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“LETTERMAN È SEMPRE STATO SOPRAVVALUTATO, E’ UN PERDENTE”: TRUMP ATTACCA IL CELEBRE CONDUTTORE DEL “LATE SHOW”, CHE SI È PERMESSO DI DIFENDERE JIMMY KIMMEL, IL CUI SHOW E’ STATO OSCURATO SU RICHIESTA DEL TYCOON (PERCHÉ CRITICO NEI SUOI CONFRONTI)

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

TRUMP NON SOPPORTA LE SATIRA NEI SUOI CONFRONTI E TUMULA IL PRIMO EMENDAMENTO CHE TUTELA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE

“Che cosa è successo al sempre sopravvalutato David Letterman, i cui ascolti non sono mai stati buoni: ha un aspetto orribile, ma almeno ha capito quando doveva lasciare. Un perdente”.
Così Donald Trump si è scagliato contro il famoso ex conduttore “Late Show” che nei giorni scorsi si è unito al coro in difesa di Jimmy Kimmel, il cui show è stato oscurato da Abc dopo le aperte critiche e minacce da parte dell’amministrazione Trump che accusa il conduttore per i suoi commenti alla reazione all’omicidio di Charlie Kirk.
“La cosa mi fa male perché tutti vediamo in che direzione stiamo andando, vero? Sono media controllati e questo non va bene – ha detto Letterman intervenendo al “The Atlantic Festival ‘ – è stupido, ridicolo, non si può andare in giro a licenziare la gente perché si ha paura o perché si cercano i favori di un’amministrazione autoritaria nello Studio Ovale. Non è così che questo funziona”.
(da agenzie)

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FABRIZIO CORONA VA AL CONFINE DELLA STRISCIA DI GAZA PER REALIZZARE LO SPECIALE DEL SUO SHOW (“FALSISSIMO”) IN CUI RACCONTA COSA STA SUCCEDENDO IN PALESTINA: “E’ IN ATTO UN GENOCIDIO, LA MELONI LECCA IL CULO A TRUMP E SALVINI NON CAPISCE UN CAZZO”

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

A GERUSALEMME EST NESSUNO PARLA DELLA GUERRA: “SE PARLI, MINIMO TI FAI 6 MESI DI GALERA”

“Non sono Barbero che vi racconta la storia. Sono qui per raccontarvi i fatti per come sono successi”. Parte così, Fabrizio Corona, per raccontare la sua puntata di Falsissimo dedicata a Gaza. Il giornalista è andato in Israele, spingendosi fino al confine con la Striscia, intervistando israeliani e arabi. Un gran lavoro, mostrato per intero nella parte in abbonamento del suo programma YouTube, mentre in quella free ha seguito il suo metodo ormai affermato e funzionante, visti i milioni di spettatori che lo seguono a ogni puntata.
Prima ha dimostrato di aver studiato, ripercorrendo la storia del conflitto infinito tra palestinesi e israeliani dopo la Seconda Guerra Mondiale, e approfittandone per abbattere verbalmente un po’ di nemici. “Trump in Alaska da Putin è stata la più clamorosa figura di merda mondiale. Putin lo ha preso per il culo e si è incontrato con la Cina per dimostrare che sono loro a comandare, e in tutto questo noi abbiamo Meloni che lecca il culo a Trump e Salvini che non capisce un cazzo di un cazzo, incapace e impresentabile”.
Poi Corona passa alle immagini sul campo. Prima a Gerusalemme est, dove chiede a un tassista: “Cosa ne pensi della guerra?” “Non penso niente. Se qualcuno ne parla qui lo uccidono. Chi? La polizia israeliana”. Lo stesso con i passanti in strada. “Non posso”, “Mi spiace”. Qualcuno si spinge oltre: “Se metti solo un like a qualche post su Instagram riguardo la politica, vieni arrestato”. “Qui a Gerusalemme è difficile esporsi a riguardo, minimo mi arrestano per 6 mesi”, dice un negoziante: “non c’è democrazia”
(da .mowmag.com)

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SONDAGGI POLITICI: FDI E PD I PARTITI PIU’ SOLIDI, CRESCE L’ASTENSIONE

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

IL SONDAGGIO NOTO FOTOGRAFA LA FEDELTA’ DEGLI ELETTORI: PROBLEMI PER LEGA E FORZA ITALIA

Le prossime elezioni politiche sono ancora lontane, ma i sondaggi permettono di leggere in anticipo le dinamiche che accompagneranno il Paese fino al 2027; nessun voto è mai un punto di partenza assoluto: ogni tornata elettorale si costruisce
infatti sulla scia di fedeltà consolidate, delusioni accumulate e nuovi orientamenti che si affacciano e l’indagine curata da Noto Sondaggi per Il Giornale mette in evidenza proprio questo: chi resiste, chi crolla e chi approfitta dei movimenti altrui.
Il dato più netto riguarda Fratelli d’Italia, che si conferma il partito più solido: il 77% degli elettori che nel 2022 avevano scelto Giorgia Meloni ripeterebbe infatti oggi la stessa scelta. Si tratta di una cifra molto alta per il panorama politico italiano, tradizionalmente caratterizzato da forti oscillazioni.
Il messaggio appare chiaro: il rapporto costruito dalla premier con la propria base non solo regge, ma sembra essersi rafforzato. Certo, ci sono defezioni, alcuni elettori si rifugiano nell’indecisione o guardano all’astensione, ma restano numericamente limitate e non mettono in discussione la compattezza del blocco.
Lega e Forza Italia in difficoltà
Se per Meloni il quadro appare rassicurante, più complesso è lo scenario che riguarda invece i partner di coalizione: la Lega, infatti, riesce a trattenere poco più di sette elettori su dieci, ma perde terreno sia verso FdI sia verso l’astensione.
Il dato più critico arriva però da Forza Italia: soltanto il 62% dei votanti 2022 conferma infatti oggi la propria scelta. Molti ex elettori azzurri migrano infatti verso Fratelli d’Italia, mentre altri si rifugiano nel non voto. Il risultato complessivo non è una rottura della coalizione, ma una sorta di riequilibrio interno che vede crescere l’egemonia di Meloni a scapito degli alleati.
Il Pd che resiste
Sul fronte opposto il Partito Democratico mostra una certa capacità di resistenza: circa il 71% di chi aveva votato Pd nel 2022 si conferma fedele. Ma i numeri nascondono una falla importante: gli spostamenti verso il Movimento 5 Stelle. Conte, infatti, riesce a conquistare circa il 10% degli ex elettori democratici, mentre il flusso inverso è molto più ridotto, intorno al 4%. Questo squilibrio crea un saldo negativo che pesa sulla segretaria Elly Schlein, chiamata a contrastare una perdita silenziosa ma costante.
I destini incerti del Terzo Polo
Se c’è un’area che fatica a trovare stabilità è quella centrista. L’esperimento del Terzo Polo, che aveva raccolto una parte significativa di voti nel 2022, oggi appare frammentato. Una parte degli ex sostenitori guarda al Partito Democratico, altri preferiscono +Europa, molti si rifugiano nell’astensione; l’assenza di una proposta chiara e unitaria impedisce di costruire una base elettorale fedele e duratura.
Movimento 5 Stelle: forte dentro, fragile fuori
Il Movimento 5 Stelle mantiene una coesione interna rilevante, con il 73% degli elettori 2022 ancora fedeli; ma la minaccia arriva da un’altra direzione: circa il 17% degli ex grillini si colloca infatti oggi tra gli indecisi o tra i non votanti. Non è quindi il passaggio diretto ad altri partiti a erodere la forza del M5S, ma piuttosto il rischio che una parte della sua base si disimpegni; è un fenomeno già noto, spesso emerso nelle
elezioni locali, che conferma la natura intermittente del voto pentastellato.
L’astensione è il vero avversario comune
Al di là delle singole sigle, la rilevazione mette in luce una tendenza trasversale: cresce l’astensione. Sempre più elettori scelgono di non scegliere, rifiutando l’offerta politica nel suo complesso; questo non rappresenta solo un problema per i singoli partiti, ma un segnale più profondo di distanza tra cittadini e istituzioni. In prospettiva, la vera sfida non sarà soltanto quella di rubarsi voti a vicenda, ma di convincere chi si è allontanato che la politica resta uno strumento utile e necessario.
(da Fanpage)

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COSA RISCHIA ILARIA SALIS SE PERDESSE L’IMMUNITA’ PARLAMENTARE E QUANDO SI DECIDE, LE PROSSIME TAPPE

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

UN PROCESSO FARSA SENZA PROVE E SENZA QUERELE DI PARTE LESA, CON UNA SENTENZA GIA’ SCRITTA IN UN PAESE DOVE I NEONAZISTI POSSONO SFILARE E ATTACCARE SEDI… UN GOVERNO SOVRANISTA E PUTINIANO CHE ANDREBBE CACCIATO DALLA UE A CALCI IN CULO

Il caso di Ilaria Salis era emerso nelle cronache italiane con un’immagine, all’inizio del 2024: quella della 39enne portata in tribunale con catene al collo e manette, in Ungheria, dopo essere stata in carcere per quasi un anno senza traccia di processo.
Ora, per Salis il rischio di tornare in carcere non è più così remoto: dopo la sua elezione al Parlamento europeo, l’Ungheria è riuscita a chiedere che le sia revocata l’immunità parlamentare. Tutto passerà da due decisioni: il parere della commissione Affari giuridici, atteso il 23 settembre; e poi il voto del Parlamento, che dovrebbe avvenire il 7 ottobre.
Cosa rischia Ilaria Salis se perde l’immunità parlamentare
Quando il caso Salis era scoppiato la politica si era mobilitata, nonostante il governo Meloni tentasse di sminuire la situazione. Alla fine era stata inserita nelle liste delle elezioni europee di
Alleanza Verdi-Sinistra, guadagnandosi l’elezione a Strasburgo e ottenendo così l’immunità. Nel frattempo era già tornata in Italia, ai domiciliari, dopo quindici mesi di prigione senza nessuna condanna.
L’accusa dell’Ungheria nei confronti di Salis è di aver aggredito tre militanti neonazisti a Budapest, nel febbraio 2023. Prove mai fornite.
E sul fatto che ci sia l’intenzione di perseguirla penalmente, se l’immunità dovesse cadere, non ci sono dubbi: il portavoce del governo Orbán pochi giorni fa le ha inviato sui social le coordinate di un carcere ungherese di massima sicurezza. Poco prima che il primo ministro dicesse di voler imitare Donald Trump e considerare i militanti antifascisti come terroristi.
Dunque, anche se non è certo, il rischio di tornare in una cella per l’eurodeputata c’è.
Il primo voto decisivo: la commissione Affari giuridici
Martedì 23 settembre si riunirà la commissione Affari giuridici del Parlamento europeo per decidere sulla revoca dell’immunità. O meglio, per dare un parere su cui poi sarà l’Aula ad esprimersi. In commissione lo spagnolo Adrián Vázquez Lázara, dei Popolari presenterà una relazione sul caso Salis. Ci si aspetta che questa chieda di revocare l’immunità, basandosi sul fatto che per prassi l’immunità si considera applicabile solo ai presunti reati commessi dopo che si è stati eletti.
A quel punto, la commissione voterà. E questa sarà una prima indicazione molto importante. Ci sono 25 membri. Sette fanno
parte di gruppi di estrema destra (Conservatori, Patrioti e Europa sovrana delle nazioni), otto sono schierati a sinistra (Socialisti, Sinistra e Verdi) e gli ultimi dieci si dividono così: tre con i liberali di Renew, sette con il centrodestra del Partito popolare (o Ppe).
Come si può vedere, sarà determinante il voto del Ppe, che finora non ha preso una posizione chiara sulla vicenda. A complicare ancora il quadro c’è il fatto che quasi sicuramente il voto sarà segreto, quindi si potrà anche decidere di non seguire la linea di partito.
L’appuntamento al Parlamento europeo per la decisione finale
Dopo la commissione si andrà poi all’Aula del Parlamento europeo. La data prevista, anche se non ancora ufficializzata, è il 7 ottobre. Questo sarà il voto decisivo sulla questione. E anche qui si ripropone lo stesso problema, per Salis: a essere determinante sarà il Partito popolare.
A sinistra (considerando The left, il gruppo di Salis, oltre a Socialisti e Verdi) ci sono 235 deputati che dovrebbero votare contro la revoca dell’immunità. Ed è probabile che si schierino su questa posizione anche i liberali di Renew, portando altri 77 voti. Il totale è di circa 312 parlamentari a sostegno, anche se può sempre esserci qualche defezione.
Dall’altra parte, la destra e l’estrema destra possono contare su 187 voti. Quale sia la loro linea è chiaro: ieri il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli ha detto che Salis dovrebbe rinunciare spontaneamente all’immunità.
Ecco perché i 188 voti del Partito popolare saranno decisivi. Se si schierassero tutti contro Salis, mantenere l’immunità sarebbe impossibile. Serve che almeno uno su tre – magari approfittando del voto segreto – voti per tutelare l’eurodeputata, per garantire un successo di Salis.
I Popolari, dopo le ultime elezioni europee, si sono schierati con Socialisti, Renew e Verdi per formare una maggioranza. Ma di fatto spesso i loro voti si sono allineati a quelli della destra e dell’estrema destra. Sul caso Salis non è emersa una linea ufficiale finora. “Non penso che Salis sia una terrorista. Non mi risulta”, si è limitato a commentare ieri Antonio Tajani, segretario di Forza Italia, che fa parte dei Popolari. L’esito del voto resta incerto.
(da agenzie)

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INTERVISTA A MATTEO RICCI: “NELLE MARCHE I SOVRANISTI SANNO SOLO NASCONDERSI DIETRO MELONI, PER QUESTO VINCEREMO”

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

“UNA PRESA IN GIRO DEGLI ELETTORI”

Matteo Ricci è il candidato presidente delle Marche per la coalizione di centrosinistra alle elezioni regionali 2025. I sondaggi dicono che è in svantaggio di pochi punti contro il presidente uscente, Francesco Acquaroli di Fratelli d’Italia: la partita è aperta. Rispondendo alle domande di Fanpage.it, Ricci ha chiarito ha attaccato il suo rivale che in campagna elettorale
ha scelto di “nascondersi dietro l’immagine di Giorgia Meloni” invece di “metterci la faccia”. Ha ribadito la volontà di riconoscere lo Stato di Palestina e tagliare i rapporti commerciali delle Marche con Israele. E ha chiarito che la vicenda giudiziaria in cui è coinvolto non l’ha danneggiato, nonostante gli attacchi “con violenza e metodi quasi ‘squadristici'” della destra.
Le elezioni nelle Marche sono quelle dall’esito più incerto, stando ai sondaggi pubblicati finora, e si terranno per prime, il 28 e 29 settembre. Pensa che il risultato avrà un impatto ‘a catena’ anche sulle altre regionali?
Il destino delle Marche è nelle mani dei marchigiani. Lo abbiamo detto fin dall’inizio e non smetteremo di ripeterlo. La data non ci spaventa, anzi, abbiamo sempre detto che eravamo pronti a votare anche a Ferragosto. Si è parlato molto di noi come dell’Ohio d’Italia, ma la verità è che per il governo di Giorgia Meloni questa Regione è un fortino di Fratelli d’Italia: una sconfitta verrebbe considerata una ferita non da poco per il partito della premier.
Noi puntiamo sul cambiamento, che proponiamo agli elettori con punti programmatici concreti. La destra punta alla conservazione del potere, in special modo nelle Marche. Ma i marchigiani sanno di non essere solo una casella da riempire e sceglieranno in autonomia.
Vincere qui aiuterebbe il centrosinistra nelle Regioni dove parte più in svantaggio?
Ogni Regione ha una storia a sé, sono fiducioso che gli elettori
sappiano individuare la persona che ritengono più idonea a guidare il territorio. E il centrosinistra ha saputo mettere in campo personalità forti, competitive, radicate sui territori, per vincere le sfide d’autunno.
Ha detto che le Marche per FdI sono un “fortino”, e Acquaroli in effetti è l’unico presidente di Regione meloniano insieme a Marsilio in Abruzzo. Quindi, l’attenzione della premier è particolarmente alta. Sarà un vantaggio per lui?
Acquaroli spera che nascondendosi dietro l’immagine di Giorgia Meloni possa trarre maggiori consensi. Ma una campagna giocata senza metterci la faccia, senza ascoltare le istanze delle persone, affidandosi solo ai grandi appoggi di Roma, è una presa in giro ai marchigiani.
Credo che alla prova del voto i cittadini dimostreranno di volere a capo della Regione una persona autorevole e che ha a cuore il proprio territorio, non un mero esecutore di ordini calati dall’alto. Le Marche meritano un cambio di marcia, dopo anni di vuoto politico, di “Signor sì, signora” rivolti a Palazzo Chigi, di mediocrità e declino economico.
Il campo largo si presenta insieme in tutte le Regioni, cosa che non si vedeva da diversi anni. È un modello per le prossime elezioni politiche?
La vera notizia di queste elezioni è proprio che per la prima volta le opposizioni si presentano unite e compatte. La destra lo sa bene e, infatti, è ancora balbettante sui candidati da presentare nelle altre Regioni. Nelle Marche abbiamo costruito un’Alleanz
del cambiamento ampia e rispettosa delle molteplici istanze e visioni contenute in essa. Ci riteniamo popolari, plurali, con lo sguardo rivolto agli ultimi e ai fragili, riformisti e progressisti: se saremo di ispirazione per il futuro, non potrà farci che piacere.
I partiti sono insieme, ma i leader – Schlein, Conte, Renzi, Bonelli, Fratoianni… – non sono mai saliti tutti su uno stesso palco in campagna elettorale. Invece Salvini, Tajani e Meloni sì. Sarebbe servito?
Noi – a differenza della destra locale – non prendiamo ordini da Roma, la nostra è una campagna condotta tra la gente e per la gente. Ecco perché non ci danneggerà il fatto che non ci sia un evento con tutti i leader, anzi. Mentre la destra ha fatto un evento con i leader nazionali, noi, nella stessa giornata, siamo stati con Elly Schlein e Stefano Bonaccini, accolti da una piazza gremita.
Chiuderemo, invece, il 25 settembre, con Alessandra Todde e Stefania Proietti, governatrici di regioni in cui si è già dimostrato di poter vincere con un centrosinistra forte e unito, come è il nostro, nelle Marche. La nostra è una scelta popolare e di unità, dal primo istante, fino alla vittoria.
Nelle altre Regioni in molti casi – Puglia, Campania, Veneto – il centrodestra deve ancora trovare un candidato. Sarà una debolezza quando si arriverà alle urne? E il risultato nelle Marche inciderà anche su queste decisioni?
È chiaro che il centrodestra stia aspettando l’esito delle Marche per decidere come coprire le caselle ancora libere nelle altre Regioni. Questo è un chiaro segno che a loro interessa solo
spartirsi le poltrone, non individuare figure forti e competenti, formate sui territori, per competere nella tornata elettorale d’autunno. Questo dimostra la loro debolezza e il loro approccio verticistico, che maltratta le Regioni e i loro cittadini.
Ha fatto discutere la presenza di gruppi organizzati di soldati israeliani in vacanza (durante periodi di permesso) nelle Marche. La Regione dovrebbe intervenire?
Si tratta di una vicenda poco chiara, della quale Acquaroli dice di non sapere nulla. Con me presidente della Regione Marche non sarà più possibile una situazione del genere.
Sempre per quanto riguarda le vicende internazionali, crede che la missione della Global Sumud Flotilla, che ha concentrato ancora di più l’attenzione nazionale e mondiale su Gaza, possa avere degli effetti sul voto in Regione?
Il tema non è se questa vicenda influenzerà o meno il voto, è certamente un fatto che colpisce l’opinione pubblica. L’unica cosa certa è che con me ci sarà il riconoscimento dello Stato di Palestina, che chiederò durante la prima seduta del Consiglio regionale, così come proporrò di interrompere i rapporti con le aziende israeliane che stanno aiutando le operazioni militari a Gaza. Sono fermamente convinto che solo tramite il riconoscimento della Palestina e attraverso la soluzione dei “due popoli, due Stati” si possa giungere alla pace in quel martoriato territorio.
A luglio c’è stato il rischio che l’appoggio del M5s saltasse, quando è emersa l’inchiesta sugli appalti che la riguarda. La vicenda giudiziaria vi farà perdere consensi?
No, l’onda di affetto e sostegno che sto ricevendo mi dice che da questa vicenda, rispetto alla quale sono totalmente estraneo, usciremo più forti di prima. La verità è che, attaccandomi con violenza e metodi quasi “squadristici” attraverso le seconde e terze linee della destra, mi stanno rendendo più forte. Io sono sereno e fiducioso nel lavoro della magistratura, e proseguo la mia campagna con l’impegno consueto, concentrandomi sui veri problemi dei marchigiani e offrendo loro soluzioni concrete.
Quali sono le priorità per le Marche, le primissime misure concrete su cui vuole lavorare se eletto?
La nostra priorità assoluta è la sanità pubblica, che negli ultimi cinque anni è peggiorata in modo evidente. Vogliamo investire almeno il 7% del Pil in sanità, se necessario andando a battere i pugni sul tavolo a Roma, affinché il diritto alla salute dei cittadini sia garantito.
Non possiamo accettare le liste d’attesa infinite, i pronto soccorso intasati, i 160 milioni spesi dalla Regione Marche per coprire la mobilità passiva dei pazienti verso l’Emilia Romagna e la Lombardia. E poi c’è il dato più drammatico di tutti: un marchigiano su dieci rinuncia a curarsi perché non trovando risposte nel pubblico non può rivolgersi al privato, perché non ne ha la possibilità economica.
Vogliamo poi affrontare il “caro-scuola” con una misura concreta, per venire incontro ai bisogni reali delle famiglie.
Quale
Bus e treni gratuiti per tutti gli studenti marchigiani, fino ai 18 anni. Sul fronte economico, serve un patto per il lavoro per sostenere imprese e lavoratori. Stanzieremo subito 10 milioni di euro per l’internazionalizzazione e l’innovazione, affinché la manifattura marchigiana contrasti gli effetti dei dazi, trovando nuovi mercati.
Alcune Regioni stanno sperimentando con un salario minimo regionale. Intendete farlo anche voi?
Sì, basta stipendi da fame pagati con soldi pubblici: nelle Marche introdurremo il salario minimo di 9 euro all’ora negli appalti regionali, con rispetto dei Ccn, controlli veri ed esclusione di chi non rispetta le regole. È la direzione giusta: sotto i 9 euro non è lavoro, è sfruttamento.
Infine, vogliamo valorizzare il turismo culturale, un volano di sviluppo per la nostra regione. La classe media emergente, specie nei Paesi asiatici, ha “fame” di bellezza e cultura italiana. Mentre le grandi città sono in overbooking, le Marche possono proporsi come meta di turismo culturale, un tipo di offerta che si affianca ai tradizionali percorsi legati alle specificità del territorio e che non è legata alle stagioni.
(da Fanpage)

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LA GRANDE CAMPAGNA ACQUISTI DI TAJANI: IL GRUPPO DI FORZA ITALIA È AUMENTATO DEL 20% DA INIZIO LEGISLATURA, COME NESSUN ALTRO PARTITO. I DEPUTATI AZZURRI SONO PASSATI 44 ONOREVOLI A 52

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

GLI ULTIMI PASSAGGI SONO QUELLI DI MINARDO DALLA LEGA E DI BICCHIELLI DA NOI MODERATI. UN ATTIVISMO CHE HA CREATO MALUMORE NELLA MAGGIORANZA… MA TAJANI E IL CAPOGRUPPO BARELLI NON INTENDONO FERMARSI. ANCHE PERCHE’ OGNI NUOVO INGRESSO PORTA IN DOTE 70 MILA EURO DI SPESE PER INIZIATIVE POLITICHE

Una campagna acquisti continua, ogni tre mesi un passaggio di deputato per rinfoltire il gruppo parlamentare. Anche al costo d far arrabbiare qualche alleato, Lega e Noi moderati soprattutto, e qualche deputato della prima ora che adesso sa che alle prossime Politiche potrebbe avere meno spazio nelle liste
Di certo c’è che il duo Antonio Tajani-Paolo Barelli, rispettivamente segretario e capo gruppo alla Camera, hanno aumentato la truppa parlamentare a Montecitorio di 8 deputati: il gruppo dopo le elezioni era composto da 44 onorevoli, oggi da 52. Un incremento del 20 per cento, nessun altro gruppo alla Camera è cresciuto così tanto
E anche a livello economico la crescita è importante, quasi 500 mila euro all’anno: ogni deputato porta in dote 70 mila euro all’anno per le spese del gruppo, e in tempi di vacche magre, con i fasti dal passato finiti dopo che la famiglia ha quasi chiuso i rubinetti accollandosi i 90 milioni di euro di vecchi debiti, questi soldi pesano, eccome.
Gli ultimi passaggi sono stati quelli del deputato Pino Bicchielli, di Noi moderati, e Nino Minardo, dalla Lega: quest’ultimo un colpo di non poco contro, considerando che Minardo porta in dote la presidenza della commissione Difesa, oggi organismo chiave dal quale passano le autorizzazioni per gli acquisti militari e a breve l’Italia avrà 15 miliardi da prestiti Ue per la materia.
Nei mesi scorsi poi sempre dalla Lega è arrivato in FI il deputato Davide Bellomo, da Azione Enrico Costa, Giuseppe Castiglione e Isabella De Monte e dai 5 stelle Andrea Gentile e Giorgio Lovecchio. In totale su 39 cambi di casacca alla Camera, un quarto hanno riguardato approdi a FI
E altri sono in fase di passaggio: da tempo si parla dell’arrivo del deputato ex meloniano Emanuele Pozzolo, messo alla porta da FdI dopo la vicenda dello sparo del Capodanno 2024 alla presenza del sottosegretario Andrea Delmastro.
Un attivismo che qualche malumore, soprattutto negli alleati di centrodestra, ha creato. Ma Tajani e company non sembrano intenzionati a fermarsi: alla Farnesina si dice che è molto intenso il dialogo tra il ministro e il sottosegretario Giorgio Silli, indicato in quota Noi moderati. Maurizio Lupi e Saverio Romano però questa volta non resterebbero silenti. Tajani lo sa, e quindi resta un dialogo senza approdo ufficiale in casa azzurra. Per ora.
(da repubblica.it)

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“L’AMMINISTRAZIONE TRUMP SI STA PREPARANDO A BOLLARE I TRANS COME ‘ESTREMISTI VIOLENTI’”

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

SECONDO KEN KLIPPENSTEIN, GIORNALISTA AMERICANO CHE HA LAVORATO PER IL SITO “THE INTERCEPT”, “THE DONALD” VUOLE PRENDERE DI MIRA I TRANSESSUALI PERCHÉ IL FIDANZATO DI TYLER ROBINSON, IL 22ENNE CHE HA UCCISO CHARLIE KIRK, ERA TRANSGENDER

L’amministrazione Trump si sta preparando a definire le persone transgender come “estremisti violenti” in seguito all’omicidio di Charlie Kirk, mi hanno detto due funzionari della sicurezza nazionale.
“Stiamo esaminando l’intera ragnatela per individuare uno qualsiasi di questi attacchi”, ha dichiarato mercoledì il direttore dell’FBI Kash Patel alla Commissione Giustizia della Camera, quando gli è stato chiesto delle sparatorie commesse da persone transgender
“Loro”, ha affermato il procuratore generale Pam Bondi dopo l’omicidio di Kirk, “stanno mettendo questa folle ideologia nelle nostre scuole”, riecheggiando la crescente opinione di molti nella cerchia ristretta di Trump secondo cui dietro l’esplosione di violenza da parte di una “sinistra radicale” ancora non identificata c’è un “culto dell’ideologia di genere”.
Due giorni prima dell’omicidio di Kirk, Donald Trump aveva condannato la “follia transgender”. Poi, in un’intervista sulla sparatoria, aveva dato la colpa “ai radicali di sinistra”, affermando: “Vogliono questa teoria per tutti”.
“Stanno prendendo di mira cinicamente le persone trans perché l’amante dell’attentatore era trans”, mi dice un alto funzionario dell’intelligence. “L’amministrazione si è convinta che l’omicidio di Charlie Kirk smascheri una qualche oscura cospirazione”.
L’alto funzionario spiega che non esiste un processo in sé per affrontare le persone transgender come un “gruppo minaccioso”, ma ritiene che le persone transgender saranno sempre più prese di mira sotto la bandiera dell'”estremismo violento”.
Secondo il piano in discussione, l’FBI tratterebbe i sospettati transgender come un sottoinsieme della nuova categoria di minaccia dell’Ufficio, gli ” Estremisti Violenti Nichilisti ” (NVE).
L’amministrazione Trump ha creato la designazione NVE all’inizio di quest’anno per sostituire l’etichetta dell’era Biden “Anti-Authority and Anti-Government Violent Extremists” (AGAAVE), creata per classificare i rivoltosi del 6 gennaio e
altri gruppi di destra.
La nuova classificazione, secondo alcune fonti, offre ai funzionari di Trump una copertura politica (e mediatica). Invece di definire direttamente le persone transgender come nemici, la Casa Bianca ha preferito eufemismi come “estremismo dell’ideologia di genere”.
Nel suo primo giorno in carica, Trump ha firmato un ordine esecutivo che stabilisce la politica federale definendo il sesso come una “realtà biologica immutabile” di maschile e femminile. Ha anche firmato un ordine per impedire alle persone transgender di partecipare agli sport femminili. Questo ordine impone alle agenzie federali di far rispettare le leggi basate sulla definizione e di interrompere i finanziamenti a qualsiasi cosa “promuova l’ideologia di genere”.
Sono stati firmati ulteriori ordini esecutivi volti a limitare l’accesso all’assistenza sanitaria di genere per i minori, etichettandola come “mutilazione chimica e chirurgica” da parte dell’amministrazione. Da allora, il Dipartimento di Stato ha smesso di rilasciare nuovi passaporti con la “X” come marcatore di genere. Il Dipartimento per la Sicurezza Interna ha dichiarato che vieterà alle donne transgender di recarsi negli Stati Uniti per competere in sport professionistici
È stato ripristinato il divieto per le persone transgender di prestare servizio militare apertamente. E all’inizio di questo mese, la CNN ha riferito che il Dipartimento di Giustizia stava discutendo la possibilità di negare alle persone trans il diritto di possedere armi da fuoco, sulla base della motivazione che il transgenderismo è una “malattia mentale”.
Ma l’omicidio di Kirk ha infranto ogni esitazione a dichiarare direttamente una guerra totale alle persone trans, persino tra la cerchia ristretta anti-trans di Trump. Prendiamo, ad esempio, il capo dell’antiterrorismo della Casa Bianca, Sebastian Gorka, che prima dell’omicidio di Kirk, nonostante la sua prodigiosa produzione su X, non aveva mai twittato la parola “trans” durante il secondo mandato di Trump. Il giorno dopo l’assassinio di Kirk, però, Gorka ha pubblicato tre Tweet separati su X su chi usa le armi trans.
Donald Trump Jr. ha riassunto lo stato d’animo della cerchia di suo padre, dicendo su X: “Qual è la più grande minaccia terroristica interna che l’America si trova ad affrontare: ANTIFA o TRANTIFA?””TRANTIFA” è un’etichetta che suggerisce che gli attivisti transgender rappresentino una rete violenta simile ad Antifa. Il termine “Trantifa”, ora in ascesa, è circolato negli ultimi anni. Appare in un “bollettino di sensibilizzazione per gli ufficiali” interno diffuso dall’organizzazione privata Symbol Intelligence Group, che collabora con l’FBI e le forze dell’ordine locali, ottenuto tramite una richiesta di documenti da parte dell’organizzazione no-profit per la trasparenza Property of the People .
(da .kenklippenstein.com)

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SALVATE IL SOLDATO BARTOLOZZI! SALE LA TENSIONE SUL CASO DELLA ZARINA DI VIA ARENULA GIUSY BARTOLOZZI TRA NORDIO E MANTOVANO

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

IL GUARDASIGILLI DIFENDE IL SUO CAPO DI GABINETTO INDAGATA PER FALSE DICHIARAZIONI SUL CASO ALMASRI – LA MAGGIORANZA VUOLE SCUDARE LA “ZARINA DI VIA ARENULA”, SOLLEVANDO UN CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE NEI CONFRONTI DELLA PROCURA DI ROMA PRESSO LA CORTE COSTITUZIONALE … MA NORDIO VUOLE RALLENTARE PER METTERSI ALLE SPALLE ALMENO IL REFERENDUM SULLA RIFORMA PER LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE

Con qualche affanno, il governo sta cercando di salvare Giusy Bartolozzi, la capo di gabinetto del ministro Carlo Nordio, invischiata nel caso Almasri e accusata di aver dato false comunicazioni ai pm. Quale sia la strada migliore per farle evitare il processo, però, è una domanda che sta alimentando divisioni e malumori tra il ministero della Giustizia e Palazzo Chigi.
L’obiettivo dl centrodestra è riuscire a estendere lo “scudo” ministeriale a Bartolozzi. Fin qui sono tutti d’accordo. Dal punto di vista di un pezzo della maggioranza, se la capo di gabinetto ha detto il falso ai pm, lo ha fatto per “coprire” Nordio. Il suo sarebbe quindi un reato connesso a quello del Guardasigilli e, di conseguenza, per mandarla a processo i magistrati dovrebbero chiedere alla Camera l’autorizzazione a procedere (sapendo già che la Camera la negherebbe). Come arrivare a questa conclusione, con il salvataggio del soldato Bartolozzi, non è però semplice.
Nordio vorrebbe «rallentare» – racconta chi gli è vicino – per mettersi alle spalle almeno il referendum sulla riforma per la separazione delle carriere. Andare allo scontro con la procura di Roma, per salvare la sua capo di gabinetto da un processo che lambisce il caso Almasri, non è – avrebbe ragionato il ministro in questi giorni – il miglior messaggio da portare nella campagna referendaria sulla riforma della giustizia.
Sarebbe preferibile, dal suo punto di vista, aprire un’interlocuzione con la Giunta per l’immunità, chiedere approfondimenti al Tribunale dei ministri. Insomma, tirarla per le lunghe ed evitare strappi.
l sottosegretario di Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, invece, sembra preferisca accelerare, nel tentativo di chiudere una vicenda che si trascina da troppi mesi e che non smette di imbarazzare l’esecutivo. La strada individuata da Mantovano prevede di rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale e sollevare un “conflitto di attribuzioni”. Tempistiche certe per arrivare a un verdetto non ce ne sono, ma si parla di mesi. E
nessuno può escludere che il giorno del referendum sulla separazione delle carriere e quello del pronunciamento della Consulta possano finire per essere pericolosamente vicini.
A via Arenula, poi, non sono tutti sicuri che il reato contestato a Bartolozzi possa essere considerato connesso all’operato del ministro e, quindi, essere “scudato”. Si cita in questi giorni il precedente del 2010 che riguarda l’ex ministro Lunardi e il cardinal Sepe, ma in quel caso – spiegano fonti del centrodestra – l’accusa era di corruzione: un tipo di reato che evidentemente doveva essere “connesso”, anche per una questione di coincidenza temporale in cui viene commesso dalle parti.
Nel caso Bartolozzi, invece, le false comunicazioni ai pm della capo di gabinetto sarebbero state offerte in un secondo momento rispetto al reato contestato al ministro Nordio.
Insomma, nella stessa maggioranza c’è chi crede sia difficile per la Corte vedere un nesso abbastanza forte tra i due reati contestati. «Rivolgersi subito ala Consulta potrebbe rivelarsi un boomerang, perché perdiamo il controllo sui tempi e rischiamo di riaprire questa storia in momenti delicati», spiega un membro dell’esecutivo. E questi sono dubbi che non possono non agitare anche Bartolozzi.
(da Domani)

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A OTTOBRE SARA’ APPROVATA LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA SULLA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE, POI ARRIVERA’ IL REFERENDUM. L’ITALIA È SPACCATA. SECONDO I SONDAGGI, SÌ E NO SONO VICINI

Settembre 20th, 2025 Riccardo Fucile

IL CASO ALMASRI HA PESATO SULLA CREDIBILITÀ DEL MINISTRO NORDIO E AUMENTANO LE VOCI CRITICHE, DAGLI AVVOCATI PENALISTI A GRATTERI CHE “ARRIVA AL GRANDE PUBBLICO”… LA DATA DEL VOTO PUÒ ESSERE PORTATA AD APRILE: LA MELONI DECIDERÀ SE LE CONVIENE O MENO

Manca ancora il passaggio al Senato ma è solo un pro forma che si compirà in ottobre, poi la riforma costituzionale della giustizia sarà approvata definitivamente e arriverà il momento del referendum. La parola rimbalza di bocca in bocca, tanto a sinistra quanto a destra, con il peso dell’incognita.
Fonti di Forza Italia – pur dopo l’ebrezza del sì alla Camera nel nome di Silvio Berlusconi – ragionano sul fatto che «non bisogna mai dare per scontati gli elettori». Tradotto: il consenso intorno alla riforma si sta erodendo, con sondaggi che parlano di una forbice molto ridotta tra sì e no.
Fratelli d’Italia sta aspettando nuovi sondaggi per la settimana prossima, tuttavia la sensazione è che il caso Almasri abbia pesato sulla credibilità del ministro Carlo Nordio non tanto per l’elettorato generale, ma per quello che sulla giustizia ha un occhio più attento. E, come viene ricordato, a questo referendum non c’è il quorum e quindi ogni voto pesa doppio.
Infine, come ha fatto notare il vicepremier Antonio Tajani, «il voto non è sul governo» perché con il centrodestra ha votato anche Azione, mentre Italia viva ha criticato il metodo di approvazione ma non il merito della separazione, dunque non si spenderà apertamente in una campagna referendaria. In altre parole: la quota centrista del parlamento non si allineerà al fronte del no.
La sinistra del “No” Altrettanto si sta ragionando nel centrosinistra. Il Pd si è schierato apertamente sul fronte del no, ma fonti dem mettono in luce come gli avversari continueranno a utilizzare il fatto che la mozione dell’ex segretario Maurizio
Martina e i riformisti del Pd, fossero a favore della separazione. Poco importa che tutti si siano ricollocati sul no e ne abbiano spiegato le ragioni: l’argomento rimane una spina nel fianco alla comunicazione.
Non solo, dubbi interni ci sono anche sulla quota degli amministratori locali che in passato si erano schierati a favore dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio e che difficilmente oggi si frapporrebbero tra le toghe e il governo. In questo esiste uno scollamento silenzioso tra la dirigenza nazionale – che ha ben chiari i rischi di una riforma che, per una singolare eterogenesi dei fini, rafforzerà le procure pur rendendole più soggette a rischi di controllo della politica – e i territori in cui il tema della giustizia è ostico e tocca corde delicate.
Anche sul fronte della politica giudiziaria, gli animi sono fibrillanti. L’avvocatura, soprattutto i penalisti, è prevalentemente schierata per il sì alla riforma. Tuttavia si sono levate nel tempo voci critiche. «Possono i penalisti fare un favore a questo governo, che con una mano gli dà il contentino della separazione delle carriere e con l’altra non tocca l’emergenza carceri e introduce nuovi reati?», ragiona il presidente di una importante associazione forense.
Se questo si agita tra gli avvocati, tra le toghe la paura principale è quella di non riuscire a far arrivare il loro messaggio. Molte sono le voci critiche sulla qualità della comunicazione e una delle frasi che si sente ripetere più spesso è che «l’unico che arriva al grande pubblico è Nicola Gratteri», spiega una toga
progressista che pure non ama il carismatico procuratore capo di Napoli, che è contrario alla separazione ma favorevole al sorteggio dei membri del Csm.
In questo orizzonte pieno di incognite – «la verità è che nessuno sa cosa convenga fare», confida una fonte parlamentare di centrodestra – c’è anche quello della data del referendum. Il ministro Nordio ha ipotizzato di tenerlo non a giugno ma a marzo-aprile. Tecnicamente sarebbe possibile: la legge 352 del 1970 che disciplina la procedura prevede che passino 3 mesi dalla approvazione, nei quali un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali possono proporre richiesta di referendum.
Dopo che è stata verificata l’ammissibilità della richiesta, il referendum è indetto con decreto del Quirinale, su deliberazione del Cdm, entro sessanta giorni e la data è fissata in una domenica compresa tra il cinquantesimo e il settantesimo giorno successivo al decreto di indizione. Conti alla mano, è possibile votare già a inizio aprile.
La domanda è: a chi conviene? Così la campagna referendaria sarebbe brevissima, perché fino a dicembre tutto si concentrerà sulla legge di Bilancio. La scelta di allungare o meno i tempi, però, è in mano al governo che dovrà deliberare l’indizione e sarà la premier in persona a valutare i pro e i contro.
(da agenzie)

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