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FRATRICIDI D’ITALIA: LA GUERRA INTERNA DI FDI A PRATO A COLPI DI LETTERE ANONIME, FOTO HARD E MASSONERIA

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

MISSIVE CHE ACCUSANO IL CAPOGRUPPO DI FDI ANCHE DI USO DI DROGHE… LUI: “HO FATTO UNA SCIOCCHEZZA MA NON MI FACCIO RICATTARE»

Una lettera anonima con foto hard. E accuse di pedofilia, pedopornografia, uso di droghe e affiliazioni massoniche. E Tommaso Cocci, capogruppo di Fratelli d’Italia a Prato e candidato alle elezioni regionali del 12 e 13 ottobre, ammette che è tutto vero: «Ho fatto una sciocchezza, ma non mi faccio ricattare». Il Fatto Quotidiano racconta oggi la storia della guerra fratricida di FdI nella città toscana. E di una missiva arrivata a febbraio. Con il bis di aprile e la minaccia: «Se continui a fare politica ti distruggiamo la vita».
Fratricidi d’Italia
Cocci è avvocato ed è sostenuto nel partito dalla deputata Chiara La Porta. Racconta di un adescamento su Instagram. Con scambio di foto intime e lettere. L’account che l’ha circuito nel frattempo è sparito. Ma le immagini hanno cominciato a circolare tra consiglieri di destra e sinistra. Con la richiesta di dimissioni. Il 18 aprile ha denunciato tutto alla Digos. E dice che quelle lettere provengono dal suo stesso partito. Perché la missiva sull’uso di droghe era indirizzata direttamente a La Porta e a Giovanni Donzelli, referente locale. Un’altra recita: «Di tutto questo gli onorevoli di Fratelli d’Italia sono a conoscenza da ottobre 2024». E chiede: «E voi continuate a sostenerlo?».
La mozione antidroga
Poche settimane prima dell’arrivo della prima missiva in consiglio comunale a Prato è arrivata una mozione per sottoporre tutti i consiglieri al test antidroga. Con la firma di Claudio Belgiorno, collega di partito di Cocci. «Per questo quattro giorni dopo ho fatto il test», spiega ancora l’avvocato. Belgiorno, che nega un ruolo nella fabbricazione dei dossier, precisa però di aver ricevuto le lettere e di averle trasmesse ai referenti. Anche perché nei confronti di Cocci c’è anche un’altra accusa: quella di appartenere alla massoneria. In effetti Cocci conferma di essere segretario della Loggia del Sagittario. Quella di cui è Gran Maestro proprio Riccardo Matteini Bresci. Ovvero l’uomo accusato di aver corrotto l’ex sindaca Ilaria Bugetti.
12 anni
Cocci dichiara di essere iscritto da 12 anni alla Loggia. E di essersi messo “in sonno”. Nelle carte dell’inchiesta su Bugetti il suo nome non compare. «Non ho mai avuto rapporti professionali con Matteini né con altri su cui indaga la Procura», conferma lui. Ma la calunnia è un venticello. FdI ha fatto della “questione massoneria” l’arma per colpire Bugetti e il “sistema Pd”. E oggi si ritrova a correre con l’ex segretario della stessa loggia. Donzelli, responsabile nazionale dell’organizzazione, si era pure vantato: «A Siena abbiamo sostituito in 24 ore un candidato che aveva dato priorità alla sua appartenenza massonica».
Il problema è che anche Belgiorno ha i suoi guai. Tra il 2021 e il 2022 il comune ha versato 36 mila euro alla società in cui lavorava a titolo di rimborso. Ha giustificato le sue assenze con incontri istituzionali dubbi. E avrebbe anche convocato 15 riunioni del gruppo consiliare composto solo da lui e da Cocci. Su questo c’è un’altra inchiesta della procura di Prato.

(da agenzie)

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“I DAZI DI TRUMP SONO ILLEGALI”: LA SENTENZA DEI GIUDICI E LA REAZIONE ISTERICA DEL PRESIDENTE

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

ORA IL RICORSO ALLA CORTE SUPREMA (CHE ESSENDO A MAGGIORANZA TRUMPIANA DARA’ RAGIONE AL CRIMINALE)

I dazi di Donald Trump sono «in gran parte illegali». Una Corte d’Appello Federale boccia la politica delle tariffe dell’amministrazione. E il presidente reagisce attaccando una sentenza «scorretta» e scritta da «giudici di parte». E annunciando il ricorso alla Corte Suprema, dove i trumpiani sono in maggioranza. Per cancellare una decisione che «rischia letteralmente di distruggere gli Stati Uniti d’America». dazi, in ogni caso – come stabilito dai giudici – resteranno in vigore fino al 14 ottobre. Per dare alla Casa Bianca il tempo di ricorrere al più alto tribunale Usa.
La bocciatura dei giudici
La sentenza, che è passata con 7 voti a favore e 4 contrari, dice che la legge conferisce sì al presidente un’autorità significativa per intraprendere una serie di azioni in risposta a un’emergenza nazionale dichiarata. Ma nessuna di queste azioni include esplicitamente il potere di imporre tariffe, dazi o simili. E quindi la scelta di Trump di usare i poteri emergenziali per i dazi è «incostituzionale». La Corte ha confermato la sentenza di un tribunale di grado inferiore. Contestando l’uso dell’International emergency economic powers act (Ieepa). Che era stato segnalato in più occasioni come il «punto debole» della strategia doganale del tycoon. Si tratta di una legge che risale al 1977 e autorizza il presidente a dichiarare un’emergenza nazionale.
Le minacce
Ma il potere del presidente si può usare solo in risposta a minacce insolite e straordinarie alla sicurezza nazionale, alla politica estera o all’economia degli Stati Uniti. «Sembra
improbabile che il Congresso, emanando l’Ieepa intendesse concedere al presidente un’autorità illimitata per imporre dazi», scrivono i giudici. La replica di Trump è arrivata su Truth: «Una corte d’appello di parte ha erroneamente affermato che i nostri dazi dovrebbero essere rimossi, ma sa che alla fine gli Stati Uniti d’America vinceranno. Se questi dazi venissero mai eliminati, sarebbe un disastro totale per il Paese. Ci renderebbe finanziariamente deboli e dobbiamo essere forti».
La replica
E ancora: «Gli Stati Uniti non tollereranno più enormi deficit commerciali e dazi doganali e barriere commerciali non tariffarie ingiuste imposte da altri Paesi, amici o nemici, che minano i nostri produttori, agricoltori e tutti gli altri. Se lasciata in vigore, questa decisione distruggerebbe letteralmente gli Stati Uniti d’America. Per molti anni i nostri politici indifferenti e imprudenti hanno permesso che i dazi venissero usati contro di noi. Ora, con l’aiuto della Corte Suprema degli Stati Uniti li useremo a beneficio della nostra nazione e renderemo l’America di nuovo ricca, forte e potente».
Il documento
In un documento depositato poche ore prima della pubblicazione della sentenza, i funzionari dell’amministrazione Trump hanno sostenuto che bloccare i dazi globali dichiarandoli illegali avrebbe danneggiato la politica estera e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. «Una tale sentenza minaccerebbe i piu’ ampi interessi strategici degli Stati Uniti in patria e all’estero, portando probabilmente a ritorsioni e alla risoluzione degli accordi concordati da parte dei partner commerciali esteri», ha scritto il segretario al Commercio, Howard Lutnick. Nel frattempo, il segretario al Tesoro Scott Bessent ha avvertito che sospendere le tariffe doganali «comporterebbe un pericoloso imbarazzo diplomatico».

(da agenzie)

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IL GOVERNO E LA FALSA DOTTRINA EUROPEISTA

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

ANCORA UNA VOLTA, MELONI COMPIE UN’IMPOSTURA: RESTA AGGANCIATA AL CONVOGLIO ANGLO-FRANCO-TEDESCO MA SEMPRE PRONTA A SCARTARE DI LATO

Ancora una volta “troppo zelo”, signora Meloni. Vittima dei soliti “eccessi di compiacenza” di cui si lamentava Talleyrand nel ‘700, la presidente del Consiglio ha riposto una fiducia immotivata nelle bufale paci-finte dell’amico amerikano. “Finalmente si aprono spiragli di pace”, aveva commentato dopo la messinscena agostana di Anchorage, orchestrata dall’impresario Trump insieme al socio Putin. Gli imperi seduti a tavolino, per negoziare il cessate il fuoco in Ucraina: pareva una svolta, invece era diplomazia for dummies. I due autocrati avevano parlato solo di soldi, e mai di soldati (dalle truppe nel Donbass alla forza di interposizione Nato). Era facile immaginarlo, ma la Sorella d’Italia aveva sperato ancora una volta nelle virtù taumaturgiche del falso alleato di Washington, che in realtà condivide col suo alleato vero di Mosca un unico obiettivo: umiliare l’Europa, ridisegnando il nuovo ordine mondiale basato sulla forza.
Si è visto cosa valeva quel vertice in Alaska, per l’uomo del Cremlino. I meloniani “spiragli di pace” sono tragicamente sepolti sotto le macerie di Kiev, martoriata da 598 droni e 31 missili, in una topografia di sangue dove nulla è lasciato al caso. I micidiali Shahed-Geran lanciati sui condomini, gli ipersonici Kinzhal puntati sui treni e i capannoni della turca Bayraktar, le bombe terra-aria pilotate sulle sedi della delegazione europea e del British Council. Ogni ordigno, un avvertimento. Ma anche un insegnamento. Per chi nel Vecchio continente non ha ancora compreso quello che Angela Merkel predisse già nel marzo 2014: trattare con Putin non è difficile, è inutile “perché lui abita un altro pianeta”. Era già successo il 20 febbraio 2022, quando il nuovo Zar — che aveva già schierato le truppe al confine ucraino — promise a Macron un colloquio “ma prima che io entri in palestra”: anche tre giorni fa, mentre la Casa Bianca liquidava come “stronzate” le minacce del falco Lavrov, le bombe assassine erano già in rotta verso Kiev.
“Mad Vlad” non è matto, ma insegue un suo disegno. Con la violenza come modus operandi e la guerra come prosecuzione della politica, punta a ricucire la Russia imperiale e la Russia sovietica. Non a caso il povero Navalny lo chiamava “bunkerny ded”, il “nonno nel bunker”: estraniato dalla realtà, ossessionato dalle armi, agito da quella che Iosif Brodskij chiama “xenofobia uterina”, dominato dalla mania delle grandezze perdute. A lui importa solo ristabilire l’amata derzhava, la “potenza” della madre Russia rievocata nell’ultima stesura dell’inno nazionale. L’Ucraina è il pretesto per dispiegare quella potenza, come scrisse nel saggio del 2021, Sull’unità storica dei russi e degli ucraini: siamo “lo stesso popolo”, fosco presagio dell’attacco imminente.
La recita di Anchorage è stata l’occasione per illudere i gonzi con la stessa menzogna: la Russia torna tra i grandi e vuole scendere a patti. Altro film già visto, alle Olimpiadi di Sochi del 2014. Allora il dittatore forgiato al Kgb presentò la maschera soft della “nuova Russia”, globale e tollerante, multiculturale e
integrata, nelle stesse ore in cui disponeva l’annessione della Crimea. Adesso simula il dialogo con Trump, e intanto ordina ai siloviki del suo cerchio magico di spingere al massimo la macchina di morte contro Zelensky. Chi cade in queste trappole? Chi crede ancora nella pace promessa dal tycoon newyorchese, il “Groucho Marx della diplomazia” secondo l’Economist? Con Putin stiamo vedendo dove porta: molti carrarmati sul fronte ucraino sventolano addirittura la doppia bandiera, russa e americana. Con Netanyahu va persino peggio: Israele è a un passo dalla liquidazione totale di Gaza, stermina bambini e giornalisti e Trump mugugna “non sono contento”. Troppa grazia.
L’Europa, nonostante tutto, resta in vita. Von der Leyen, genuflessa di fronte al “paparino” nel suo golf-resort in Scozia, è stata penosa. I leader europei, interrogati come scolaretti nello Studio ovale, sono stati scandalosi. Ma il formato Marcon-Merz-Starmer non cede alla sindrome di Chamberlain e regge l’urto della diarchia degli autocrati: garantisce il sostegno a Zelensky e capisce che difendere Kiev equivale a salvare l’Europa, la sua storia e la sua cultura, i suoi valori e le sue istituzioni. In una parola: le sue democrazie. Come ha scritto qui Andrea Bonanni, la coalizione dei volenterosi non è l’Unione e questa Unione non è abbastanza. Ma se lo zar bombarda le sue sedi, vuol dire che è in gioco. Con i suoi vizi e i suoi limiti. Mario Draghi e Romano Prodi li hanno messi a nudo: siamo marginali sull’Ucraina e spettatori sulla Palestina. Prigionieri del voto all’unanimità, non sappiamo decidere né incidere. Ma qui torniamo al paradosso Meloni. Acclamata a Rimini come “cancelliera moderata” — in odor di santità secondo i ciellini del meeting e di Ppe secondo gli opinionisti del mainstream — la presidente del Consiglio si è appropriata delle critiche all’Europa di Draghi, per dire non si sa bene da quale pulpito “io lo ripeto da anni”. Come se la sguaiata eurofobia meloniana dei tempi dell’opposizione dura e pura si
possa assimilare al whatever it takes dell’ex presidente della Bce. E la proposta dell’ex premier (più integrazione e più mutualizzazione del debito) si possa conciliare con quella della premier in carica (più Stati-nazione e meno burocrazia Ue).
Ancora una volta, Meloni compie un’impostura. Resta agganciata al convoglio anglo-franco-tedesco, ma sempre pronta a scartare di lato. Glielo ricorda Mario Monti: ora fa l’europeista, ma si oppone al voto a maggioranza e preme su Bruxelles perché sia docile con Washington. Non solo: abbraccia il guerriero Zelensky, ma poi nomina ambasciatore a Mosca il filo-putiniano che trattò l’accordo di partenariato tra la Lega e Russia Unita. Non sta mai con Macron, Merz e Starmer sull’invio di truppe, ma si schiera spesso con Orban e Fico. L’abbiamo toccato con mano ieri, il vero dramma dell’Unione: la risoluzione di condanna per la strage russa su Kiev non è passata per il veto del tiranno ungherese.
Ma è esattamente questo il modello caro alla Sorella d’Italia, che non a caso parla a vanvera solo di un “Occidente” immaginario: l’Europa delle Nazioni, uno spazio economico dove ognuno ha la sua identità e ognuno va per la sua strada, semmai trattando in proprio i favori degli imperi. E questa è appunto l’Europa reale, che esiste già ed è arrivata a questo tornante della storia proprio perché erosa al suo interno dai partiti sovranisti di cui i “patrioti” tricolore sono i fieri capi-famiglia. Per questo la dottrina Meloni sull’Europa — mutuata da Draghi, ma deformandone il senso — suona del tutto fasulla. La destra che lei incarna non è la cura: è la malattia. Peccato solo che la sinistra, indaffarata tra cacicchi e capibastone, non sappia neanche spiegarlo agli elettori.

(da repubblica.it)

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COSA SIGNIFICA GLOBAL SUMUD FLOTILLA, QUANTI EQUIPAGGI E PAESI

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

A CHIEDERE DI SALIRE A BORDO SONO STATE PIU’ DI 26.000 PERSONE DA 44 PAESI DEL MONDO

Si chiama Global Sumud Flotilla, è la missione marittima civica più grande mai organizzata fino ad oggi ed è già pronta a far rotta verso Gaza. Le partenze fissate sono due: meteo permettendo, il 31 agosto la prima parte della flotta si muoverà da Genova e Barcellona, il 4 settembre invece il resto delle barche partirà da Tunisia, Grecia e Sicilia.
Il significato del nome
Sumud è espressione intraducibile dall’arabo con un unico termine. Significa resistenza, resilienza, fermezza, perseveranza: gli organizzatori l’hanno scelta perché al sogno di una Palestina libera non rinunciano, nonostante venti mesi di bombe, massacri,
carestia. E con questa speranza hanno messo insieme delegazioni e rappresentanti da tutti i continenti. Una global flotilla, appunto, che prende il testimone dalle tante barche che negli ultimi diciotto anni hanno tentato di rompere l’assedio imposto da Israele alla Striscia di Gaza.
Gli equipaggi di 44 Paesi
Al momento, ma – sottolineano gli organizzatori – le adesioni sono ancora in corso, gli equipaggi rappresenteranno 44 Paesi. Fra loro, ci sono anche l’ecoattivista svedese Greta Thunberg, i volontari Thiago Avila e Yasemin Acar, che nei mesi scorsi avevano già tentato di raggiungere la Striscia via mare e che nonostante il divieto di ingresso per i prossimi 100 anni ricevuto da Israele, torneranno a bordo. E poi parlamentari, medici, avvocati, sindacalisti e volontari. A chiedere di imbarcarsi o sono state più di 31mila persone.
Partenze nelle prossime settimane
Per motivi di sicurezza, l’identità della maggior parte dei partecipanti non è stata ancora comunicata, così come il numero preciso delle barche, tutte piccole imbarcazioni per lo più a vela, su cui saliranno, ma già si sa che saranno diverse decine le imbarcazioni che prenderanno il largo nelle prossime settimane.
Dove e quando nasce l’iniziativa
L’iniziativa è l’esito di percorsi politici incrociati e che vengono da lontano. Di certo, alle spalle c’è l’esperienza della Freedom Flotilla, il movimento che da diciotto anni tenta di rompere il blocco navale imposto da Israele su Gaza e che in passato ha pagato anche con la vita dei propri attivisti il tentativo di raggiungere via mare la Striscia. È successo nel 2010, quando la Marina israeliana ha abbordato sparando la Mavi Marmara, nave turca della flotta, uccidendo dieci volontari e ferendone altre decine. Ma non è bastato a fermare gli attivisti, che negli anni successivi hanno continuato a tentare di forzare il blocco.
Global March to Gaza
A loro si sono uniti i volontari che hanno dato vita a mobilitazioni più recenti come la Global March to Gaza, che ha fatto convergere in Egitto centinaia di attivisti determinati a raggiungere il valico di Rafah via terra, ma sono stati bloccati al Cairo, e il Maghreb Sumud Convoy, gigantesca carovana umanitaria partita da Tunisia e Algeria che si è ingrossata attraversando diversi Paesi, Libia inclusa, fino a raggiungere il confine con l’Egitto. L’obiettivo era arrivare fino al valico di Rafah per consegnare farmaci, cibo e beni di prima necessità, ma di fronte alle minacce israeliane di un intervento militare, è stata bloccata al confine.
Sumud Nusantara
Al gruppo si è aggiunto – e con partecipazione significativa – anche un blocco del Sud Est Asiatico, il Sumud Nusantara, patrocinato dal primo ministro malese Anwar Ibrahim, con attivisti e barche armate da Indonesia, Pakistan, Maldive, Sri Lanka, Bangladesh, Thailandia e Filippine.
Zerocalcare, Mannoia, Subsonica e Gassmann
A sostegno dell’iniziativa si sono schierati artisti come Michele Rech, meglio noto come Zerocalcare, musicisti come Subsonica e Fiorella Mannoia, attori come Alessandro Gassmann, Giovanni Storti (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo), Giulio Cavalli, lo storico Alessandro Barbero. A livello internazionale, si sono espressi a sostegno della Flotilla, fra gli altri anche Susan Sarandon e Liam Cunningham, il sir Davos di Games of Thrones.
La “scorta” a terra
Da programma, la Global Sumud Flotilla avrà “una scorta” anche a terra, con decine di mobilitazioni in programma in diversi Paesi. In Italia sono state già diverse iniziative e concerti di raccolta fondi, mentre a Genova è già partita una raccolta straordinaria di aiuti umanitari – l’obiettivo è di raggiungere le 45 tonnellate – che verranno poi caricati a bordo delle barche in
partenza. A coordinarla sono Music for Peace e il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp), i camalli che hanno già bloccato diversi carichi di armi diretti a Tel Aviv, che sulle barche della Flotilla manderanno propri rappresentanti.

(da agenzie)

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FLOTTA VINCENTE ANCHE SE PERDE

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

UOMINI CON LE ARMI IMPEDIRANNO A UOMINI DISARMATI DI SOCCORRERE UNA POPOLAZIONE STREMATA

Comunque vada a finire, questa storia della Global Sumud Flotilla apre il cuore. Emotivamente e politicamente: a volte i due avverbi coincidono. Per la nobiltà dell’intento (portare cibo a Gaza), per la composizione multinazionale e multireligiosa (e per fortuna: anche non religiosa) dei partecipanti, per il coinvolgimento di un sacco di gente semplice che porta beni commestibili nei porti di partenza (duecento tonnellate solo a Genova), per la natura popolare di una mobilitazione che bypassa i governi e la loro ignobile inerzia.
Una marcia per mare autoconvocata che nonostante la quasi certezza di non raggiungere l’obiettivo – perché per il governo israeliano Gaza è sotto sequestro nonostante non sia roba loro – mette in campo, male che vada, almeno la rappresentazione concreta di una volontà di soccorso che anche la più sprovveduta, la meno politicizzata delle persone è in grado di capire nel profondo. E di condividere.
Si vedranno vele, e scafi, e navigli di vario pregio fare rotta per un litorale nel quale (non lo sapevate?) l’esercito occupante ha imposto il divieto anche di fare il bagno. Spiagge senza bagnanti, come dire: piazze senza viandanti. Le barche saranno cariche di casse di pasta, riso, farina, zucchero, legumi, alimenti in scatola, medicinali. Disarmate, come gli equipaggi. Dunque: uomini con le armi impediranno a uomini disarmati di soccorrere una popolazione stremata.
Nel caso che questo civile veleggiare, questa vincibile armada in soccorso di chi soccombe, e muore, ed è perseguitato, fosse propaganda di Hamas, bisogna dire che è molto ben congegnata. Forza Flotilla, siamo con te

(da repubblica.it)

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LA DUCETTA PROMETTEVA DI RIPORTARE IN MANI ITALIANE IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO. QUASI TRE ANNI DOPO, GLI INVESTITORI STRANIERI NE POSSIEDONO IL 33,1% (AL 2023 LA QUOTA ERA IL 28%)

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

LA QUOTA DI PROPRIETÀ DELLE FAMIGLIE È RIMASTA STAZIONARIA AL 14%. E LE BANCHE? HANNO INCREMENTATO GLI ACQUISTI, MA NON VANNO OLTRE IL 20,4%

Sarà pure una questione di tasse, quella che per il terzo anno consecutivo oppone il governo alle banche. Sullo sfondo, però, c’è anche dell’altro. Il tema che contribuisce ad alimentare la tensione tra i banchieri e i partiti della maggioranza si può riassumere con una sigla: Btp. «Le banche ne comprano meno di quanto potrebbero», questa la convinzione diffusa negli ambienti di governo, costretto suo malgrado a fare marcia indietro rispetto agli annunci del recente passato.
Già, perché sin dalla campagna elettorale che ormai tre anni fa
l’ha portata a Palazzo Chigi Giorgia Meloni va promettendo di riportare in mani italiane il debito pubblico nostrano.
Un impegno solenne, dai toni sovranisti, con l’obiettivo dichiarato di creare una sorta di diga tricolore se le quotazioni del nostro paese sui mercati internazionali tornassero a crollare. In casi come questi gli investitori stranieri sono i primi a vendere, come è già successo più volte con effetti deleteri sui titoli di stato targati Italia. Da qualche tempo, però, la propaganda di governo preferisce concentrarsi sul calo dello spread […]. Silenzio, invece, sulla questione dei titoli di stato da riportare in patria.
Il cambio di rotta si spiega facilmente con le statistiche più aggiornate sulla finanza pubblica, che segnalano il forte aumento degli acquisti di Btp da parte degli investitori stranieri. È stazionaria o in lieve calo, invece, la quota in mano alle aziende e alle famiglie italiane.
Le banche, quelle con base nella Penisola, hanno comprato, certo, ma non abbastanza da ridurre il divario che le divide dagli acquirenti “non residenti”, un divario che anzi è aumentato di molto nell’arco dell’ultimo anno.
Si spiega così la delusione del governo e la richiesta agli istituti di credito perché “facciano la loro parte”, per usare un’espressione che va per la maggiore dalle parti dei partiti di governo.
Ecco qualche numero per farsi un’idea della situazione. In base ai dati pubblicati da Bankitalia, gli investitori stranieri possiedono il 33,1 per cento del nostro debito pubblico.
All’inizio del 2024 la loro quota non superava il 31 per cento e un anno prima sfiorava il 28 per cento.
Le banche invece, che pure tra il 2020 e la fine del 2023 avevano di molto ridotto la loro esposizione al rischio Italia, hanno incrementato i loro acquisti, ma a maggio di quest’anno, ultima rilevazione disponibile, non andavano oltre il 20,4 per cento contro il 20 per cento circa di gennaio 2024. Nello stesso arco di tempo la quota di proprietà delle famiglie italiane è rimasta di fatto stazionaria intorno al 14 per cento.
Lo stop agli acquisti da parte della Bce spiega la diminuzione dal 21 al 20 per cento dei titoli in portafoglio alla Banca d’Italia per conto dell’Eurosistema, mentre assicurazioni e fondi sono scesi dal 13 al 12 per cento.
Insomma, mentre Meloni predicava la necessità di aumentare i titoli di stato in mani “sovrane”, il mercato si è mosso in direzione opposta. L’apprezzamento degli investitori stranieri per i Btp si spiega con il rendimento dei titoli italiani, che non ha eguali tra le maggiori economie dell’Unione europea. Anche il buon andamento della finanza pubblica, con il debito e deficit che restano molto alti ma non appaiono più fuori controllo, ha contribuito alla diminuzione del rischio Italia.
Forte di questi risultati, il governo non smette di chiedere maggior impegno alle banche. Una richiesta che non è caduta del tutto nel vuoto.
Nei primi sei mesi dell’anno i Btp in portafoglio sono aumentati da 21 a 29,8 miliardi, Unicredit è passato da 39,8 a 47,6 miliardi e il BancoBpm da 12,6 a 16,7 miliardi.
Anche un altro grande gruppo finanziario, come le Assicurazioni Generali si è mosso nella stessa direzione: a giugno i titoli di stato in portafoglio ammontano a 40,6 miliardi contro i 37 miliardi di inizio anno.
Del resto, il numero uno della compagnia di Trieste, Philippe Donnet a marzo aveva preannunciato un possibile incremento degli acquisti di Btp.
Quell’uscita estemporanea era stata interpretata da più parti come una risposta alle critiche di esponenti del governo che lo accusavano di voler portare sotto controllo straniero il risparmio degli italiani per effetto dell’accordo di Generali con i francesi di Natixis. Un accordo che per altro sembra sempre più in bilico, a
maggior ragione ora che il gruppo assicurativo potrebbe cambiare azionista di riferimento per effetto della scalata a Mediobanca lanciata da Mps con il sostegno del governo e la partecipazione del BancoBpm, azionista forte di Siena.
Come dire che nel giro di qualche mese Meloni potrà contare su un polo finanziario di fede sovranista, più disponibile, in caso di necessità, a puntare forte sui Btp.

(da “Domani”)

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LA MARCIA SU ROMA DEL GENERALE: IL GRUPPO DI ESTREMA DESTRA “ROMA AI ROMANI”, FONDATO DAL’EX FORZA NUOVA GIULIANO CASTELLINO, È STATO RILANCIATO SUI SOCIAL CON LO SCOPO DI SOSTENERE ROBERTO VANNACCI, IN PROSPETTIVA DI UNA EVENTUALE CORSA AL CAMPIDOGLIO

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

ORA IL CIRCO E’ AL COMPLETO: “APPOGGIAMO TUTTI I MOVIMENTI SOVRANISTI E POPOLARI. NON SOLO VANNACCI, MA ANCHE RIZZO E ALEMANNO”

Dai picchetti contro l’assegnazione delle case popolari agli stranieri alla campagna elettorale per l’ex generale Roberto Vannacci: torna “Roma ai romani”.
La sigla fondata da Giuliano Castellino nel 2017, prima di confluire in Forza Nuova e dare l’assalto alla sede nazionale della Cgil il 9 ottobre 2021, è stata rilanciata nelle ultime settimane con lo scopo, neanche troppo velato, di drenare consenso a Vannacci, in prospettiva di una eventuale corsa al Campidoglio.
Castellino è tornato in carcere a luglio (tra le perplessità in punta di diritto del suo legale Nicola Trisciuoglio) per scontare la condanna a tre anni e sei mesi rimediata in virtù dei disordini creati al Trullo il 28 settembre 2017, quando insieme a un drappello di militanti di “Roma ai romani” protestò contro l’assegnazione di un appartamento a una famiglia di origini etiopi.
«Torna a schierarti per il tuo quartiere — recita uno degli slogan pubblicati sulla pagina social del movimento — siamo l’unica realtà che può cambiare questa città». Sullo sfondo dei volantini bordati con tricolore, il profilo di Vannacci.
Tra i primi sei delegati territoriali nominati dalla dirigenza del movimento c’è Ramona Castellino, la sorella di Giuliano. Sembrano lontani i tempi in cui il fratello guidava le ronde contro lo straniero dal Tiburtino alla Magliana, dal Trullo a Primavalle. «Trasformeremo ogni quartiere in una trincea — arringava Castellino — difenderemo a calci e pugni la città dall’invasione dei migranti».
Adesso, abbandonata Forza Nuova, ecco l’ennesima giravolta di «Giulianino» il trasformista. “Roma ai romani” è ritenuto uno
strumento utile per portare consensi a Vannacci.
«Appoggiamo tutti i movimenti sovranisti e popolari — dicono dal movimento — ci battiamo per il lavoro, per la pace, per il rimpatrio degli immigrati che commettono reati. Non sosteniamo solo Vannacci, ma anche Rizzo e Alemanno: l’elettorato ha voglia di sovranismo popolare».
Le parole d’ordine sono quelle di un tempo. Anche se per il momento non sono gridate in piazza con un megafono, davanti a uno schieramento di polizia, ma veicolate con i video brevi su Instagram.

(da Repubblica)

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MAI VISTA L’ARMATA BRANCAMELONI BRANCOLARE NEL BUIO COME PER LE REGIONALI IN VENETO: SENZA QUEL 40% DI VOTI DELLA LISTA ZAIA SIGNIFICHEREBBE LA PROBABILE SCONFITTA PER IL CENTRODESTRA. E DATO CHE IN VENETO SI VOTERÀ A NOVEMBRE, DUE MESI DOPO LE MARCHE, DOVE IL MELONIANO ACQUAROLI È SOTTO DI DUE PUNTI AL CANDIDATO DEL CENTROSINISTRA RICCI, PER IL GOVERNO MELONI PERDERE DUE REGIONI IN DUE MESI SAREBBE UNO SMACCO MICIDIALE CHE RADDRIZZEREBBE LE SPERANZE DELL’OPPOSIZIONE DI RIMANDARLA AL COLLE OPPIO A LEGGERE TOLKIEN

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

LA DUCETTA HA DOVUTO COSÌ INGOIARE IL PRIMO ROSPONE: IL CANDIDATO DI FDI, LUCA DE CARLO, È MISERAMENTE FINITO IN SOFFITTA… MA PER DISINNESCARE ZAIA, URGE BEN ALTRO DI UN CANDIDATO CIVICO: OCCORRE TROVARGLI UN POSTO DA MINISTRO O MAGARI LA PRESIDENZA DELL’ENI NEL 2026 – SE LA DUCETTA È RABBIOSA, SALVINI NON STA MEJO: I TRE GOVERNATORI DELLA LEGA HANNO DICHIARATO GUERRA ALLA SUA SVOLTA ULTRA-DESTRORSA, ZAVORRATA DAL POST-FASCIO VANNACCI

Mai vista l’Armata BrancaMeloni brancolare nel buio come per le regionali in Veneto. Se la legge sul Terzo Mandato non permette la rielezione di Luca Zaia, nulla vieta la scesa in campo di una lista dei fedelissimi del governatore uscente.
Forte di un bacino elettorale del 40%, decisivo per la vittoria in Veneto, il caso Zaia sta mandando fuori di testa la Fiamma e tutto il cucuzzaro di Palazzo Chigi.
Per sbrogliare la matassa e convincere il governatore a non presentare la sua lista, la Ducetta l’ha voluto incontrare a Roma. Zaia, tranquillo e serafico, è rimasto sulle sue posizioni: se Fratelli d’Italia scodella come candidato, Luca De Carlo, senatore bellunese, coordinatore regionale del partito, si troverà contro il voto della mia lista.
Ergo: senza quel 40% di voti della lista Zaia significherebbe una probabile sconfitta per il centrodestra. E dato che la data più probabile del voto in Veneto porta la data del 23 novembre è successiva al voto di fine settembre nelle Marche, regione che ad oggi i sondaggi attestano la ricandidatura dal meloniano Francesco Acquaroli sotto di due punti rispetto al candidato del centrosinistra Matteo Ricci.
Per il governo, perdere il potere in due regioni sarebbero due pugni micidiali, sferrati in rapida successione, che iventerebbero una overdose di Viagra per raddrizzare il campolargo dell’opposizione.
Fatti due calcoli, la Ducetta ha dovuto così ingoiare il primo rospone: il nome di De Carlo è stato cancellato senza nemmeno assicurarsi di avvisarlo: eccolo tonante che annuncia che il presidente del Veneto spetta a Fratelli d’Italia quando un’ora e mezza prima Meloni e Salvini l’avevano già defenestrato.
Ma quando Salvini indica il nome di uno dei suoi vicesegretari, Alberto Stefani, con Zaia capolista in tutte le province, come nel 2020, per blindare il consenso e dare forza al partito, a quel punto non ci sta a perdere definitivamente la faccia la Statista della Sgarbatella.
Forte del suo bottino di voti ottenuti alle europee del 2024 in Veneto (37,58%) contro il 9% di Salvini, abbandonato polemicamente da Zaia, La Giorgià de’ noantri smania per conquistare almeno una regione del dovizioso Nord (se la Lega comanda con Fontana in Lombardia, Zaia in Veneto e Fedriga in Friuli, Forza Italia con Cirio governa il Piemonte, a noi niente?).
Ma anche Zaia, sulla proposta di Stefani candidato, non fa felice il detestato Salvini: fa lo gnorri, dice e non dice, getta la palla in tribuna. Uscire allo scoperto per ora non gli conviene: il governatore più amato d’Italia lascia i due galletti rosolare ben bene.
Non solo. Che i tre governatori detestino il sovranismo sboccato e populista del segretario della Lega, che non ha ottenuto né l’autonomia differenziata né il terzo mandato, imbarcando la componente post-fascista del generalissimo Vannacci che alle europee ha intascato 530mila voti, non è un mistero. Uno strappo della metà del partito fondato nel 1991 da Bossi farebbe felice solo l’ambizione sfrenata di Vannacci di prendersi la Lega, buttando fuori il Capitone.
Per superare le bandierine di partito, tolti di mezzo De Carlo e Stefani, l’unico punto di caduta è la scelta di un candidato civico.
Cala subito la carta dei meloniani: l’azzimato Matteo Zoppas, ex presidente di Confindustria Veneto, riconfermato alla guida dell’ICE, agenzia per la promozione all’estero delle imprese italiane.
Naturalmente, i Fratellini d’Italia fanno presente a Zaia che, dopo il sacrifico del loro De Carlo, la lista ufficiale del candidato presidente del centrodestra può essere affiancata da una sola lista civica, quella che fa capo al nome del candidato civico; quindi, la lista Zaia da sola non si può presentare, deve confluire in quella civica del candidato governatore. Il motivo è semplice: la lista Zaia drenerebbe più voti a Fratelli d’Italia che alla Lega.
A quel punto, al grido di “Veneto svenduto”, Zoppas viene ovviamente azzoppato dai leghisti veneti che in alcune province, Treviso in testa, spingono furenti per lo strappo da Roma e Milano: una corsa in solitaria in culo a tutti.
Come disinnescare la mina Zaia? Quando nelle interviste zagaja di un “progetto politico, altrimenti mi candido”, la dichiarazione va tradotta così: non ci penso proprio a diventare sindaco di Venezia, non desidero finire impantanato in Veneto, aspiro a un posto che conti veramente a livello nazionale, chessò? il ruolo di ministro oppure, alla scadenza del mandato di Zafarana ad aprile 2026, la presidenza dell’Eni…

(da Dagoreport)

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TRUMP HA COSTRETTO GLI STATI UE A PENSARE FINALMENTE ALLA PROPRIA DIFESA, ENTRA NEL VIVO IL PIANO DI RIARMO BY URSULA VON DER LEYEN

Agosto 30th, 2025 Riccardo Fucile

LE FABBRICHE DI MUNIZIONI E POLVERE DA SPARO AUMENTANO LE LINEE PRODUTTIVE, I CONFINI A EST VENGONO BLINDATI E SI PREPARANO BUNKER PER LA POPOLAZIONE CONTRO LA MINACCIA RUSSA … TUTTI I PAESI EUROPEI, CHE DA DECENNI NONINVESTIVANO UN CAZZO IN DIFESA, HANNO PORTATO LE SPESE MILITARI AL 2% DEL PIL

Fabbriche di munizioni e di polvere da sparo che aumentano esponenzialmente le loro linee produttive. Confini blindati con campi minati e bunker per la popolazione. Governi che lanciano programmi per insegnare ai civili, bambini compresi, a pilotare un drone. Piani per allestire ospedali militari nei pressi degli aeroporti. E poi i grandi progetti nel campo dell’industria della Difesa per arrivare ad avere un unico carro armato e per sviluppare aerei da combattimento di nuova generazione, con Emmanuel Macron e Friederich Merz che ieri si sono incontrati per cercare di rivitalizzare il programma Scaf.
Dopo le promesse e gli impegni sottoscritti, in sede Ue e soprattutto al vertice Nato, il piano di riarmo europeo e quello per la preparazione alle crisi entrano nel vivo, passando dalle parole ai fatti. Ursula von der Leyen partirà oggi per un tour che toccherà sette Paesi lungo il confine orientale proprio per vedere come procede la “messa a terra” del RearmEU in questa regione e per mandare un messaggio chiaro: al di là degli sviluppi sul campo in Ucraina e a prescindere da un eventuale accordo di pace – questa la sua analisi – la Russia rappresenta la principale minaccia per la sicurezza nel Vecchio Continente. […]
Ieri la Nato ha confermato che tutti gli Alleati hanno portato le loro spese militari al 2% del Pil, raggiungendo il vecchio target fissato per il 2025. Anche l’Italia, che quest’anno dovrebbe stanziare 45 miliardi di euro. Ma dopo il vertice dell’Aia l’asticella si è alzata significativamente e i governi si sono impegnati a incrementare gli investimenti nella Difesa, portandoli al 5% del Pil entro il 2035: le spese militari “tradizionali” dovranno salire al 3, 5%, ma bisognerà spendere un ulteriore 1, 5% per gli investimenti nella Sicurezza e per le infrastrutture legate alla Difesa.
In termini numerici, la Germania è il Paese in cui sono in corso i maggiori investimenti, portati avanti soprattutto con il colosso dell’industria militare Rheinmetall. Mercoledì si è mosso il segretario generale della Nato, Mark Rutte, per inaugurare lo stabilimento di Unterluss, vale a dire quella che diventerà la principale fabbrica di munizioni in Europa (a regime, dal 2027, dovrebbe produrre 350 mila pezzi l’anno). In parallelo, la Rheinmetall ha firmato accordi per potenziare la produzione anche in alcuni Paesi che si trovano sul fianco orientale.
In Romania, grazie a un investimento da mezzo miliardo di euro, ci sarà un impianto che produrrà polvere da sparo per le munizioni. In Bulgaria, una joint venture da un miliardo consentirà di produrre in loco proiettili d’artiglieria, oltre a polvere da sparo. Già entro la fine del 2025, l’Europa sarà in grado di produrre due milioni di munizioni l’anno: un livello sei volte superiore a quello di due anni fa.
Le ex repubbliche baltiche si stanno invece specializzando nella produzione di droni, con la Lettonia che fa da capofila in una coalizione di Paesi guidata in tandem con il Regno Unito. Durante la sua visita nel Paese, von der Leyen visiterà le linee produttive finanziate con i fondi Ue. I Baltici non sono attivi soltanto sul fronte della produzione, ma stanno sviluppando una vera e propria educazione all’utilizzo dei droni: nelle scorse settimane il governo lituano ha lanciato un programma educativo che, attraverso corsi di formazione, punta a fornire nell’arco dei prossimi tre anni le competenze necessarie per controllare un drone a quindicimila civili, tra cui settemila bambini.
Saranno coinvolte anche le scuole, a partire dalla terza e dalla quarta elementare: i più piccoli – ha spiegato il governo – «saranno coinvolti nella costruzione e nel pilotaggio di semplici droni attraverso esperimenti pratici e giochi». Gli studenti più grandi lavoreranno invece alla progettazione. In Polonia il premier Donald Tusk porterà von der Leyen nell’Est del Paese
dove è in corso la realizzazione dello Scudo Orientale, un sistema di fortificazioni per blindare tutta la frontiera e prevenire eventuali attacchi.
In parallelo, l’Italia lavora con il Regno Unito e il Giappone nel quadro del programma Gcap (Global Combat Air Programme) per un progetto alternativo, sviluppato grazie a una partnership nella quale sono coinvolte Leonardo, la britannica Bae e la giapponese Jaiec, che all’inizio dell’estate ha ottenuto il via libera della Commissione.
Sul fronte dei mezzi di terra, Bruxelles ha approvato un finanziamento da 20 milioni per avviare lo studio per progettare il primo vero carrarmato europeo che coinvolge 51 aziende da tredici Paesi, inclusa l’Italia: secondo il programma Marte, il primo prototipo potrebbe arrivare nel 2030.
La missione di von der Leyen – che nei prossimi quattro giorni visiterà ben sette Paesi Ue (ma non le “ribelli” Slovacchia e Ungheria – va inquadrata anche nell’ambito del piano Safe, il fondo da 150 miliardi per finanziare attraverso prestiti a tassi agevolati gli investimenti congiunti nel campo della Difesa. Sin qui sono diciotto gli Stati membri che hanno presentato la richiesta di fondi per un totale di 127 miliardi: al primo posto c’è la Polonia, che vuole 45 miliardi, seguita da Francia (15-20 miliardi), Italia (15) e Romania (10).

(da agenzie)

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