziano a vedere: lo dimostrano il calo del differenziale di rendimento dei titoli pubblici con gli altri Paesi e il
miglioramento del rating dell’Italia, i cui effetti positivi sono arrivati fino alle banche».
Ora quelle stesse banche «sono chiamate a tradurre questi vantaggi in benefici concreti» per le famiglie. Il ministro leghista lo chiama «il piccolo pizzicotto» che ogni tanto riserva al mondo del credito, i cui risultati in questi anni hanno beneficiato anzitutto dell’aumento dei tassi di interesse.
Non è chiaro se questo si tradurrà in misure ad hoc, e d’altra parte l’esperienza del passato recente non promette niente di buono: quando a inizio legislatura si cercò di ottenere un contributo straordinario dalle banche in nome dei cosiddetti extraprofitti, il governo fu costretto alla marcia indietro sotto la pressione della lobby.
(da La Stampa)
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