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DAGOSPIA, IL CLAMOROSO SONDAGGIO RISERVATO CHE GIRA NEI PALAZZI DELLA POLITICA: FRATELLI D’ITALIA CROLLATO AL 23%, SORPASSO PD AL 24,3%, M5S AL 13% , FORZA ITALIA AL 9,6%, LEGA ALL’ 8%. NELLA MARCHE RICCI IN VANTAGGIO DI 2 PUNTI SU ACQUAROLI, CAMPO LARGO VINCENTE ANCHE IN CAMPANIA, PUGLIA E TOSCANA

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

A PESARE È LA SITUAZIONE ECONOMICA DEL PAESE, DALLA PRODUTTIVITÀ CALANTE DELLE IMPRESE A UN POTERE D’ACQUISTO AZZERATO DAI SALARI DA FAME – IL TEST DELLE REGIONALI D’AUTUNNO: LA POSSIBILITÀ DI UN 4-1 PER IL CENTROSINISTRA ALLE REGIONALI, MESSO INSIEME ALLA PERDITA DI CONSENSI ALL’INTERNO DELL’ELETTORATO DI FDI, DAREBBE UN GROSSO SUSSULTO AI PARTITI DI OPPOSIZIONE, SPINGENDOLI AD ALLEARSI PER LE POLITICHE 2027. E MAGARI FRA DUE ANNI LA “GIORGIA DEI DUE MONDI” SARÀ RICORDATA SOLO COME UN INCUBO

Buone notizie! Il primo sondaggio (riservato) sullo stato di salute dei partiti effettuato dopo la settimana di Ferragosto, confrontando i risultati delle europee del 2024, registra un calo del 6% per Fratelli d’Italia. In pratica, un elettore su cinque (il 20%) tra chi ha votato Fdi lo scorso anno, non lo rifarebbe.
Se il partito di Giorgia Meloni scende al 23%, rispetto al 28,75% del 2024, il Pd di Elly Schlein si riconferma al 24,1%, il M5S di Conte ha un balzo dal 9,9% al 13%, stabile Forza Italia (9,58%), in flessione la Lega (dall’8,97 alll’8%).
A pesare eccome sul voltafaccia del 20% dell’elettorato della
Fiamma, rileva l’analisi del sondaggio, è la situazione economica del paese, dalla produttività calante delle imprese a un potere d’acquisto azzerato da salari da fame.
I lidi mai così vuoti in piena estate nelle spiagge italiane sono solo la cartina di tornasole. In attesa degli effetti sul mercato del dazismo americano, lontani i miliardi del Pnrr giunti ormai al capolinea, dilagano i rincari che Altroconsumo stima in un +34% rispetto al 2020.
La sondaggista Alessandra Ghisleri ha fotografato, in un’analisi per “La Stampa” del 27 luglio, lo stato dell’arte: “Gli italiani sentono fortemente il peso dell’inflazione e l’incertezza sulla sostenibilità dei propri conti (38%), la difficoltà d’accesso ai servizi sanitari (33%), il carico delle tasse che soffocano i portafogli (26%), il delicato tema del lavoro e la stagnazione dei salari (23%). Se il consenso politico regge, i dati economici e sociali raccontano un’altra storia…”.
A settembre, gettate alle spalle vacanze da “fagottari”, si riparte con 138 scadenze fiscali. I versamenti in calendario vanno dall’Irpef all’Ires, dall’Irap fino alle addizionali.
Una volta scoperto di avere le pezze al culo e il portafogli vuoto, nonostante la propaganda di fregnacce e di illusioni dei media, in prima fila Rai-Mediaset, il test delle Regionali che chiama alle urne oltre 17 milioni di cittadini potrebbe diventare un segnale d’allarme, se non la prima grossa sconfitta, dell’Armata Branca-Meloni.
A partire dalle Marche: il candidato del campo largo, il riformista Pd Matteo Ricci, secondo l’ultimo sondaggio, ha due punti in più del governatore ricandidato di Fratelli d’Italia, Francesco Acquaroli.
Se in Toscana, Campania, Puglia le rilevazioni attestano la riconferma della vittoria del centrosinistra, in Veneto la Meloni sbatte da mesi contro il muro della lista civica di Luca Zaia che alle ultime regionali ottenne il 44%, mentre la Lega di Salvini si fermò al 17% e Fdi di Meloni racimolò il 9,55%.
Per il candidato di Fratelli d’Italia, Luca De Carlo, le probabilità di vittoria sono ridotte a un sogno ad occhi aperti e la Camaleonte della Garbatella, per evitare di perdere la faccia, si sta già adeguando alla proposta del detestato Matteo Salvini che vuole la candidatura di Alberto Stefani.
La possibilità di un quattro a uno per l’opposizione alle Regionali messo insieme alla perdita di consensi all’interno dell’elettorato di Fdi manderebbe in orbita gli otoliti della Ducetta, e nel contempo darebbe un grosso sussulto psicologico ai partiti di opposizione spingendoli ad allearsi per le politiche del 2027.
Sempre che l’opposizione di Elly, Conte, Fratoianni riesca a ficcarsi nella testa che il vantaggio di Fratelli d’Italia e della
coalizione di centrodestra è anche frutto della loro incapacità, finora, di presentare una proposta politica unitaria.
Se i geni dell’opposizione comprendono che il tempo dello scazzo a chi ce l’ha più lungo deve finire ed inizia con le Regionali quello della rivincita, magari fra due anni la “Giorgia dei Due Mondi” sarà ricordata solo come un brutto incubo

(da Dagospia)

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LA TELENOVELA VENETA STA PER FINIRE, MELONI CEDE A SALVINI PER PAURA DEL 5-0: LA LEGA OTTERRÀ IL CANDIDATO GOVERNATORE (ALBERTO STEFANI?), BLOCCANDO L’IPOTESI DI UNA LISTA ZAIA, CHE AVREBBE TOLTO VOTI A TUTTI I PARTITI DEL CENTRODESTRA E FACENDO RISCHIARE LA SCONFITTA

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

IL “DOGE” SARÀ CAPOLISTA IN TUTTE LE PROVINCE, COL SUO NOME NEL SIMBOLO DELLA “LIGA”, AI MELONIANI ANDREBBERO ALCUNI ASSESSORATI DI PESO NELLA FUTURA GIUNTA… ZAIA COME AL SOLITO RINUNCIA ALLA LOTTA E SI ACCONTENTA DI UN FUTURO MINISTERO … PER ORA MELONI E SALVINI NON HANNO CONCORDATO UNO “SCAMBIO” CON IL CANDIDATO ALLA GUIDA DELLA LOMBARDIA NEL 2028

Il derby nel centrodestra veneto si appresta ad avere un vincitore: la Lega. La grande manovra è quasi in dirittura d’arrivo, un complesso puzzle politicista che però suona così: il Carroccio blocca la corsa della lista Zaia, che avrebbe sottratto voti a tutti (Lega compresa); FdI evita la forzatura di imporre un proprio candidato in nome della “generosità”. Niente scambi ufficiali e futuri con la Lombardia nel 2028: si rimanda a un “si vedrà”.
La notizia ufficiosa della corsa del presidente uscente Luca Zaia per il Consiglio regionale, come capolista in tutte le province e col suo nome nel simbolo della “Liga”, ha ottenuto il benestare degli alleati.
«Mi sembra anche giusto che mettano davanti il loro cavallo di razza — dice Flavio Tosi, oggi uomo forte degli azzurri in Veneto ed esponente formalmente indicato come candidato presidente per FI –. La presenza di una sua lista era esclusa a prescindere, quindi era un non problema: la lista si farà, ma del
candidato entrante».
Anche la fiamma è favorevole: «Mi sembra una mossa assolutamente comprensibile per cercare di arginare la crescita di un partito come Fratelli d’Italia, che in Veneto veleggia ormai da anni sopra il 30-35 per cento. Se Zaia fosse in FdI, lo schiererei senza dubbio come capolista», spiega alla Stampa il senatore Luca De Carlo, anche lui papabile presidente.
La candidatura a capolista del Doge può rilanciare il Carroccio a livello regionale, ma rappresenta sicuramente il male minore rispetto a una lista autonoma a suo nome. Da Rimini il leader azzurro Antonio Tajani è stato tranchant: «La lista di Zaia non ha alcun significato, perché non è che ogni esponente di partito può fare una lista. Non va bene. Non può essere parte di un accordo politico questo».
Dopodiché, chi conosce bene Zaia non è poi così convinto che il presidente uscente alla fine dica sì al gesto “per spirito di servizio” (anche perché difficilmente il Doge siederà effettivamente nei banchi del Consiglio). Ci sarebbero comunque dei pro: contarsi all’interno del partito e della coalizione, mettere sul piatto il proprio consenso personale e farlo valere in futuro, quando si parlerà di altro, per esempio di qualche ministero. In Veneto, dove i meloniani da tempo sono il primo partito in scioltezza. «Ma Giorgia Meloni non vuole rotture di scatole», è il refrain nel centrodestra. Imporsi “di diritto” ma rovinando i rapporti con la Lega non sembra quindi un’opzione percorribile, nonostante il pressing dal territorio che reclama spazio.
Il nome su cui punta Matteo Salvini è Alberto Stefani, vicesegretario nazionale e segretario regionale, un fedelissimo del “Capitano”. FdI dovrà accontentarsi, se ci riuscirà, di monopolizzare la giunta con assessorati di peso e, al contempo, il Consiglio, un po’ come avvenuto in Lombardia con Attilio Fontana (nel 2023 ottennero 22 seggi su 48 della maggioranza).

(da Repubblica)

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“I SOLDI LI HO PRESI IO, MATTEO RICCI ERA ALL’OSCURO DI TUTTO”: MASSIMILIANO SANTINI, EX COLLABORATORE DELL’ALLORA SINDACO DI PESARO, OGGI EUROPARLAMENTARE IN CORSA PER DIVENTARE PRESIDENTE DELLE MARCHE, IN 10 ORE DI INTERROGATORIO HA AMMESSO I REATI CHE GLI SONO STATI CONTESTATI SUL CASO AFFIDOPOLI

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

HA SCAGIONATO RICCI DALLE ACCUSE DI “CONCORSO IN CORRUZIONE” PER IL QUALE L’EX SINDACO È INDAGATO; “DEL GIRO DENARO NON SAPEVA NIENTE”

I soldi? «Li prendevo io, me ne assumo la responsabilità», e «Ricci del giro denaro non sapeva niente». È stato un fiume in piena Massimiliano Santini. Durante le oltre 10 ore di interrogatorio dell’11 agosto scorso, ha collaborato con la procura ammettendo i reati che gli sono stati contestati dalla pm Maria Letizia Fucci nell’ambito dell’inchiesta sulla “Affidopoli” del comune di Pesaro.
L’amico e fido collaboratore dell’allora sindaco di Pesaro Matteo Ricci, attualmente europarlamentare e in corsa per le regionali delle Marche, scagiona l’esponente del Pd quantomeno sul tema della corruzione e, di conseguenza, dall’accusa di «concorso in corruzione», per il quale è indagato.
L’allora responsabile dei social e degli eventi dell’amministrazione pesarese ha confermato il meccanismo
attraverso cui veniva alimentato il flusso di incarichi e di denaro che finiva in parte nelle sue tasche.
Gli inquirenti avevano scoperto come negli anni del mandato a sindaco di Ricci due associazioni non profit, la “Opera Maestra” e la “Stella Polare”, create ad hoc dall’imprenditore Stefano Esposto, avevano ricevuto senza bando pubblico commesse per la realizzazione di eventi per 509 mila euro e che di questi, 109 mila erano poi tornati a Santini sotto forma di bonifici e altri benefit.
Un vantaggio economico per il responsabile dei social impossibile da negare e certificato, da Guardia di finanza e Squadra mobile, con l’acquisizione di estratti conto bancari e contratti di consulenza falsi.
Per gli affidamenti alle associazioni di Esposto era però necessario aggiustare le carte, ha spiegato il collaboratore. Cosa che ha coinvolto diverse persone, più o meno consapevoli (gli indagati sono in tutto 24), chiamate a preparare delibere, pareri e
atti amministrativi.
In questo senso ci sarebbero state delle forzature negli iter delle quali Ricci avrebbe dovuto o potuto accorgersi. Santini, con la pm Fucci ha affrontato tutte le contestazioni, spiegando il ruolo
avuto in ogni singola vicenda: dai murales per la Segre e per i medici eroi del Covid, al “cascone” per Valentino Rossi, senza dimenticare la storia dei totem per Pesaro “Capitale italiana della cultura”.

(da agenzie)

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INTERVISTA AL CAPOMISSIONE DI OCEAN VIKING: “I LIBICI SONO ADDESTRATI DA NOI, GLI SI INSEGNA ANCHE A SPARARCI ADDOSSO?”

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

VENTI MINUTI DI SPARI: “VI AMMAZZIAMO TUTTI”

“Queste persone vengono addestrate da noi e sarebbe interessante capire cosa gli insegniamo. Sanno cosa siano le navi umanitarie? O vengono addestrati per minacciarci, ostacolarci, intimidirci o magari anche ucciderci”.
C’è rabbia palpabile nelle parole del capomissione Angelo Selim, ancora su Ocean Viking adesso ormeggiata in porto ad Augusta. Domenica pomeriggio, quando la Guardia costiera libica ha iniziato a sparare contro la nave era sul ponte a coordinare le operazioni, addosso ha le ferite e i tagli che le schegge hanno provocato. Non è alla sua prima missione, sulle navi di soccorso ci sta da tempo, ma una cosa del genere, spiega, è un inedito assoluto.
“E nessuno venga a dire che non è successo nulla di nuovo perché da tempo i libici minacciano le navi umanitarie, cosa di per sé gravissima. Questa volta hanno sparato ad altezza uomo,
per venti minuti. Uno dei proiettili ha colpito il serbatoio della benzina, avrebbe potuto essere una strage”.
Come state a bordo adesso?
“Siamo contenti che nessuno si sia fatto male, che adesso è la cosa più importante. Ma tutto quello che è successo è inaccettabile da ogni punto di vista”.
Proviamo a ricostruirlo?
“Eravamo a 40 o 50 miglia dalle coste libiche, avevamo ricevuto un mayday relay e ci stavamo dirigendo verso un altro caso quando abbiamo visto una motovedetta, una delle classe Corrubia regalate dall’Italia, dirigersi verso di noi a tutta velocità. Abbiamo alzato il livello di sicurezza e cercato un contatto radio. In inglese, com’è previsto che si faccia in acque internazionali, ho provato a spiegare cosa stessimo facendo”.
Hanno mai risposto?
“Urlavano solo: “Zero, zero, out, out”. Significa “andate via, andate a nord”. Quando è arrivato il mediatore e ha iniziato a parlare con loro in arabo, prima lo hanno insultato, poi hanno iniziato a sparare e ad avvicinarsi sempre di più. A quel punto ho chiesto a tutto l’equipaggio di chiudersi nella cittadella, la zona sicura della nave”. È la procedura standard in caso di attacco.
Avete temuto un abbordaggio?
“Assolutamente sì. Erano vicinissimi e continuavano a sparare. Ho chiesto al mediatore di spiegare loro che stavamo andando via. Lui ha fatto un lavoro grandioso, ha provato in tutti i modi a calmarli e disinnescare la situazione mentre noi viravamo e mettevamo la prua a Nord, ma loro non smettevano. Alla fine ci hanno detto: “Andate via entro un’ora o torniamo e vi ammazziamo tutti”.
In quei momenti vi siete resi conto del pericolo che stavate correndo?
“Sarebbe stato impossibile fare altrimenti. Contro di noi hanno usato due tipi di armi – un mitragliatore e un fucile di precisione di grosso calibro – e hanno sparato ad altezza uomo. Uno dei proiettili ha bucato i vetri del bridge e si è conficcato in un armadio sopra le nostre teste. Se non ci fossimo tutti buttati a terra, adesso non staremmo parlando di tentato omicidio, ma di uno o più morti ammazzati”.
Qualcuno vi ha dato supporto?
“Abbiamo contattato la Nato per chiedere protezione, ma ci ha detto semplicemente di far riferimento a una nave della Marina militare italiana che era la più vicina in area. Non ci hanno mai risposto”.
L’equipaggio oggi come sta? E i naufraghi?
“Paradossalmente i naufraghi sono stati così esposti, per così tanti anni, alla violenza indiscriminata da non aver avuto le reazioni di panico che temevamo. Gli altri a bordo hanno mantenuto tutti la lucidità in quei momenti, ma sono ancora tutti sotto shock e terrorizzati”.
Qualcuno ha chiesto di essere sbarcato?
“Dell’equipaggio umanitario, nessuno. Fra i tecnici a bordo invece, qualcuno sta pensando di cercare altri ingaggi: per le navi che transitano in zone di guerra – dicono – ci sono gli specialisti. Le acque internazionali del Mediterraneo non lo sono, ma i libici operano come se fossero territorio di loro esclusiva competenza, da proteggere militarmente. E gli si consente di farlo”.
Chi lo permette?
“Veniamo da anni di criminalizzazione dell’operato delle ong che lavorano in mare. Ci ostacolano, ci mandano in porti lontani, ci fermano. Noi proviamo solo a soccorrere persone che vengono condannate a una morte atroce fra le onde – e neanche nei Paesi in cui ancora esiste la pena di morte c’è una pena così crudele – mentre la Guardia costiera libica continua a essere finanziata e supportata. Questo clima li fa sentire autorizzati a fare qualsiasi cosa, incluso cercare di ucciderci”.

(da La Repubblica)

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ANCHE AL MEETING DI CL, È SEMPRE MELONI CONTRO SALVINI: LA DUCETTA HA MINACCIATO DI NON ANDARE A RIMINI. LA PREMIER, IN MODALITÀ “S-FASCIO TUTTO IO”, SI ASPETTAVA DI ESSERE COLLOCATA IN CHIUSURA DEL MEETING

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

QUANDO HA SCOPERTO CON FASTIDIO CHE IL MINISTRO DEI TRASPORTI AVREBBE PARLATO DOPO DI LEI, ANCHE SE A UN PANEL SULLE INFRASTRUTTURE, HA SCAPOCCIATO

Alla fine verrà, ma c’è stato un momento in cui Giorgia Meloni ha fatto tremare i vertici di Comunione e liberazione, lasciando filtrare l’ipotesi che potesse solo collegarsi in video anziché mettere piede tra gli stand di Rimini. Verrà, ma la tentazione di dare forfait è stata forte.
Perché la premier, che si aspettava di essere collocata in chiusura
del Meeting, con il posto d’onore nell’agenda, ha scoperto con fastidio che a un altro era riservata l’ultima parola.
Uno di Cl? Macché, proprio quel Matteo Salvini che ha passato l’estate a fare da controcanto alla linea pro-Ucraina del governo. Che è stato piazzato al pomeriggio di mercoledì in un panel su strade e autostrade, ma che di fatto sarà l’ultimo esponente di governo a prendere la parola.
Di questi tempi la premier è incline al sospetto e a poco sono valse le spiegazioni che il dibattito, in realtà, non uscirà fuori dai binari strettamente tecnici delle infrastrutture, anche perché a palazzo Chigi sanno bene che a Salvini basta mettergli un microfono davanti e la battuta è assicurata.
C’è poi un’altra ragione a spiegare lo scarso entusiasmo con cui Meloni, alla fine, ha confermato l’appuntamento. Le hanno detto infatti che è prassi di tutti gli ospiti politici fare un giro degli stand per salutare i volontari e affacciarsi alle tante mostre del Meeting. Un rito a cui si è sottoposto di buon grado persino l’algido Draghi. Il problema è che, durante questi tour, i politici sono assediati dai numerosi giornalisti presenti ed è difficile, se non impossibile, sottrarsi alle domande e far finta di non sentirle.
Nel caso di Meloni, non si potrebbero evitare le polemiche intorno al ministro Schillaci o le posizioni anti-francesi di Salvini, su cui la premier vorrebbe continuare a mantenere il suo
silenzio.
E proprio Rimini è stata la camera dell’eco dove sono risuonate più forti le tensioni dentro il governo. Un paradosso per una manifestazione con il cuore che batte per il centrodestra. Non c’è stato giorno che qualcuno non battibeccasse o smentisse qualche collega.
Ha iniziato il ministro dell’Interno Piantedosi, irritato perché il titolare dei Beni culturali Giuli aveva fatto intendere che Casapound potesse avere una sorta diversa dal Leoncavallo. […] E poi ci si è messo il ministro Giorgetti, con il suo «pizzicotto» da dare alle banche, ree di non trasformare in prestiti per le famiglie i soldi fatti con i tassi di interesse alti. Ed ecco la smentita di Tajani a favore della banche, sia contro Giorgetti sia contro l’anti-Macron Salvini, che se ne stesse al posto suo e lasciasse «la politica estera alla competenza del presidente del consiglio e del ministro degli esteri». E poi la defezione di Schillaci, la Roccella che non viene. Un Meeting da incubo.

(da La Repubblica)

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C’È ARIA DI FREGATURA PER I PENSIONATI: SINDACATI E OPPOSIZIONI INSORGONO CONTRO LA PROPOSTA DEL SOTTOSEGRETARIO LEGHISTA, CLAUDIO DURIGON, DI UTILIZZARE IL TFR PER PERMETTERE AI LAVORATORI DI ANDARE PENSIONE A 64 ANNI INVECE CHE A 67

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

LA CGIL: “QUESTO FAREBBE PAGARE DIRETTAMENTE AI LAVORATORI IL COSTO DELLA PENSIONE ANTICIPATA”. IL M5S: “I LAVORATORI SAREBBERO PENALIZZATI DUE VOLTE, PERDEREBBERO LA LIQUIDAZIONE E LA PENSIONE VERREBBE CALCOLATA TUTTA COL CONTRIBUTIVO”

Il cantiere pensioni è aperto, in vista della manovra di Bilancio per il 2026. Come sempre, tra i primi a muoversi è stato il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, che ha messo sul tavolo del governo una serie di proposte, anche a nome della Lega di cui è vicesegretario
Proposte che hanno scatenato forti reazioni perché ruotano intorno all’ipotesi che i lavoratori che vogliano andare in pensione prima, a 64 anni anziché 67, lo possano fare, se vogliono, utilizzando anche il Tfr accantonato presso l’Inps, rinunciando, in questo caso, a incassare la tradizionale liquidazione.
Come funzionerebbe
Finora le norme consentono solo ai lavoratori che stanno nel sistema contributivo (cioè quelli che hanno cominciato a versare dopo il 1995) di accedere alla pensione a 64 anni d’età, se hanno maturato una pensione pari ad almeno tre volte l’assegno sociale (1.616 euro).
E per raggiungere questa soglia si può sommare alla pensione maturata presso l’Inps anche la rendita maturata in un eventuale fondo di previdenza complementare. Per esempio: pensione In pari a 1.300 euro più rendita del fondo di 350 euro, per un totale di 1.650 euro al mese, somma che consente appunto a questo lavoratore di andare in pensione a 64 anni, se ha almeno 25 anni di contributi.
La proposta Durigon prevede di ammettere ai fini del superamento della soglia di 1.616 euro anche il Tfr accumulato presso l’Inps (riguarderebbe quindi i lavoratori delle imprese con almeno 50 dipendenti, perché in quelle più piccole l’accantonamento rimane in azienda) trasformandolo in una rendita (con tassazione agevolata come i fondi), dando la possibilità di andare in pensione a 64 anni anche ai lavoratori che stanno nel sistema misto (hanno cominciato prima del 1995).
Le reazioni arrivate ieri all’intervista di Durigon sono state per lo più negative. Per il sindacato Cgil, l’uso del Tfr «farebbe pagare direttamente ai lavoratori il costo della pensione anticipata. Ma il Tfr è salario differito e toccarlo vuol dire colpire i diritti conquistati col lavoro».
Secondo la segretaria della Cisl, Daniela Fumarola, «bisogna evitare fughe in avanti: le regole si cambiano insieme al sindacato».
Contrarie anche le opposizioni. Arturo Scotto, capogruppo del Pd in commissione Lavoro alla Camera, chiede al governo di «spiegare in aula» una proposta dove «si omette di specificare
che quelli del Tfr sono soldi dei lavoratori». Per i 5 Stelle i lavoratori sarebbero «penalizzati due volte: perderebbero la liquidazione e la pensione verrebbe calcolata tutta col contributivo». No anche dell’Alleanza verdi-sinistra.
I punti fermi
Se il Tfr è al centro del dibattito, ci sono invece dei punti che sembrano già acquisiti. Innanzitutto, come ha più volte detto il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non dovrebbe scattare, nel 2027, il previsto aumento di tre mesi dell’età pensionabile in relazione all’incremento della speranza di vita.
Quindi, si continuerà ad accedere alla pensione di vecchiaia a 67 anni e a quella anticipata con 42 anni e 10 mesi (un anno in meno per le donne) indipendentemente dall’età.
Probabile, inoltre, la conferma per il 2026 del bonus Giorgetti per chi, raggiunti i requisiti per andare in pensione prima dei 67 anni, decide invece di restare al lavoro (il bonus consiste nel versamento in busta paga del 9,19% dei contributi Inps a carico del lavoratore, esentasse).
Ha invece poche chance di essere prorogata Quota 103 (in pensione con 62 anni d’età e 41 di contributi), dopo il flop conseguente alla stretta sui requisiti decisa dal governo (appena 1.153 le pensioni così liquidate nel 2024) mentre potrebbe essere rivista e corretta Opzione donna, anche questa pochissimo richiesta.

(da agenzie)

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L’ITALIA, IL PARADISO DEGLI EVASORI FISCALI (TANTO LE TASSE LE PAGANO I LAVORATORI DIPENDENTI)

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

FERRUCCIO DE BORTOLI: “IL CONDONO FISCALE DI AGOSTO È TOMBALE PER LE IMPOSTE EVASE TRA IL 2019 E IL 2023. CINQUE ANNI SANABILI PAGANDO, CON LA MIGLIORE DELLE PAGELLE FISCALI, SOLO IL 10 PER CENTO”… MA SE POI UNO PENSA CHE I CONTROLLI RIGUARDANO SOLO L’1,42 PER CENTO DELLA PLATEA DEI CONTRIBUENTI COINVOLTI, PERCHÉ PAGARE? MEGLIO ASPETTARE LA PROSSIMA ROTTAMAZIONE CHE INEVITABILMENTE VERRÀ”

Due piccole (si fa per dire) notizie agostane confermano che l’evasione fiscale non è più vissuta, nella nostra Nazione, come un’emergenza. Forse nella realtà non lo è mai stata. Fa parte del carattere italiano.
Il miracolo economico del secolo scorso, dopotutto, è stato reso possibile anche da un atteggiamento sulle tante attività economiche che, nel formalismo fiscale, non sarebbero mai nate.
Con il passare degli anni la progressività dell’imposta (ormai limitata all’Irpef da cui chi può sfugge), assomiglia a un relitto novecentesco. Diffuso è il senso di ingiustizia in dipendenti e pensionati, tassati alla fonte, che però hanno meno peso politico di autonomi e piccole imprese, destinatari della flat tax e delle sue estensioni.
Stupisce che il dato appena pubblicato dalla Corte dei conti, secondo la quale solo il 17,7 per cento dell’evasione scoperta è
alla fine incassata, non susciti grandi discussioni. Scivoli via come qualcosa di risaputo, persino risibile. Non siamo ancora al compiacimento della furbizia italica, ma ci siamo vicini. È ormai diffuso il concetto dell’evasione di necessità. Se uno non paga le tasse è perché non riesce a farlo, pur volendolo con tutto il cuore. Dunque perché non aiutarlo?
E colpisce che sia passato inosservato un piccolo – si fa per dire anche questo caso – condono d’agosto. Lo commenta sulla newsletter Appunti, diretta da Stefano Feltri, un esperto della materia come Roberto Seghetti. Una norma del primo agosto scorso converte in legge un decreto del 17 giugno 2025 numero 84 che rinnova, per gli anni 2025 e 2026, il concordato preventivo biennale. Contiene un condono tombale per le imposte sui redditi e l’Irap evasi negli anni tra il 2019 e il 2023. Cinque anni sanabili pagando, con la migliore delle pagelle fiscali, solo il 10 per cento.
Ma se poi uno pensa che i controlli riguardano solo l’1,42 per cento della platea dei contribuenti coinvolti, perché pagare? Meglio aspettare la prossima rottamazione che inevitabilmente verrà.

Ferruccio de Bortoli
per www.corriere.it

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LA FRANCIA È NEL CAOS. MACRON TACE DAVANTI AL RISCHIO DI VOTO ANTICIPATO: I PARTITI DI OPPOSIZIONE DEL PAESE SI SONO AFFRETTATI A CHIARIRE CHE VOTERANNO CONTRO BAYROU E IL SUO GOVERNO DI MINORANZA

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

SECONDO UN SONDAGGIO IL 72% DEI FRANCESI SPERA CHE IL PREMIER NON OTTENGA FIDUCIA – UNA NETTA MAGGIORANZA DEGLI INTERVISTATI SI DICHIARA FAVOREVOLE ANCHE A NUOVE ELEZIONI LEGISLATIVE (69%), E ALLE DIMISSIONI DI EMMANUEL MACRON (67%)

Piu’ di sette francesi su dieci (il 72%) sperano che il governo di Francois Bayrou non ottenga la maggioranza dei voti all’Assemblea Nazionale l’8 settembre, data del voto di fiducia annunciato dal primo ministro.
E’ quanto rivela un sondaggio di Elabe per BfmTv. Il capo del
governo non ha l’opinione pubblica dalla sua parte: solo il 27% degli intervistati afferma di sperare che Bayrou venga mantenuto in carica dai deputati.
Contrariamente alla retorica allarmistica dell’esecutivo, la maggior parte degli intervistati ritiene che la caduta del governo “non sarebbe problematica per la situazione economica e finanziaria del Paese” (22%) e che questa situazione “e’ gia’ molto grave e non puo’ peggiorare” (51%).
Al di la’ delle dimissioni del signor Bayrou e della sua squadra, che sono gia’ scontate, tutti gli scenari sembrano favorevoli ai francesi: mentre la nomina di un premier e’ la scelta preferita (81%), emerge una netta maggioranza anche per lo scioglimento e nuove elezioni legislative (69%), o addirittura per le dimissioni di Emmanuel Macron (67%)
La Francia potrebbe ritrovarsi ad affrontare un nuovo voto anticipato, ha ipotizzato oggi martedì il ministro della Giustizia francese, dopo che i partiti di opposizione hanno dichiarato che voteranno per estromettere il Primo Ministro François Bayrou e mentre i mercati francesi crollano. Bayrou ha scosso l’establishment politico dal suo torpore estivo lunedì con la sua inaspettata mossa di chiedere un voto di fiducia l’8 settembre sul suo piano di riduzione del debito.
Il Ministro della Giustizia Gérald Darmanin ha dichiarato a France 2 che, sebbene il governo stia ancora lavorando per trovare un accordo di compromesso, “non può escludere” lo scenario di un altro costoso scioglimento del parlamento. Emmanuel Macron, l’unica persona che può sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni legislative, non ha ancora commentato la mossa di Bayrou, sebbene l’entourage di Bayrou abbia dichiarato lunedì che Macron aveva approvato il piano.
I principali partiti di opposizione del paese si sono affrettati a chiarire che voteranno contro Bayrou e il suo governo di minoranza. “Abbiamo bisogno di un Primo Ministro diverso e, soprattutto, di una politica diversa”, ha scritto su X il principale deputato socialista Boris Vallaud

(da agenzie)

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“IL NEGOZIATO RUSSO-UCRAINO NON SI FA PERCHÉ LA RUSSIA NON LO VUOLE FARE”

Agosto 26th, 2025 Riccardo Fucile

STEFANO STEFANINI SU “LA STAMPA”: “ NON POTENDO AMMETTERE CHE LA SUA INIZIATIVA È FALLITA, TRUMP FAVOLEGGIA DI ALTRE DUE SETTIMANE PER DARE TEMPO A PUTIN. PER COSA? PER RIPETERE CHE ‘BISOGNA PRIMA RISOLVERE LE CAUSE ALLA RADICE DEL CONFLITTO’, LEGGI ESISTENZA DELL’UCRAINA COME STATO INDIPENDENTE?”

Tanto vale dirlo ma nessuno ne ha il coraggio. Il negoziato per mettere fine alla guerra in Ucraina è morto prima di cominciare.
Con la cinica spregiudicatezza di un diplomatico di classe, Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, ci ha messo sopra una pietra tombale. Nel silenzio generale di tanti altri
Washington caccia la testa sotto la sabbia. Non potendo ammettere che la sua iniziativa è fallita – si è appena esibito con un «avevo ragione su tutto» – Donald Trump favoleggia di altre due settimane per dare tempo a Vladimir Putin. Per cosa? Per ripetere che «bisogna prima risolvere le cause alla radice del conflitto» – leggi esistenza dell’Ucraina come Stato indipendente, come gli ha già detto ad Anchorage?
Gli ucraini, che lo sanno, hanno celebrato l’anniversario dell’indipendenza senza illusioni. I leader europei pure lo sanno ma fanno finta di non saperlo: chi osa contraddire Donald Trump? Meglio parlare di garanzie internazionali. Importantissime per il futuro dell’Ucraina ma solo quando le armi taceranno. Invece la guerra continua.
Il paradosso si articola su tre piani: perché il negoziato non si fa, malgrado sia stato anticipato dal presidente degli Stati Uniti dopo il suo incontro faccia a faccia con l’omologo russo; cosa attende l’Ucraina e, di riflesso, cosa fare da parte degli europei che la sostengono; come regolarsi con Donald Trump quando sbaglia visto che non gli si può dire che ha sbagliato.
Problema serio per gli alleati, come l’Italia, per l’Europa, per la Nato che vogliono assolutamente continuare ad avere gli Stati Uniti dalla loro parte.
Fino a che punto può funzionare la strategia anche quando Trump mostra di non esserlo più di tanto, se non di simpatizzare con la parte opposta?
Il negoziato russo-ucraino non si fa perché la Russia non lo vuole fare.
Al ritorno da Anchorage, Trump aveva ventilato un maxi-vertice trilaterale Putin-Zelensky-Trump stesso; dopo il gelido silenzio moscovita ha ripiegato su un Putin-Zelensky mentre la diplomazia americana esplorava possibili sedi, Budapest, Ginevra, Roma…
Ci ha pensato Sergei Lavrov a gettare una cascata d’acqua sul fuocherello. Di incontro fra i due presidenti per ora non si parla anche perché uno dei due – Zelensky – è illegittimo.
Al massimo, si alza il livello delle delegazioni finora incontratesi a Istanbul, ma prima l’incontro va preparato, ci vuole un ordine del giorno concordato e così via.
Per continuare la guerra senza troppo scontentare il ritrovato amico Donald, Putin tace e fa parlare Lavrov, suo ministro degli Esteri da 21 anni.
Rinviare alle calende greche senza mettersi contro Trump – che nel frattempo Putin loda per gli sforzi di pace – è un gioco da ragazzi per un diplomatico del suo calibro ed esperienza.
Niente cessate il fuoco lungo la linea di demarcazione – concessione fatta da Donald Trump a Anchorage. Adesso niente
negoziato per una pace duratura, annunciato dallo stesso Trump al ritorno da Anchorage.
All’Ucraina non rimane che difendersi – o arrendersi. Pur estenuati, gli ucraini non hanno alcuna intenzione di arrendersi. Volevano un cessate il fuoco sapendo che la Russia avrebbe mantenuto, di fatto, il possesso dei territori conquistati. Ma non cederne altri, specie la parte del Donetsk protetta da una solida linea di fortificazioni che l’offensiva russa non ha scalfito. La posizione non è cambiata.
L’Europa è per il negoziato. Fino a che il negoziato non si fa – e non si fa perché la Russia lo rifiuta, l’Europa è per l’Ucraina. Questo significa due cose. Primo, prendere sulle spalle il carico dell’assistenza militare ed economico-finanziaria a Kiev. Sperando che da Washington continui a venire la collaborazione di intelligence, cruciale per la condotta delle operazioni e, magari, il Congresso estorca qualcos’altro alla Casa Bianca, sanzioni o armi.
Secondo, gli europei non hanno altra scelta che continuare a far finta di credere in Donald Trump e nei suoi tentativi di negoziato russo-ucraino. Se il presidente americano si sfila dà carta bianca a Putin – come con Netanyahu a Gaza. Ancora peggio, se pur di arrivare alla fine della guerra, e aggiudicarsi l’agognato Nobe
per la pace, il presidente americano rivolge le pressioni su Volodymir Zelensky per fargli accettare un negoziato ipotecato dalle condizioni russe.
Chissà che a furia di sbagliare il presidente che ha sempre ragione non ne azzecchi una. Ma, almeno inter nos, non illudiamoci in un negoziato russo-ucraino prossimo venturo grazie alla genialità di Donald Trump. Se e quando ci si arriverà, sarà grazie alla capacità di resistenza ucraina all’aggressione di Vladimir Putin.

Stefano Stefanini
per “La Stampa

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