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IL PIANO CASA DI MELONI E SALVINI PER LE GIOVANI COPPIE E’ UNA TRUFFA: CI GUADAGNEREBBERO I SOLITI PRIVATI

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

AI SOVRANISTI NON INTERESSA AFFRONTARE LA PRECARIETA’ ABITATIVA

Il duo Meloni-Salvini, come affermato oggi dalla Presidente del Consiglio al meeting di Comunione e Liberazione, intende varare un piano casa. Ad una lettura superficiale e sul titolo, come darle torto sul fatto che serve un piano casa?
In realtà stiamo parlando di una truffa sociale, economica e politica. I due sopra menzionati vogliono appaltare il loro piano casa a costruttori, alla finanza immobiliare, a fondi immobiliari e banche, ai quali cedere aree e immobili pubblici oggi inutilizzati e magari, con qualche solido incentivo economico, permettere di recuperare, rigenerahttps://i.postimg.cc/8cZ4t78p/attacchi-ucraina-raffinerie-russe-2168504-600-q50.webpre o edificare alloggi da destinare ad affitto – dicono loro – calmierato.
Si tratta di fatto di un nuovo sacco delle città, che si basa sulla cosiddetta valorizzazione degli immobili e sulla base di un malinteso consumo di suolo, occasione privilegiata per lucrosi affari di lobby immobiliari.
Si tratta di una truffa perché si riferisce a un generico “giovani coppie”, ma senza alcun riferimento al fabbisogno reale costituito da una massa di persone e famiglie sempre più povere.
Non è un caso l’uso generico di “giovani coppie” – meglio se di carnagione bianca e solvibili magari con due stipendi.
Al duo Meloni-Salvini non interessa affrontare strutturalmente la vasta precarietà abitativa che certo investe anche i giovani e le giovani coppie. A loro interessa solo che il messaggio sia generico mentre la sostanza sta da ben altre parti, quelle dove il portafoglio immobiliare sta sempre nella tasca a sinistra della giacca.
Non è un caso, d’altronde, che sia Meloni che Salvini non abbiano mai citato, in nessun loro intervento, da quando sono al governo, le famiglie nelle graduatorie comunali per una casa popolare (si stimano dalle 320mila alle 700mila famiglie); le famiglie con sfratto (30-40mila l’anno); le famiglie con sfratto eseguito con passaggio da casa a strada (circa 25mila l’anno); le famiglie in povertà assoluta e in affitto (l’Istat nel 2023 le stimava in 1.031.000).
La povertà non è solvibile e soprattutto non potrà mai pagare gli affitti persino – dicono – calmierati. Come si sa, poi, i poveri non votano: al massimo gli si offre una tessera povertà da 500 euro l’anno e quando va bene programmi di accompagnamento inutili e senza prospettiva per uscire dalla povertà – nei quali impegniamo quei poveri cristi di assistenti sociali – che si risolvono sempre nel ritorno nella povertà in un gioco dell’oca dell’esclusione sociale.
Il governo, quindi, si appresta a varare il suo famoso Piano casa Italia, dicono per 200mila alloggi in dieci anni ma basati su programmi pubblico-privato dove il business è tutto del privato.
Del resto le avvisaglie c’erano tutte. Ricordate quando il governo parlava di dare residenze a studenti per garantire il diritto allo studio? Beh, quelle residenze il governo le ha fatte diventare intervento privato con student hotel a 1200 euro al mese. Ricordate quando il governo parlava della condizione abitativa degli anziani pensionati? Beh qui hanno dato vita, sempre con privati, al senior housing bellissimo e dotato di tutti i comfort: l’unica cosa che manca alla stragrande maggioranza dei pensionati è il modo di pagarlo, visto che con l’aumento di 1,80 euro mensili non si sono considerati ricchi.
Ai poveri, in realtà, il governo un messaggio lo ha mandato. Anzi due. Il primo facendo diventare immobili o loculi da 20 mq delle case abitabili, così possono pagare meno e a detta del governo si affronta il disagio abitativo. Nel Lazio siamo più avanti ancora, visto che ora seminterrati e interrati possono diventare abitazioni legali e anche b&b.
Il secondo messaggio è quello del decreto Sicurezza, laddove prevede, per i poveri che occupano, non il passaggio da casa a casa, ma quello da casa a casa circondariale addirittura per sette anni.
Questo passa il convento e, per dirla alla Vecchioni in un suo brano, ogni volta che Meloni e Salvini parlano è una truffa.

(da il Fatto Quotidiano)

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MELONI ATTACCA I GIUDICI CHE LE “IMPEDISCONO DI FAR RISPETTARE LA LEGGE, MA E’ LEI CHE L’HA INFRANTA

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

IL CASO DEI CENTRI IN ALBANIA E QUELLO DI ALMASRI HANNO DIMOSTRATO CHE A VIOLARE LA LEGGE E’ IL SUO GOVERNO

“Ogni tentativo che verrà fatto di impedirci di governare” il fenomeno delle migrazioni “con serietà e determinazione sarà rispedito al mittente. Non c’è giudice, politico o burocrate che possa impedirci di far rispettare la legge dello Stato italiano, di garantire la sicurezza dei nostri cittadini, di combattere gli schiavisti del terzo millennio, di salvare vite umane”.
Con queste parole, pronunciate al Meeting di Rimini e accolte da applausi scroscianti, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha lanciato l’ennesimo attacco alla magistratura.
Meloni se l’è presa con giudici, politici e “burocrati”, senza distinzioni di ruolo o funzione. Tutti per lei rientrano nella stessa categoria, quella di chi non vuole “metterla nella condizione di fare il suo lavoro”, come aveva detto in un altro discorso lo scorso anno, in cui criticava i giudici che mostravano “menefreghismo della volontà popolare”.
La falla del ragionamento è sempre la stessa: non tocca ai giudici “permettere” al governo di fare il suo lavoro; tocca al governo rispettare le leggi. E nei circa tre anni di mandato svolti finora almeno due casi legati all’immigrazione hanno mostrato che rispettare le leggi non è la priorità per l’esecutivo: i centri costruiti in Albania, e la liberazione del comandante libico Almasri.
Il caso Almasri e lo scontro con la Corte penale internazionale
Nel discorso a Rimini, Meloni ha tessuto ancora una volta le lodi del proprio operato. “Non ci interessa sfruttare la migrazione per avere manodopera a basso costo da impiegare nei nostri sistemi produttivi”, si è spinta a dire. “Ci interessa combattere le cause profonde che spingono tanti, troppi giovani a pagare trafficanti senza scrupoli per affrontare viaggi potenzialmente letali”.
giudici, ma tace sui colpi di mitra dei libici”
Quei “trafficanti senza scrupoli” sono gli stessi che la presidente
del Consiglio disse di voler combattere “in tutto il globo terracqueo” a marzo 2023, dopo la strage di Cutro. Poco meno di due anni dopo, a gennaio di quest’anno, il governo italiano ha avuto l’occasione di rispettare la promessa: Najeem Osema Almasri, uomo di punta della Rada, milizia libica che contribuisce a detenere e torturare migliaia di persone migranti in Libia, è stato arrestato in Italia.
Su di lui pendeva un mandato d’arresto della Corte penale internazionale (Cpi). Si trattava solo di “far rispettare le leggi”: convalidare l’arresto e inviare Almasri all’Aja. D’altra parte se è vero che “non c’è niente di più importante che salvare una vita umana strappandola agli artigli dei trafficanti di esseri umani”, come ha detto Meloni a Rimini, avrebbe dovuto essere una decisione semplice.
Come è noto, il governo ha scelto una direzione ben diversa. Prima il ministero della Giustizia non ha confermato l’arresto del comandante libico, per ragioni che sono poi state spiegate più volte in modo confuso e ben poco convincente. Poche ore dopo, il ministero dell’Interno ha organizzato un volo di Stato per riportare Almasri a Tripoli. Una “espulsione” motivata “in parte” dalla sua “pericolosità”, come ha ribadito il ministro Piantedosi. In realtà la scelta è stata politica: aggirare la Corte penale internazionale per, con tutta probabilità, evitare ritorsioni da parte della Libia e mantenere i rapporti internazionali. Ma nessuno nel governo si è preso la responsabilità di ammetterlo.
L’Italia poteva dare un duro colpo al sistema del traffico di essere umani che passa dalla Libia, contribuendo alle indagini internazionali che lo riguardano. Invece ha deciso di non rispettare le leggi che la obbligano a cooperare con la Corte dell’Aja. Dalla vicenda è nata un’indagine della Cpi, la cu
procura ha smentito le giustificazioni del governo Meloni. E anche un’indagine del Tribunale dei ministri, che ha chiesto il rinvio a giudizio per i ministri Nordio e Piantedosi e per il sottosegretario Mantovano. Naturalmente, la presidente del Consiglio ha risposto attaccando i giudici.
Sui centri migranti in Albania avevano ragione i giudici
In un altro passaggio del suo discorso a Rimini, Meloni ha elencato tutti i cambiamenti che l’Italia avrebbe portato nell’approccio europeo alla questione migratoria: “L’attuazione dei partenariati paritari con i Paesi di origine e transito, la difesa dei confini esterni dell’Unione europea, il rafforzamento della politica dei rimpatri, la costruzione di soluzioni innovative”. Queste ultime due parole, piuttosto criptiche, si riferiscono alla costruzione dei centri migranti in Albania. Un’iniziativa che ancora una volta, per fini politici, ha sfidato la legge – curandosi bene di attaccare tutti i magistrati che lo facevano notare.
I centri albanesi erano nati per ospitare persone migranti intercettate nel Mediterraneo. Il piano venduto agli elettori era chiaro: qui porteremo solo chi viene da Paesi considerati ‘sicuri’, che sarà sottoposto a procedure accelerate per la domanda d’asilo; se non ha diritto a restare in Europa, sarà subito rimandato indietro. Sottinteso: senza mai mettere piede in Italia. È diventato presto evidente che questo piano era del tutto insensato.
Dopo i costosi lavori per la costruzione dei centri, conclusi parecchio in ritardo rispetto alla tabella di marcia annunciata, per i primi mesi di attività i tribunali italiani non hanno mai convalidato la detenzione delle (pochissime) persone portate in Albania. Questo perché, semplicemente, il governo stava violando le norme nazionali ed europee sul diritto d’asilo. Che
avessero ragione i giudici lo ha poi confermato la Corte di giustizia dell’Ue, poche settimane fa. L’esecutivo invece ne ha approfittato per attaccare i magistrati, mentre i centri rimanevano vuoti e inutilizzati.
Alla fine, il governo ha fatto un passo indietro – pur senza ammetterlo – e ha trasformato i centri in Albania in Cpr, centri di permanenza per il rimpatrio. Strutture identiche a quelle che si trovano già in Italia, e in cui non c’era certo carenza di posti. Un flop, motivato dalla volontà politica di presentare “soluzioni innovative” sulle migrazioni. Peccato che queste soluzioni andassero, ancora una volta, contro le leggi che Meloni ha detto di voler “fare rispettare”.

(da Fanpage)

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LA RUSSIA E’ RIMASTA SENZA BENZINA DOPO GLI ATTACCHI UCRAINI ALLE RAFFINERIE CARENZE DI CARBURANTE IN DIVERSE REGIONI DELL’ESTREMO ORIENTE E NELLA PENISOLA DI CRIMEA

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

NELLE ULTIME SETTIMANE SONO STATE COLPITE DAI DRONI DI KIEV ALMENO 10 RAFFINERIE… CON I PREZZI DEI CARBURANTI ALLE STELLE, IL CREMLINO CORRE AI RIPARI E IMPONE LO STOP ALLE ESPORTAZIONI

Le stazioni di servizio sono rimaste senza carburante in alcune regioni della Russia dopo che i droni ucraini hanno colpito le raffinerie e altre infrastrutture petrolifere nelle ultime settimane. I media russi hanno segnalato carenze di carburante in diverse regioni dell’Estremo Oriente e nella penisola di Crimea, annessa illegalmente da Mosca nel 2014 sottraendola all’Ucraina.
Gli automobilisti sono costretti ad attendere in lunghe code e le autorità ricorrono al razionamento o alla sospensione totale delle vendite.
I prezzi all’ingrosso sul St. Petersburg International Mercantile Exchange per la benzina A-95, quella con il più alto numero di ottani, hanno raggiunto livelli record la scorsa settimana, con un aumento del 50% rispetto a gennaio, a causa dell’impennata della domanda da parte degli agricoltori che cercano di portare a termine il raccolto e dei russi che si mettono in viaggio per l’ultima grande vacanza dell’estate.
I media della regione di Primorye, al confine con la Corea del Nord, hanno segnalato lunghe code e prezzi di circa 78 rubli al litro (circa 3,58 dollari al gallone) nelle stazioni di servizio della zona, dove lo stipendio medio mensile è di circa 1.200 dollari. I giornalisti dell’agenzia di stampa locale Primpress hanno scoperto che altri automobilisti cercavano di vendere benzina online a ben 220 rubli al litro.
Nel distretto di Kurilsky, nelle isole Kuril a nord del Giappone, la carenza di benzina A-92 a basso numero di ottani ha costretto le autorità a sospendere completamente la vendita al pubblico lunedì.
In Crimea, rinomata località turistica, alcune aziende hanno venduto carburante solo ai possessori di buoni o tessere speciali. La Russia non è nuova agli aumenti del prezzo della benzina alla fine dell’estate, ma quest’anno la carenza è stata aggravata dagli attacchi dell’Ucraina alle raffinerie di petrolio nel corso della guerra.
Attacchi più consistenti e concentrati stanno causando maggiori danni e ostacolando la produzione, il tutto in coincidenza con il
picco della domanda. L’Ucraina ha già preso di mira le infrastrutture energetiche in passato, ma i recenti attacchi hanno avuto più successo, con un numero maggiore di droni che hanno colpito un gruppo più concentrato di strutture.
Gli ucraini stanno attaccando un arco di raffinerie, a partire da Ryazan, a sud di Mosca, fino a Volgograd. Quella regione è attraversata da chi si reca in auto verso le località turistiche sul Mar Nero. È la regione in cui si svolge la maggior parte delle operazioni di raccolta. Ed è anche una regione piuttosto densamente popolata”, ha detto ad Associated Press Sergey Vakulenko, senior fellow del Carnegie Russia Eurasia Center. Secondo i media, fra il 2 e il 24 agosto l’Ucraina ha attaccato le infrastrutture petrolifere almeno 12 volte.
Di questi attacchi, almeno 10 hanno preso di mira siti nell’arco Ryazan-Volgograd, nella Russia sud-occidentale. Questi attacchi hanno danneggiato molte raffinerie di petrolio, ma non le hanno distrutte completamente, ha detto Vakulenko, aggiungendo che la maggior parte degli impianti è estremamente resistente agli incendi.
Altre questioni legate alla guerra hanno causato ulteriori difficoltà ai consumatori. Gli attacchi con droni ucraini hanno ripetutamente interrotto le reti di trasporto russe, in particolare il traffico aereo, spingendo più persone a viaggiare in auto e aumentando la domanda di benzina, ha affermato Vakulenko. L’inflazione ha anche reso meno redditizio per i fornitori che normalmente acquistano benzina all’inizio dell’anno per venderla nei mesi estivi, quando i prezzi sono più alti, e molti imprenditori hanno semplicemente deciso di non preoccuparsene quest’anno, ha affermato.
Presi singolarmente, nessuno di questi problemi ha causato interruzioni durature o diffuse in Russia, ma insieme hanno trasformato una fluttuazione dei prezzi annuale prevista in un problema per il governo. Per cercare di alleviare la carenza, il 28 luglio la Russia ha sospeso le esportazioni di benzina, con il ministero dell’Energia che spera di continuare le restrizioni fino a settembre.
Secondo quanto riportato dai media russi, i dirigenti delle compagnie petrolifere sono stati convocati due volte questo mese a riunioni governative per discutere della carenza. Sebbene i funzionari sembrino preoccupati, la carenza di benzina “non è critica per il sistema”, ha affermato Peach.
Finora la carenza rimane limitata ad alcune aree – l’Estremo Oriente e la Crimea – perché queste regioni sono solitamente rifornite da un numero minore di raffinerie e presentano maggiori esigenze di trasporto. Mosca è stata risparmiata dall’ultimo aumento del prezzo della benzina perché è ben rifornita dalle principali raffinerie di Yaroslavl e Nizhny Novgorod, città a poche ore di macchina.
La capitale ha anche una raffineria nella città stessa.Tuttavia, secondo gli esperti, la Russia non corre il rischio immediato di fermarsi, nemmeno nelle regioni più vulnerabili. La maggior parte degli autobus e dei camion funziona a diesel, di cui la Russia ha un surplus. E anche l’esercito, che utilizza in gran parte carburante diesel, è al riparo da eventuali shock.

(da agenzie)

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BASTA CON LA MINCHIATA CHE NETANYAHU È OSTAGGIO DELL’ULTRADESTRA: “BIBI” VUOLE SBARAZZARSI DEI PALESTINESI, ESATTAMENTE COME GLI ALTRI. È STATO IL PREMIER A SDOGANARE E PORTARE AL GOVERNO I FALCHI MESSIANICI CHE DA ANNI PREDICANO L’ANNIENTAMENTO DI GAZA E CISGIORDANIA

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

BEZALEL SMOTRICH, IL MINISTRO DELLE FINANZE È UN COLONO OLTRANZISTA. E ITAMAR BEN GVIR A 19 ANNI, ARMATO DI PISTOLA, ESIBIVA IN TV IL FREGIO DELLA CADILLAC DI RABIN MINACCIANDO: “SIAMO ARRIVATI ALLA SUA AUTO. POSSIAMO ARRIVARE ANCHE A LUI” – I DUE HANNO UN PESO SPROPOSITATO NEL GOVERNO, NONOSTANTE I POCHI VOTI

Per un misto di hybris alla greca e chutzpah all’israeliana, Benjamin Netanyahu ha adulato, sdoganato e portato al governo due falchi messianici con ego da competizione, due oltranzisti che sgomitano all’estrema destra dell’esecutivo più a destra nella storia di Israele: Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir.
Il primo, 45enne ministro delle Finanze con un portafoglio nella Difesa che gli consente di pianificare ed espandere gli insediamenti in Cisgiordania, lui stesso colono di seconda generazione. Nel 2005 fu arrestato dallo Shin Bet durante il disimpegno di Israele da Gaza, i servizi lo considerarono una minaccia potenziale, accusa sempre respinta e sospetti mai confermati in tribunale. Per lui, il 7 ottobre è stata un’«occasione» per ribaltare la storia: riconquistare Gaza e ristabilirvi gli insediamenti ebraici.
L’altro, 49 anni, allievo del rabbino estremista Meir Kahane, un tempo avvocato degli estremisti, ha costruito la sua carriera sull’incitamento, quello che portò all’assassinio di Yitzhak Rabin per seppellire con lui il processo di pace con i palestinesi in cui credeva il premier laburista. Poche settimane prima – lui 19enne e già armato di pistola – esibì in tv il fregio della Cadillac di Rabin minacciando: «Siamo arrivati alla sua auto. Possiamo arrivare anche a lui».
Condannato più volte per incitamento al razzismo e sostegno a organizzazioni terroristiche, oggi il ministro della Sicurezza nazionale, ha trasformato la polizia in un braccio politico che vorrebbe impegnato a reprimere duramente le proteste anti-governative mentre aumentano omicidi e criminalità – soprattutto nel segmento arabo della società israeliana – e cresce esponenzialmente la violenza dei coloni in Cisgiordania.
Netanyahu detto HaKosem – “il Mago” – per la sua capacità decennale di tirare fuori dal cilindro soluzioni di salvezza, principalmente per se stesso, […] asseconda – a volte anche solo tacendo – gli slogan ipernazionalisti che sono diventati veri e propri indirizzi politici illiberali, logorando insieme lo sforzo bellico e la reputazione internazionale di Israele.
È il prezzo dell’alleanza che ha garantito la nascita e la tenuta della coalizione. In sostanza, Smotrich e Ben Gvir si trovano a esercitare un potere sproporzionato al loro peso elettorale. E non perché lo abbiano conquistato ma perché Netanyahu li considera l’àncora della sua sopravvivenza politica.
Il sostegno dei Paesi europei più solidi al fianco di Israele scricchiola perché questi governi, che avevano ormai familiarità nel trattare con Netanyahu in versione “Mr. Sicurezza”, oggi capiscono di trovarsi a fare i conti con le manovre di Smotrich e Ben Gvir, registi di un Netanyahu alla guerra, promotori di un’agenda di legalizzazione degli insediamenti, che si esprimono a suon di minacce in risposta al riconoscimento internazionale della validità di una soluzione a due Stati, forzata da quello unilaterale dello Stato palestinese.
Netanyahu non si è mai assunto la responsabilità del fallimento di sicurezza del 7 ottobre e non ha la possibilità di ribaltarlo in trionfo. Tuttalpiù in un doloroso compromesso. Ma non certo se resta appaiato a Smotrich e Ben Gvir, fermamente convinti che una guerra lasciata a metà è destinata a ripresentarsi, ancora più feroce.

(da agenzie)

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“GLI ISRAELIANI DETESTANO CHE LA VERITÀ VENGA VISTA”: IL DRAMMATICO RACCONTO DI JAMAL BADAH, FOTOGRAFO DI “PALESTINE TODAY,” SOPRAVVISSUTO ALL’ATTACCO ALL’OSPEDALE NASSER DI KHAN YOUNIS, CHE HA UCCISO CINQUE GIORNALISTI

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

“QUANDO HO RIAPERTO GLI OCCHI, HO VISTO CHE TUTTI INTORNO A ME ERANO MORTI, PEZZI DEI LORO CORPI ERANO SUL MIO. SIAMO SOLO CRONISTI”

In un primo momento, il suo nome era comparso nella lista dei morti. Ma Jamal Badah, fotografo che lavora per Palestine Today, è uno dei tre reporter sopravvissuti all’attacco dell’esercito israeliano al Nasser Hospital di Khan Younis, che lunedì ha ucciso venti persone, compresi cinque giornalisti. Tra i superstiti ci sono anche il collega Hatem Omar e Mohammed Fayeq. Ci risponde in video, da una barella sgangherata dell’ospedale bombardato.
Che cosa è successo?
«Erano circa le dieci e un quarto di mattina quando siamo stati colpiti. Eravamo già al Nasser, che è una delle nostre basi dove dormiamo e ricarichiamo l’attrezzatura. Dopo il primo bombardamento siamo corsi sulle scale per trasmettere tutto quello che stava accadendo, anche se a morire questa volta c’era un nostro collega che lavorava per Reuters, l’amico Hossam Al-Masri. Come sempre, volevamo essere i primi a raccontare la verità. Quando hanno messo Al-Masri nel sacco nero per portarlo ai piani più bassi, abbiamo acceso i nostri cellulari e continuato a filmare, nonostante la tristezza. In quel momento è arrivato il secondo attacco, questa volta diretto contro di noi».
Che cosa ricorda?
«È stato come se il mondo si fosse oscurato. Quando mi sono ripreso ho riaperto gli occhi e ho visto che tutti intorno a me erano morti, pezzi dei loro corpi erano sul mio.
Sono rimasto bloccato per una decina di minuti, finché sono riusciti a estrarmi dalle macerie. Ho gridato chiedendo aiuto, volevo uscire, ma tutti avevano paura. La situazione era confusa. I soccorritori mi hanno visto, e, grazie a Dio, mi hanno tirato fuori e mi hanno salvato».
Cosa stavate facendo prima dell’attacco?
«Stavamo lavorando. Tra i nostri compiti quotidiani c’è quello di andare nelle zone colpite, scattare e filmare. Quel giorno è stato difficile. Eravamo scioccati dalla morte di Hossam Al-Masri. Era un collega più grande che ci voleva bene, ci teneva a noi più giovani. Ogni mattina passavamo del tempo insieme, scherzava, veniva a farci compagnia. Oggi non posso chiudere gli occhi».
Perché?
«Rivedo Muaz Abu Taha senza testa. O Mohammed Salama tranciato a metà. Non ho idea di dove sia finita Mariam Abu Dagga. In quei minuti lunghissimi temevo arrivasse il terzo attacco perché già il secondo era stato anomalo».
Nessuno se lo aspettava.
«No, lavoriamo sempre subito dopo un bombardamento, è chiaro che se colpisci due volte uccidi noi, gli uomini delle ambulanze, i soccorritori, i medici. Nessuno pensava di essere in pericolo: il raid sembrava finito. Anche se c’erano droni che volavano sopra l’ospedale».
Come sta ora?
«Fa male sia il corpo che l’anima. È difficile, ma grazie a Dio siamo forti e resistenti. Speriamo che la giustizia arrivi».
L’esercito israeliano ha fatto sapere che i civili non sono target.
«Noi giornalisti siamo civili. I miei colleghi che sono morti erano civili. Non abbiamo fucili, né apparteniamo a nessun gruppo armato. Non siamo di Hamas né della Jihad islamica. Siamo solo cronisti. Questo è il nostro lavoro. Non combattiamo contro lo Stato sionista. Le immagini sono tutto quello che ci è rimasto, le immagini che mostrano i bambini e le donne uccise. Gli israeliani vogliono coprire i nostri obiettivi, detestano che la verità venga vista. Per questo sono morti Hossam Al-Masri e tutti gli altri».
Tornerà a lavorare sul campo?
«Sì, Inshallah. Non lasciateci soli in questa ingiustizia, abbiamo solo i nostri cellulari e le nostre macchine fotografiche. Anche se vogliono impedirci di mostrare il male che sta accadendo a Gaza e silenziare la nostra voce, non ci fermeremo».

(da agenzie)

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VOLANO GLI STRACCI NELLA LEGA, CECCARDI CONTRO VANNACCI: “NO AL LISTINO, QUI CI SONO MILITANTI, NON TRUPPE. NO SIAMO IN UNA CASERMA”

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

LA LEGA SI SPACCA IN TOSCANA TRA VECCHIA GUARDIA E SEGUACI DEL GENERALE DE NOIATRI CHE VOGLIONO ESSERE “BLINDATI” NELLE LISTE

Non solo una questione di liste: in Toscana, a meno di 50 giorni dal voto, nella Lega scontro. Uno scontro in cui è in ballo più del destino di una consultazione regionale.
Da una parte Susanna Ceccardi, ex candidata governatrice, europarlamentare e punto di riferimento del partito sul territorio. Dall’altra Roberto Vannacci, l’ex generale e collega di Ceccardi a Bruxelles, promosso di recente da Salvini a vicesegretario nazionale.
Il casus belli ufficiale è il “listino bloccato”: Vannacci lo immagina come strumento per blindare i suoi uomini, Ceccardi lo vive come un commissariamento mascherato, che toglierebbe respiro alla base e alle province.
Ma il vero nodo è più profondo: chi comanda in Toscana? E fino a che punto Salvini è disposto a riequilibrare i rapporti interni pur di tenere in squadra il suo nuovo vice?
Il messaggio diffuso da Ceccardi nelle chat regionali è il segnale più chiaro che la convivenza tra i due non funziona: “Non so a che punto siano Roberto (Vannacci, ndr) e Luca (Baroncini, segretario toscano della Lega, ndr) con la redazione delle liste, ma vorrei dire anch’io la mia opinione. Cinque anni fa fui chiamata a fare una campagna elettorale impegnativa. Allora eravamo circondati da entusiasmo, un clima che purtroppo oggi non riscontro”.
Le sue parole hanno il tono dello sfogo, ma anche della rivendicazione: ricorda di essere scesa in campo cinque anni fa con una bambina piccola e un seggio europeo già sicuro, insiste sul valore della competizione libera. Poi l’attacco diretto al generale: “Sono sempre stata contraria al listino bloccato.
Sarebbe deleterio e l’effetto sarebbe devastante sul morale delle “truppe” – come le chiama Roberto – anche se io preferisco chiamarli militanti. La politica, infatti, non è come l’esercito: qui c’è un gruppo di persone che non ricevono ordini, se non quelli morali che sentono dentro di sé”.
Il messaggio diffuso di Ceccardi è il segnale più chiaro che la convivenza tra i due non funziona. È un modo per dire che la Lega in Toscana non è mai stata una caserma, e che non accetterà di diventarlo adesso.
Dietro le righe, emerge la paura di perdere il ruolo costruito in anni di radicamento sul territorio. La “zarina” sa che l’arrivo del “generale” rischia di riscrivere gli equilibri interni. E a Salvini toccherebbe l’ennesima mediazione: bilanciare ambizioni personali e tenuta del partito, mentre la campagna elettorale è già iniziata.

(da La Stampa)

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A TE IL VENETO, A ME LA LOMBARDIA: COSA CHIEDERÀ GIORGIA MELONI, IN CAMBIO DELL’OK ALLA CANDIDATURA DI UN LEGHISTA PER IL DOPO ZAIA? LA DUCETTA VORRÀ PRENDERSI IL PIRELLONE NEL 2028, CON IL RISCHIO DI LASCIARLO GOVERNARE ALLA BANDA DEI LA RUSSA, CHE GIÀ SPADRONEGGIA?

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

NEL CARROCCIO SI PREPARANO A LANCIARE IL VICESEGRETARIO NAZIONALE, ALBERTO STEFANI, COME CANDIDATO: LUCA ZAIA CORRERÀ NELLE LISTE DEL PARTITO E NON CON UNA LISTA A SUO NOME (PERICOLO SVENTATO)

Se non si sblocca il Veneto, non si chiude neanche in Campania e in Puglia. Le diramazioni locali del centrodestra, sulla carta competenti nei rispettivi territori, attendono solo il famigerato tavolo dei leader, la cui data è ancora da definire. «Da qui a dieci giorni ci siamo», assicura un big di FdI.
La composizione delle candidature fa infatti parte di un accordo complessivo tra Giorgia Meloni, Antonio Tajani e Matteo Salvini (con anche Maurizio Lupi che reclama i propri spazi). Il manuale Cencelli applicato alle amministrative è sempre complesso, ma di sicuro il piatto forte è laddove si è quasi certi di vincere, e qui si torna al Veneto.
Nel Carroccio sono convinti di averla ormai spuntata, anche grazie alla scelta — in realtà tutta da confermare — di far correre Luca Zaia nelle liste del partito e non con una lista a suo nome. Matteo Salvini e soci da tempo ricordano una specie di “lodo Berlusconi”.
Parliamo dell’inizio degli anni Dieci del 2000, quando la Lega Nord ottenne tre candidature diventate tre presidenti di Regione contemporaneamente al Nord, nonostante lo strapotere elettora
a livello nazionale del Popolo della Libertà: Piemonte con Roberto Cota, Veneto con Zaia e Lombardia con Roberto Maroni. E parliamo di un partito che a livello nazionale valeva il 4-5 per cento, contro il 21-25 del Pdl.
Il nome principale per la Liga resta quello di Alberto Stefani, vicesegretario nazionale. L’ipotesi di un altro veneto doc come Lorenzo Fontana è stata smentita con forza da via Bellerio a Milano: il presidente della Camera non avrebbe alcuna intenzione di lasciare Montecitorio, sono «ipotesi da calciomercato estivo».
I nomi più politici di FdI restano invece quelli dei senatori Luca De Carlo (che è anche segretario regionale della fiamma tricolore) e Roberto Speranzon, mentre per FI rimane sul tavolo Flavio Tosi, leghista della prima ora ed ex sindaco di Verona, oggi eurodeputato azzurro.
Tra l’altro non manca solo il candidato — quello del centrosinistra c’è: Giovanni Manildo, ex sindaco di Treviso — ma anche la data delle elezioni
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(da La Repubblica)

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SCAZZO TRA I TRUMPIANI:-LA BASE “MAGA” SI DIVIDE SULLA DECISIONE DEL PRESIDENTE USA DI PUNIRE CON UN ANNO DI CARCERE CHI BRUCIA LA BANDIERA AMERICANA

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

PER MOLTI È UNA SCELTA PATRIOTTICA, PER GLI ALTRI È UNA NEGAZIONE DELLA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE… DOPO L’ANNUNCIO DI TRUMP, UN VETERANO HA DATO FUOCO ALLA BANDIERA DAVANTI ALLA CASA BIANCA: “HO LOTTATO PER I DIRITTI DI OGNUNO DI VOI. NESSUN PRESIDENTE HA IL DIRITTO DI INFRANGERE IL PRIMO EMENDAMENTO”

Per una parte della base Maga l’ultima decisione di Donald Trump è genuino patriottismo. Per l’altra, la negazione della libertà d’espressione stabilita dal Primo emendamento. Il presidente ha infatti firmato un ordine esecutivo con cui stabilisce che bruciare la bandiera americana diventa un reato punibile fino a un anno di carcere.
Non è sfuggito a molti il paradosso: un movimento che si presenta come difensore della libertà statunitense ed è pronto a limitarne l’espressione più radicale. Il presidente leader del “partito del risentimento” che invita alla calma, ma anche l’uomo che ha graziato chi, quattro anni fa, strappò le bandiere Usa dal Campidoglio per sostituirle con quelle inneggianti a Trump.
La decisione viene vista come un test sulla democrazia: se la libertà di parola sopravvive solo quando il presidente ne approva il contenuto, allora quella libertà non esiste davvero. Incendiare la bandiera è un atto estremo che ferisce molti, perché simbolicamente si distrugge un elemento identitario. Ci sono bandiere a stelle e strisce ovunque, negli Stati Uniti, però dall’89 la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto di bruciarle come forma di «protesta simbolica».
Lunedì sera, poche ore dopo l’annuncio di Trump, un veterano ha dato fuoco alla bandiera davanti alla Casa Bianca. «Ho lottato per i diritti di ognuno di voi – ha detto rivolto a una ventina di persone – nessun presidente ha il diritto di infrangere il Primo emendamento».

(da La Repubblica)

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IL GOVERNO SMONTA E RIMONTA IL PNRR PER EVITARE LA FIGURACCIA: A UN ANNO DALLA SCADENZA DEL PIANO, L’ITALIA HA MESSO A TERRA POCO PIÙ DELLA METÀ DEGLI OLTRE 190 MILIARDI DI EURO A DISPOSIZIONE. SPENDERE TUTTI I FONDI È ORMAI IMPOSSIBILE

Agosto 27th, 2025 Riccardo Fucile

RAFFAELE FITTO, È STATO NETTO: “UNA PROROGA NON È POSSIBILE”…L’INCAZZATURA DELLA DUCETTA CON I MINISTRI: “SIAMO IN GRAVE RITARDO, CIASCUNO DI VOI DOVRÀ RISPONDERE DELLE INADEMPIENZE”

«Una proroga non è possibile. Comporterebbe la modifica dei regolamenti, l’approvazione unanime del Consiglio europeo e la ratifica di molti Parlamenti: la scadenza resta agosto 2026». Mancano un anno e una manciata di giorni alla scadenza del Piano nazionale di ripresa e resilienza e i dati ufficiali dicono che l’Italia non ha speso nemmeno la metà degli oltre 190 miliardi a disposizione.
Perché dunque dal Meeting di Rimini l’ex ministro e ora vicepresidente della Commissione Raffaele Fitto si mostra così tranchant? Le probabilità di ottenere la proroga sono effettivamente pari a zero.
Il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti ha provato a porre la questione più volte, privatamente e pubblicamente, ma senza risultato. L’ultimo dossier del servizio studi della Camera diceva che a maggio la spesa aveva raggiunto i 79 miliardi.
Gli ultimi dati a disposizione di Palazzo Chigi avrebbero certificato circa novanta miliardi di spesa: ancora troppo poco
per riuscire a spendere altrettanto nei prossimi dodici mesi. Il livello di spesa effettivamente raggiunto sarebbe in ogni caso più alto: fra i dieci e i quindici miliardi in più. La ragione della discrasia dipenderebbe dal ritardo con cui le amministrazioni caricano sulla piattaforma Regis le spese sostenute. «Dunque se le informazioni raccolte sono corrette, la spesa complessiva avrebbe superato la soglia psicologica dei cento miliardi e procederebbe ad un ritmo che sfiora i cinque miliardi al mese.
Per non fallire l’impresa di rispettare entro la scadenza gli impegni con Bruxelles ci vuole ben altro. E così Fitto ha concordato con il successore Tommaso Foti e i suoi ex funzionari a Palazzo Chigi una proposta di modifica del Piano (la quinta e ultima possibile) che nelle intenzioni dovrebbe garantire il miracolo
La Commissione ufficializzerà il sì entro settembre, e fino ad allora a Bruxelles studieranno tutti gli escamotage possibili. Il primo: lo spostamento nel serbatoio dei fondi settennali di coesione (il cui arco temporale si chiude nel 2029) di molte infrastrutture stradali e ferroviarie, quelle che hanno bisogno di tempi più lunghi.
Il secondo: fra gli otto e i dieci miliardi (ma la cifra dovrebbe aumentare) verranno «impacchettati» in strumenti finanziari che permetteranno anch’essi di andare oltre la scadenza di agosto 2026.
È la strada inaugurata per prima dalla Spagna, che pure resta più indietro dell’Italia nell’incasso delle rate. Questa è un’altra delle ragioni per cui l’Italia può sperare di sfangarla: anche Madrid – in assoluto il secondo beneficiario del Recovery Plan dopo Roma – è in ritardo con la spesa. […]
Altra soluzione allo studio: alcuni degli obiettivi verranno drasticamente semplificati, e ciò permetterà di accelerare i tempi di incasso delle ultime tre rate. «Ce ne sono alcuni inutilmente complessi», spiegano da Bruxelles. È quello che il numero uno di Invitalia Bernardo Mattarella a Rimini bolla come il «neoliberismo iper-regolamentato» della Commissione.
Che la battaglia sia tutt’altro che vinta, lo racconta la cronaca delle ultime settimane. Poco prima della pausa di agosto Giorgia Meloni in consiglio dei ministri aveva strigliato i colleghi con parole senza sfumature: «Siamo in grave ritardo, ciascuno di voi dovrà rispondere di eventuali inadempienze». Nel mirino della Meloni c’erano anzitutto Adolfo Urso (Imprese) e Gilberto Pichetto Fratin (Ambiente), ma di problemi nella spesa delle amministrazioni centrali ce ne sono ovunque.
Il problema è che la lentezza della burocrazia non si può risolvere a proclami. Anche per questo una delle soluzioni circolate fra Roma e Bruxelles prevedeva di utilizzare parte dei fondi inutilizzabili (nelle prime ipotesi avrebbero dovuto essere una ventina) per compensare le imprese colpite dalle conseguenze dei dazi.
Su questo Fitto non potrà accontentare Meloni: le regole di funzionamento del Recovery Plan non possono essere stiracchiate all’infinito.

(da La Stampa)

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