Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
DOV’ERA IL GOVERNATORE DELLA REGIONE RENATO SCHIFANI? A UN FESTIVAL ENOGASTRONOMICO, EPPURE LA DENUNCIA DELLA DONNA AVEVA FATTO EMERGERE ALTRI 3.300 CASI DI REFERTI INVIATI DALL’ASP DI TRAPANI CON RITARDI FINO A 8 MESI
Ieri Mazara del Vallo ha detto addio a Maria Cristina Gallo, la professoressa di italiano morta
di cancro a 56 anni, dopo avere atteso per otto mesi l’esito del suo esame istologico da parte dell’Asp di Trapani.
Adesso è lotta contro il tempo per acquisire le testimonianze degli altri malati oncologici che, dopo di lei, hanno denunciato i ritardi (in tutto nove, tre dei quali deceduti) e che rischiano di non vedere iniziare il processo. Per questo l’8 settembre è iniziato l’incidente probatorio chiesto dalla procura di Trapani per cristallizzare la situazione. Saranno i consulenti nominati dal gip Massimo Corleo a sentire i malati e ad acquisire le storie cliniche di tutte le parti offese. Sono oltre 3.300 gli esami refertati con ritardo fino a otto mesi: 300 di questi hanno confermato la presenza di un tumore.
Al momento ci sono 19 indagati fra medici, infermieri e tecnici di laboratorio. Per loro le contestazioni, sono omissione di atti d’ufficio in concorso, morte a causa di colpa medica e lesioni. È stata proprio la denuncia di Maria Cristina Gallo a far emergere lo scandalo dell’Asp di Trapani ad agosto dell’anno scorso.
Lo hanno ricordato in tanti, ieri mattina, nella cattedrale di Mazara del Vallo, piena di centinaia di persone accorse nel dolore per salutarla un’ultima volta. Grande assente il presidente della Regione siciliana, Renato Schifani, occupato a partecipare nelle stesse ore, a Galati Mamertino, al Festival del giornalismo enogastronomico. Assenti anche i vertici dell’assessorato regionale alla Salute.
«Un’assenza che racconta più di mille discorsi — dice Davide Faraone, vicepresidente di Italia Viva — Perché il presidente della Regione, il primo responsabile di quanto è accaduto, finora è riuscito a non dire nemmeno una parola in ricordo della coraggiosa professoressa. Il silenzio del governo suona per Maria Cristina Gallo come un secondo abbandono».
Il figlio maggiore, Vincenzo Tranchida, che lei per un soffio ha visto diventare poliziotto lo scorso giugno, subito dopo avere accompagnato la madre al cimitero ha lanciato un messaggio su Instagram: «Chissà come dormiranno stanotte quelli che avrebbero dovuto salvarla».
(da agenzie)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
L’OMICIDIO È AVVENUTO FUORI DAL LOCALE VICINO AL TEATRO MASSIMO, NELLA ZONA DELLA MOVIDA PALERMITANA, DOVE LE RISSE SONO L’ABITUDINE… ARRESTATO ALLO ZEN L’ASSASSINO, CONTESTATO IL SINDACO
Un giovane di 21 anni è stato ucciso la notte scorsa con un colpo di pistola alla testa a Palermo, fra i tavolini del locale O’scruscio in piazza dell’Olivella, a pochi metri dal Teatro Massimo, nel cuore della movida. La vittima è Paolo Taormina. Il delitto è avvenuto alle 3:30 di notte e i carabinieri hanno già fermato il presunto autore dell’omicidio. Si tratta del 28enne Gaetano Maranzano, originario dello Zen, trovato a casa della compagna nel rione Uditore, in via Nino Geraci. I carabinieri nella perquisizione gli hanno trovato una pistola.
L’uomo è stato portato in caserma per essere interrogato e qui ha ammesso il delitto. Ai carabinieri ha riferito di aver incontrato casualmente la vittima la scorsa notte mentre interveniva per sedare una rissa. Utili alle indagini, svolte dal nucleo Operativo della compagnia di Piazza Verdi e del nucleo Investigativo di Palermo, le immagini delle telecamere pubbliche e private della zona e le testimonianze di alcuni giovani che hanno assistito al delitto.
«Non potevo applaudire mentre i carabinieri lo portavano via. C’erano i parenti e gli amici che gli mandavano baci. Una scena da film raccapricciante. Io sussurravo ai carabinieri bravi, bravi», ha commentato uno dei residenti dello Zen che ha assistito al fermo di Maranzano. «Tanta gente era tutta lì dentro – aggiunge
il residente – Ho avuto i brividi mentre i carabinieri hanno acceso tutte le sirene».
Maranzano ha raccontato che Taormina tempo prima aveva importunato la sua compagna e che vedendoselo davanti la ha perso il controllo e l’ha colpito. Una ricostruzione, quella di Maranzano, su cui i carabinieri e i pm della Procura che ha disposto il fermo stanno cercando riscontri, anche relativamente all’arma del delitto.
Gaetano Maranzano, su Tik Tok nella sua ultima foto postata (oltre 31 mila visualizzazioni dopo che si è sparsa la notizia che sarebbe lui l’omicida del giovane) mette un sottofondo musicale e parlato in cui si sente: Tu mi arresti e per che cosa? Per l’omicidio di Michele Navarra…”. Il giovane appare con una barba lunga e diverse collane dorate tra cui una con un pendente a forma di revolver. Il giovane posta poi foto con la figlia piccola, che dovrebbe compiere un anno in questi giorni, e in una di queste la bimba, con le collane del padre al collo, tiene in mano il pendente con la pistola in miniatura.
La dinamica della tragedia
Da quanto emerso la vittima sarebbe intervenuta per sedare una rissa scoppiata davanti al locale dei suoi genitori, a cui non ha partecipato, per bloccare un gruppo di giovani che stava picchiando un ragazzo.
Chi è la vittim
Il giovane che ha perso la vita è Paolo Taormina, 21 anni, ed è il
figlio dei titolari del locale. La vittima pare volesse fermare la furia del branco contro un ragazzo a terra. Pareva esserci riuscito. Ma all’improvviso uno del branco ha estratto la pistola e gli ha sparato a bruciapelo.
Il gruppo si è poi dileguato a bordo di scooter. Sul posto sono intervenuti i carabinieri e tre ambulanze ma per la vittima non c’è stato nulla da fare.
Le testimonianze
Sono decine le persone che vengono sentite in queste ore dai Carabinieri del reparto operativo di Palermo. I testimoni raccontano della rissa, del pestaggio di un ragazzo da parte del branco, dell’intervento della vittima e poi dopo i colpi di pistola.
«Ma come si fa? Qual è la motivazione. Mi hanno distrutto la vita. Come si fa a sparare in testa a un ragazzo? Come faccio a vivere ora? Mi avete tolto la speranza». Urla disperata la madre di Paolo Taormina. Attorno alla donna parenti e amici che cercano di consolarla. Tanti i giovani ancora vicini al pub dove si è consumato il delitto.
«C’era una rissa. In dieci picchiavano un ragazzino. Paolo è uscito e ha detto loro di smettere e di spostarsi perché loro dovevano lavorare. Sembrava finita, quando uno lo ha colpito a distanza ravvicinata». Così uno dei giovani che ieri era davanti a O Scruscio racconta l’omicidio di Paolo Taormina. «Stava lavorando, stava lavorando. Si stava guadagnando il pane. Come si fa ad ucciderlo per una banale rissa?», si chiede il giovane che
era amico della vittima.
Il Teatro Massimo sospende iniziative in segno di lutto
Il direttore del Teatro Biondo, Valerio Santoro, e il sovrintendente, Marco Betta, d’intesa con il sindaco e presidente della Fondazione Teatro Massimo, Roberto Lagalla, hanno deciso di sospendere le iniziative previste nel foyer per l’inaugurazione del triennio di collaborazione tra le due istituzioni, che prevedeva oggi un’esibizione della compagnia nazionale di Danza storica, che si è associata all’iniziativa. L’annullamento è stato disposto «in segno di lutto e profondo cordoglio per la tragica e vile uccisione di Paolo Taormina, avvenuta a Palermo nelle prime ore di oggi».
«Le istituzioni – si legge in una nota – sono vicine allo straziante dolore della famiglia del giovane e dell’intera Comunità cittadina duramente colpita da questo drammatico episodio. Il Teatro Biondo e il Teatro Massimo, insieme al sindaco di Palermo, rinnovano il loro impegno a promuovere, attraverso la cultura e l’arte, i valori fondamentali del rispetto, della convivenza civile e della non violenza».
Contestazioni contro il sindaco: scarso controllo
Il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, che si è recato nel luogo in cui ieri notte è stato ucciso un ragazzo di 21 anni, è stato contestato da alcuni cittadini per «lo scarso controllo del territorio».
Il primo cittadino ha sottolineato che «quanto è accaduto è sintomo di una società che vive un disagio forte». «Da tempo a Palermo – ha aggiunto Lagalla – non venivano segnalati episodi simili. Come si esce con una pistola per una serata di intrattenimento?».
Il sindaco ha spiegato che “non si può militarizzare la città e bisogna allora agire in una logica di medio e lungo periodo”
(da agenzie)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
LA STORICA MANIFESTAZIONE E’ NATA NEL 1961, PRESENTI I LEADER DEL CENTROSINISTRA
Circa 70mila persone, secondo la Protezione civile, provenienti da tutta Italia e dall’estero
stanno percorrendo i 24 chilometri che separano Perugia da Assisi per partecipare alla nuova edizione della Marcia per la Pace e la Fraternità, storica manifestazione nata nel 1961 su iniziativa di Aldo Capitini.
Il Partito Democratico aderisce alla Marcia, insieme a sigle e associazioni, Comuni, Province, Regioni e scuole.Alla marcia partecipa anche la segretaria Elly Schlein, insieme ad altri e altre esponenti del partito. Presente anche il presidente del M5S, Giuseppe Conte.
C’è anche Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui territori palestinesi occupati. «Nel piano di pace proposto da Trump e Netanyahu ci sono troppi assenti, a partire dai palestinesi, cooptati da tecnocrati. Dove sono? Dove è la Cisgiordania e dove è la giustizia? Quello che è stato fatto a Gaza non è l’esito di un terremoto, ma il risultato di un piano intenzionale per distruggerla – ha detto Francesca Albanese –. Si parla di ricostruzione sulle macerie e sulle fosse comuni, ma non di ricucire lo strappo fatto all’anima di quel popolo. Sono molto preoccupata». Sull’accordo a Gaza: «Questo accordo è merito di Trump. Ma chi conosce la Palestina sa che la pace senza diritti non funziona. Dopo due anni di genocidio, ciò che abbiamo oggi non porterà alla pace se per pace si intende la fine della violenza. Non succederà». «Questa marcia è bella, con tanta gente e consapevole. Non credo di aver mai sentito così forte la necessità di esserci, con il corpo e con l’anima. La pace non è assenza di guerra ma godimento di diritti, libertà e giustizia. Quando si commettono crimini, si paga: è questa la pace che chiede la Marcia» ha poi aggiunto.
Tra le file del corteo anche Nicola Fratoianni, che commenta: «Le mobilitazioni per la Palestina e per la pace parlano la stessa lingua. La lingua della vita contro quella della morte, delle armi. La cultura della vita è quella che anima e attraversa queste piazze. Con questa enorme partecipazione faremo i conti alla
fine, ma saranno conti significativi».
Angelo Bonelli , deputato AVS e co-portavoce di Europa Verde, avvicinato dai giornalisti alla Marcia della Pace Perugia-Assisi afferma: «La marcia per la pace è stata e sarà un appuntamento importantissimo per l’Italia e per il pianeta. Bisogna scendere in piazza per la pace perché nel mondo ci sono 56 conflitti e guerre. Le spese per gli armamenti sono aumentate, ci dicono che servono le armi per avere la pace, ma servono solo per aumentare le guerre. Manifestare è importante, noi crediamo che le proteste per Gaza siano state fondamentali per arrivare ad una tregua. Una tregua ma non una pace perché una pace si raggiungerà solo coinvolgendo il popolo palestinese e portando davanti alla giustizia internazionale le responsabilità dei crimini contro l’umanità portati avanti da Netanyahu».
(da agenzie)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
NEGLI ULTIMI CINQUE ANNI, IL CREMLINO HA MOLTIPLICATO PER SEI GLI INVESTIMENTI PUBBLICI NELLA RICERCA SCIENTIFICA DEDICATA ALLA LONGEVITÀ
Nella Russia di Vladimir Putin l’immortalità è un tema, ma soprattutto è un affare di famiglia. Che il capo del Cremlino sia ossessionato dalla vita eterna, lo abbiamo capito in diretta mondiale lo scorso 3 settembre a Pechino, quando un microfono lasciato aperto inavvertitamente catturò la conversazione tra
Putin e il leader cinese Xi Jinping, entrambi settuagenari, mentre avanzavano verso la tribuna: «Una volta — diceva quest’ultimo — la gente raramente viveva oltre i 70 anni, adesso a questa età, lei è un bambino».
Putin, annuendo con un sorriso sornione, ribatteva tradotto dall’interprete: «Gli organi umani possono essere trapiantati in permanenza al punto che le persone possono ringiovanire e perfino diventare immortali». «Fino a 150 anni»
Ma nella conferenza stampa al termine del vertice lo zar era tornato sull’argomento, dicendo di credere alla possibilità che un giorno, forse già entro la fine del secolo, la vita umana possa arrivare fino a 150 anni: «La medicina moderna, soprattutto il trapianto di organi, consente di sperare in un aumento significativo dell’aspettativa di vita».
Putin fa sul serio e negli ultimi cinque anni ha moltiplicato per sei gli investimenti pubblici nella ricerca scientifica dedicata al prolungamento della vita. Secondo una inchiesta della Novaia Gazeta Europa , dai sette progetti approvati tra il 2016 e il 2022, per un totale di 20 milioni di rubli (circa 200 mila euro), si è passati ai 43 finanziati negli ultimi tre anni, con stanziamenti pari a 172 milioni di rubli (poco più di 2 milioni di euro). Non solo, altri e più importanti programmi di ricerca sull’invecchiamento hanno ricevuto fondi statali, che si sono sommati a generose donazioni degli oligarchi amici del presidente.
Ed è in quest’ultimo dettaglio che si nasconde il trucco: il più importante e meglio finanziato di questi progetti infatti ha per titolo «Regolazione dei processi di rinnovamento delle cellule del corpo, base fondamentale per il mantenimento a lungo termine dell’attività funzionale degli organi e dei tessuti, della salute e della longevità attiva».
A dirigerlo è l’endocrinologa Maria Vorontsova, 40 anni, maggior azionista e capa del gruppo farmaceutico Nomeko, che di recente ha acquisito tutte le cliniche e i centri di ricerca del fondo pensioni di Gazprom. Vorontsova è anche membro del consiglio d’amministrazione del vasto programma pubblico da 127 miliardi di rubli (1 miliardo di euro) destinato allo sviluppo della genetica russa, il cui presidente è un amico e vecchio sodale dello zar, Michail Kovalchuk.
Dulcis in fundo , Maria Vorontsova è la figlia di Vladimir Putin e dell’ex moglie Ludmilla. Lei e la sorella Katerina Tikhonova hanno cambiato cognome per ragioni di sicurezza, ma la loro vera identità è conosciuta a tutti. Entrambe in forte ascesa, la loro presenza al Forum di San Pietroburgo nel 2024 è stato il segnale che sono pronte ad acquisire un ruolo pubblico crescente
Parafrasando Erich Fromm, Vladimir Putin vuole allo stesso tempo essere e avere. Ma a pensarci bene, per rimanere alla prima parte della dicotomia, il suo anelito a una longevità senza fine ha una precisa radice filosofica, quella del cosmismo russo, movimento sorto nell’Unione Sovietica dagli scritti di Georgy Fiodorov e abbracciato dal regime bolscevico.
La sua utopia immaginava viaggi interspaziali, alla ricerca di mondi dove la nuova scienza sovietica avrebbe permesso la resurrezione degli antenati, il sogno dell’immortalità, la colonizzazione del cosmo, in ultima analisi la creazione di un universo socialista egualitario. Le prime parole dallo spazio di Yuri Gagarin, il primo astronauta, furono: «Non vedo nessun Dio, ringrazio Fiodorov e il cosmismo se sono qui». Potrebbe essere un’idea: per farlo diventare immortale, si potrebbe mandare Putin nello spazio. E farvelo rimanere
(da Corriere della Sera)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
ADDIO A GABRIELE DELLA COMUNITA’ DI SANT’EGIDIO, TRA I FONDATORI DELLA MENSA DI VIA DANDOLO IN TRASTEVERE
La Comunità di Sant’Egidio è in lutto per la morte di Guglielmo Tuccimei. Il settantatreenne,
storico membro della comunità fin dagli anni Settanta, è morto investito da un’auto mentre andava
ad aiutare i poveri. L’incidente stradale è avvenuto nel pomeriggio di venerdì scorso 10 ottobre a pochi passi dalla mensa di via Dandolo nel quartiere Trastevere a Roma.
Chi era Guglielmo Tuccimei, l’amico dei poveri
Guglielmo Tuccimei era uno storico membro della Comunità di Sant’Egidio, amico dei poveri, dei senzatetto e dei bisognosi. Membro della comunità dagli anni Settanta, era conosciuto e amato da centinaia di senzatetto romani, i quali sapevano di poter sempre contare su di lui. Ha cominciato a occuparsi di loro dal 1983, quando girava per le stazioni di Roma, portandogli da mangiare. È stato tra i fondatori della mensa di via Dandolo, alla quale è stato legato dal 1988 fino all’ultimo giorno della sua vita. Oltre ai poveri, Guglielmo Tuccimei era molto vicino ai detenuti del carcere di Regina Coeli, che visitava regolarmente.
“Ci stringiamo attorno alla famiglia di Gugliemo Tuccimei, 73 anni, investito a pochi passi dalla mensa per i poveri di via Dandolo, dove si recava abitualmente da tanti anni per accogliere chi aveva bisogno non solo di mangiare, ma anche del volto di un amico che lo sapesse accogliere e ascoltare – scrive la Comunità di Sant’Egidio – Lo ricorda con affetto tutta la Comunità insieme ai tanti suoi amici per la strada”.
I messaggi di cordoglio per Guglielmo Tuccimei
Appresa la notizia della sua scomparsa sono tantissimi i messaggi di cordoglio: “Un uomo che ha dedicato la sua vita agli altri, un padre, un amico, un fratello” scrive Valentina. E Tino:
“Profondamente addolorato per la scomparsa del mio amico Guglielmo Tuccimei, strappato alla vita mentre andava a servire i poveri. Arrivederci Guglielmo, l’amore per i poveri ci rifarà incontrare”. Maria Teresa scrive: “Ciao Guglielmo, un’ispirazione per la nostra vita. E la tua vita donata a chiunque te ne chiedesse un pezzetto. Alla stazione Tiburtina quante volte abbiamo sentito i nostri amici dire: sono amico di Guglielmo, per poter ottenere un aiuto in più da noi. La tua presenza sarà ovunque. Non ti dimenticheremo”.
L’incidente in cui è morto Guglielmo Tuccimei
Secondo quanto ricostruito finora al momento dell’incidente stradale in cui è morto Guglielmo Tuccimei erano circa le ore 16.30. Stava camminando in strada per recasi alla mensa dei poveri a Trastevere. Un’auto, una Citroen C3, lo ha travolto all’altezza del civico 31 per cause non note e ancora in corso d’accertamento. Alla guida della macchina c’era un sessantunenne. Alcuni passanti hanno dato l’allarme, chiamando il Numero Unico delle Emergenze 112 e chiedendo l’intervento urgente di un’ambulanza.
Il personale sanitario giunto sul posto ha preso in carico Guglielmo e lo ha trasportato con codice rosso all’ospedale San Camillo. Le sue condiizoni di salute sono parse fin da subito disperate ed è purtroppo deceduto poco dopo. Il conducente è stato sottoposto ai test per la verifica di alcol e droga nel sangue. Rischia di essere indagato per omicidio stradale. Presenti su luogo dell’incidente gli agenti della polizia locale di Roma Capitale del I Gruppo Centro, che hanno svolto i rilievi scintifici e indagano per ricostruire la dinamica esatta dell’accaduto.
(da Fanpage)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
LA VERA BATTAGLIA E’ TRA SIONISTI LAICI E QUELLI ULTRARELIGIOSI
La vera battaglia per la vita o la morte di Israele non è tra lo Stato ebraico e Hamas, ma tra sionisti laici, pragmatici, e
supersionisti ultrareligiosi, messianici. Anticipata dal leader laburista Shimon Peres nel 1996, quando sconfitto alle urne da Netanyahu commenta con gli intimi: “Gli israeliani hanno perso, gli ebrei hanno vinto”. Tesi confermata sul fronte opposto da Arthur J. Finkelstein, consulente americano di Bibi: “In Israele destra contro sinistra significa ebrei contro israeliani”. E il pacifista Uri Avnery: “Noi abbiamo non solo due blocchi politici, ma due culture, in realtà due nazioni separate”. Erano passati sette anni dalla pittoresca fondazione dello “Stato di Giudea” per iniziativa del rabbino Mehir Kahane, riferimento non solo spirituale della destra estremista, in una sala dello Sheraton Plaza di Gerusalemme. Evento allora trascurato dai media. Invece premonitore.
Lo storico antisionista Ilan Pappé ha appena pubblicato La fine di Israele, diagnosi del collasso del sionismo in tutte le sue varianti e prefigurazione di una Palestina senza Israele, nascita annunciata per il 2040. Pappé profetizza che la parabola dello Stato ebraico si chiuderà per scissione tra Israele e Giudea, tra sionismo delle origini (Theodor Herzl) più o meno seguito dai padri fondatori (David Ben-Gurion) e suo stravolgimento in chiave teocratica. Oggi incarnato da ministri quali Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. E cavalcato da Netanyahu, per fede o calcolo poco importa.
La faglia interna forse fatale per Israele è la scissione fra le maggiori tribù, due delle quali refrattarie al sionismo – arabi e
ultraortodossi (haredim), infatti esentati dal servizio militare – mentre sul fronte opposto sionisti della Bibbia, spesso violenti, e laici moderati quasi non si parlano più. Ne soffre lo Stato, nei cui apparati la storica prevalenza dei non- o meno religiosi è sfidata dalle nuove leve kahaniste. Per le quali il grande sogno è la costruzione del Terzo Tempio sulle rovine della moschea di al-Aqsa.
Israele contro Giudea è la crepa decisiva che infragilisce il muro portante della creatura di Ben-Gurion. Tecnica edilizia insegna che le crepe si formano nel corpo murario quando le pressioni esterne originano una rottura che si propaga nella struttura. Metafora qui aggravata dall’origine prevalentemente domestica delle pressioni, tipica di un popolo uso vivere col fucile al piede per timore dei molti nemici. Spesso sopravvalutati per tenere il pubblico in allarme, comunque percepiti in modi differenti dalle fazioni in questione. Nessuno può vivere sempre in stato di guerra latente o effettiva. Anche per questo dal 7 ottobre decine di migliaia di israeliani sono emigrati, talvolta tornando dove i loro ascendenti si erano imbarcati per la terra promessa.
Cuore geografico e motore politico-militare dello Stato di Giudea è la Cisgiordania, biblicamente intesa Giudea e Samaria. I coloni, autorevolmente rappresentati nel governo da Smotrich, vi stanno conquistando con la violenza nuovi avamposti anche grazie all’appoggio delle forze di sicurezza che in teoria dovrebbero controllarli. Obiettivo l’annessione di tutti i territori
formalmente affidati alla gestione palestinese. E a tappe forzate. Recente segnale lo sviluppo dell’area di Ma’ale Amunim via E1 per spezzare l’esile spina dorsale della Cisgiordania palestinese. Questa colonizzazione in stile Giudea differisce per l’esclusivismo religioso da quella di Israele, motivata dai laburisti in termini di sicurezza. La prassi di Smotrich riprende in veste religiosa la paradossale teoria dei primi coloni sionisti, parecchi dei quali non volevano nemmeno un proprio Stato: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Gli estremisti l’applicano con l’intransigenza di chi è in missione per Dio e sente approssimarsi lo scopo di una vita.
Ma il problema del Grande Israele non è tanto la terra quanto la popolazione. Nella traduzione dalla propaganda alla pratica, i territori abitati da arabi vanno svuotati per poterli annettere. Via gli autoctoni, dentro i colonizzatori. Con la violenza, anche quando non fosse necessario. Fuorviante l’analogia con l’apartheid alla sudafricana, pertinente quella con i cowboy a caccia di sempre nuove frontiere. Quasi sempre non spopolate, ma spopolabili per la legge del più forte.
Alle fessurazioni interne si sommano le esterne. La reputazione dello Stato ebraico crolla dappertutto. Il dato più allarmante viene dall’America. Per la prima volta nella storia, una maggioranza di elettori statunitensi simpatizza con i palestinesi: 35% contro il 34% di filoisraeliani. Crepe si osservano persino tra gli evangelicali, strenui sostenitori di Israele. Cristiani
sionisti, in grande maggioranza bianchi antisemiti flottanti nella galassia trumpista, che si rifanno alle profezie bibliche per cui gli ebrei devono tornare in Israele, dove nell’ora estrema si convertiranno o saranno massacrati: “Il filosemita è un antisemita che ama Gesù”, nell’acida battuta di uno storico tedesco.
La somma delle lacerazioni domestiche e delle pressioni internazionali avvicina l’ipotesi del collasso di Israele. Della sua lacerazione in staterelli tribali, visibile nelle vite parallele che scolari e studenti universitari conducono in ossequio al principio di omogeneità culturale e/o religiosa con la propria tribù
(da repubblica.it)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
TUTTI I REGIMI HANNO BISOGNO DI ARMI DI DISTRAZIONE DI MASSA… IL GOVERNO VUOLE INTRODURRE NORME LIBERTICIDE PER REPRIMERE IL DISSENSO
Manifestare, ma non troppo. Le leggi liberticide del governo. Blindare le piazze, dare stop
preventivi in caso di «grave rischio potenziale» di episodi antisemiti, precettare più facilmente gli scioperi e chiedere una cauzione agli organizzatori dei cortei in
caso di danni. Sono le nuove idee dell’esecutivo
Leggi speciali per le manifestazioni, parole vietate nelle università, pene più dure per chi critica anche il governo israeliano e «una cauzione pre manifestazione». Le piazze sorvegliate come lo stadio: chi sgarra entra nella blacklist degli indesiderati. Dopo l’ondata di persone che ha sommerso l’Italia per Gaza, per la Global Sumud Flotilla, per la Freedom Flottilla ora il governo Meloni prepara la stretta.
La libertà di manifestare in solidarietà col popolo palestinese, secondo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, «è stata, in più di una occasione, strumentalizzata da gruppi che hanno posto in essere atti di puro e indiscriminato vandalismo e assalti violenti contro le forze dell’ordine».
Il ministro sgrana i numeri delle manifestazioni di rilievo tenute dall’inizio dell’anno al 7 ottobre: ben 8.674. Poi le declina: in 242 casi sono state registrate criticità per l’ordine pubblico, con 330 feriti tra le forze dell’ordine «146 soltanto negli ultimi dieci giorni», ha fatto notare il titolare del Viminale. E allora che fare? Blindarle.
Ministri all’opera
Il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, starebbe pensando a una norma che impedisca che la Cgil scioperi, come in occasione di Gaza, senza rispettare il termine dei 10 giorni. E sempre dal Carroccio arriverà («nei prossimi giorni», assicurano da via Bellerio) una proposta di legge che prevede la richiesta di una
garanzia finanziaria per gli organizzatori delle manifestazioni considerate a rischio: «Stiamo lavorando come Lega – spiega il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni – ad una proposta di legge, che presenteremo agli alleati di governo, che garantisce il diritto a manifestare, ma prevede la richiesta di garanzie finanziarie agli organizzatori e i promotori di alcune manifestazioni, valutate a rischio da questori e prefetti».
Ma ci tiene a specificare: «Non limita il diritto a manifestare ma, in determinati casi, a valutare di introdurre una garanzia finanziaria che possa essere applicata ai promotori per coprire eventuale danni». «I criminali e i cretini non c’entrano con chi ha organizzato», replica il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ma sono parole che scivolano via.
«Se qualcuno immagina che possiamo perdere la pazienza o l’equilibrio su questa continua sollecitazione di piazza, si sbaglia di grosso», insiste Piantedosi. Così invece di abbassare i toni, c’è un gran fare nel centrodestra per agitare il rischio di un ritorno agli anni Settanta, a quel clima e anche, in conseguenza, alla necessità di leggi speciali. Il governo Meloni cerca un nemico, e lo costruisce tra la folla. Certo, ci sarà da trovare una convergenza soprattutto con Forza Italia, non tutti tra gli azzurri si dicono convinti. Ma nelle commissioni parlamentari, lontano dagli occhi del pubblico, c’è un lavorio che procede spedito.
I ddl contro l’antisemitismo
In Commissione Affari Costituzionali al Senato si discute di tre
ddl a tema «contrasto agli atti di antisemitismo». Uno è a firma del capogruppo della Lega Massimiliano Romeo, l’altro di Ivan Scalfarotto (Iv), il terzo, già anticipato da Domani, porta la firma di Maurizio Gasparri (Forza Italia).
Il primo è particolarmente insidioso, per capirlo basta leggere l’articolo tre: stabilisce che una manifestazione può essere vietata «in caso di grave rischio potenziale per l’utilizzo di simboli, slogan, messaggi e qualunque altro atto antisemita». Non serve che un reato sia stato commesso: basta il sospetto, la previsione, l’idea che qualcuno potrebbe dire qualcosa di ritenuto “antisemita”.
Il problema è nella definizione adottata: quella dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto, che include anche critiche dure verso lo stato di Israele. Così, un corteo pro-palestinese, uno striscione che accusa Israele di apartheid, perfino un dibattito pubblico potrebbero essere interpretati come “atti antisemiti”. A decidere sarà la questura, non un giudice. Si sposta il confine tra prevenzione e censura. E trasforma la libertà di manifestare – diritto costituzionale – in una concessione condizionata.
Identico il ddl Scalfarotto, recepisce la definizioni Ihra e all’articolo 3, riprende il tema dei divieti preventivi là dove si scrive a «grave rischio potenziale» decidendo in anticipo quali parole e proteste possono esistere in piazza. Il terzo è il ddl Gasparri; punta tutto su scuole, università e forze dell’ordine:
formazione obbligatoria, segnalazioni di atti antisemiti e “anti sionisti”, sanzioni per docenti e ricercatori che non rispettano le regole.
Prevede anche aggravanti penali per chi nega la Shoah o critica il governo di Israele. Nel mirino finiscono le aule: ogni dibattito rischia di diventare un terreno minato, trasformando educazione e ricerca in strumenti di censura preventiva. Vista la forte sovrapposizione con i ddl Romeo e Scalfarotto, i tre testi potrebbero essere accorpati, nelle prossime settimane, sotto il breve titolo “Contrasto all’antisemitismo”, creando un unico pacchetto normativo che estende il bavaglio anche agli ambienti scolastici e universitari.
(da Editorialedomani)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
NON SI RIESCE A PARLARE D’ALTRO
A parte l’impatto mortale sulle persone e sulle cose, uno dei difetti peggiori della guerra è che si mangia tutto il resto. Non si riesce a parlare d’altro, perfino in Paesi come il nostro che delle guerre in corso è spettatore passivo — benché molto rissoso nei commenti politici. Magari anche in funzione della propensione nazionale all’emotività (niente attiva l’emotività come una guerra), l’agenda politica italiana, pagina dopo pagina, sembra sepolta anch’essa sotto le macerie di Gaza.
L’economia, per esempio, che siamo abituati a considerare la materia prima del conflitto politico e dell’azione dei governi. È vero che i nostri salari sono i più miseri d’Europa? Che la produzione industriale stenta a reggere un ritmo accettabile? Che i costi energetici sono costantemente altissimi, molto più alti che altrove? Che la sanità pubblica è in costante deperimento, e mancano medici e infermieri? Che il precariato degli insegnanti (tema del quale sento parlare da quando facevo il liceo, dunque da tempo immemorabile) resta una piaga strutturale della scuola
italiana non solo per gli insegnanti medesimi, anche per l’efficienza del sistema scolastico?
La piazza mediatica, che è parte organica della piazza politica, sembra ipnotizzata da droni e bombardieri. Solo i dazi di Trump riescono, ogni tanto, a irrompere sulla scena e a conquistare le prime pagine.
Per il resto, grosso modo, qualcuno sa che c’è una proposta per introdurre il salario minimo, pochissimi hanno sentito dire che nella vicina Francia è in piedi, e molto dibattuta, un’ipotesi di tassa patrimoniale per dare una mano al Welfare. Proprio come ai tempi d’oro delle guerre imperialiste, la lotta di classe è la prima a essere sovrastata dal fragore delle armi.
(da Repubblica)
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Ottobre 12th, 2025 Riccardo Fucile
OPINIONI POLARIZZATE SUL CONFLITTO E SUL RUOLO DELLE MOBILITAZIONI, IL 54,4% NON CREDE PIU’ NEANCHE A QUELLE PER IL LAVORO
Nel Paese delle opinioni spaccate, anche il conflitto israelo-palestinese si trasforma in un
terreno di scontro interno. Le manifestazioni pro-Pal(estina), gli scioperi indetti in solidarietà con Gaza, le dichiarazioni del governo e le reazioni dei cittadini ci raccontano molto più dell’Italia che della geopolitica.
Secondo i dati di Only Numbers, il 43% degli italiani si è dichiarato favorevole a un boicottaggio economico contro Israele, mentre il 43,2% è contrario: una divisione quasi perfetta. Non dissimile la lettura delle piazze: per il 44,4% servono solo a contestare il governo Meloni, mentre il 42,7% le interpreta come un grido di pace.
Ancora una volta, la sostanza è oscurata dalla percezione, e la percezione è deformata dalla politica. Lo dimostrano anche i giudizi sulle frasi pronunciate dalla presidente del Consiglio.
Quando Giorgia Meloni, riferendosi allo sciopero per Gaza della scorsa settimana, ha detto: «Non porterà beneficio al popolo palestinese, ma disagi a quello italiano» – è stata giudicata “equilibrata” dal 48,8% degli intervistati, mentre il 40,9% non l’ha condivisa. Al di là delle cifre, emerge una costante: la forma
prevale sul contenuto. Non si discute più se uno sciopero o una protesta siano giusti, opportuni, fondati o meno, ma se siano “fastidiosi”, “strumentali”, “di sinistra” o “di destra”.
La politica si riduce a giudizio morale, dove il dissenso non è una risorsa democratica, ma un comportamento da stigmatizzare. In questo clima, anche i temi del lavoro, storicamente centrali nella cultura politica italiana, sembrano perdere forza mobilitante. Solo un italiano su quattro (27,5%) pensa che uno sciopero per il lavoro potrebbe coinvolgere tante persone quanto la manifestazione per Gaza, mentre il 54,4% non ci crede.
Un dato che fa riflettere: le battaglie che ci riguardano direttamente non sembrano più capaci di accendere coscienze, forse per sfiducia nei risultati, forse per il tradimento delle promesse della politica o forse anche per assuefazione al disagio quotidiano. La forza mobilitante degli scioperi per le cause del lavoro oggi appare svuotata dello slancio originario, non per mancanza di ingiustizie o disuguaglianze – che anzi si moltiplicano -, ma perché il racconto collettivo del lavoro ha perso centralità nella narrazione pubblica.
I sindacati, spesso alla ricerca di visibilità, tendono a proiettarsi verso i grandi temi della politica internazionale, dove l’attenzione mediatica è più garantita, tuttavia così facendo rischiano di smarrire il legame con la quotidianità precaria di chi dovrebbero rappresentare.
Nel frattempo, una nuova generazione riempie le piazze, ma
diserta le urne: aderisce ai simboli, ma diffida delle istituzioni. E sono proprio gli striscioni delle manifestazioni – con i loro slogan radicali, disillusi e a tratti violenti – a dichiararlo apertamente. È il paradosso di un’attivazione politica che non trova canali di rappresentanza credibili, dove la protesta non si traduce in proposta e la piazza resta scollegata dal processo democratico. Forse è proprio da questa frattura che occorre ripartire per ricostruire un linguaggio del lavoro che sia in grado non solo di indignare, ma di mobilitare davvero. Che le piazze si siano mosse in modo così massiccio dopo la partenza della Global Sumud Flotilla non è un dettaglio secondario: è il segno di un’attivazione che segue l’onda emotiva degli eventi, ma raramente la precede.
Oggi è la geopolitica, non il lavoro, a toccare corde profonde. Emblematico, in questo senso, quanto accaduto il 7 ottobre, quando in alcune città come Torino e Bologna, manifestanti pro Palestina sono scesi in piazza con slogan come “Viva il 7 ottobre, viva la resistenza palestinese”, nonostante i divieti e le forti perplessità espresse dalle prefetture. Se le piazze moderne sono luoghi di memoria e di rivendicazione insieme, allora la sfida che ci troviamo di fronte non è solo interpretare il presente, ma riaprire lo spazio per un dissenso che non sia consumato nel confronto morale – violento a tratti maleducato -, ma che si dimostri capace di parlare di giustizia, non solo di indignazione.
Dalla geopolitica alla politica interna
Eppure, mentre la politica si affretta nel dibattito sulla strumentalizzazione della protesta, crescono i segnali di disagio profondo sul fronte interno. L’Italia non è un Paese apatico, ma è un Paese spaccato, frammentato in bolle ideologiche e mediatiche dove ogni fatto diventa pretesto per confermare le proprie convinzioni, anziché tentare di comprenderlo. Il rischio più grande non è il dissenso, ma la sua delegittimazione sistematica. In questo scenario polarizzato, il dato forse più inquietante resta quello che non fa rumore: l’astensione.
Il tema dell’astensionismo
Oggi quasi un italiano su due sceglie di non votare. Dai dati emerge che non sia a causa del disinteresse, ma piuttosto per disillusione. La disaffezione alla politica cresce di pari passo con la percezione che ogni confronto sia sterile, che ogni protesta venga ridotta a tifoseria, che ogni opinione serva più a schierarsi che a capire. È qui che il vero dissenso rischia di spegnersi: non nelle piazze, ma nel silenzio di chi smette di credere che partecipare possa servire ancora a qualcosa. La situazione israelo-palestinese è tragicamente reale, tuttavia in Italia è diventato anche un test culturale e politico: ci dice chi siamo, come leggiamo il mondo, quanto spazio lasciamo alle nostre convinzioni, quanto ancora crediamo nel valore della piazza, della parola, del dialogo e del dissenso, e la risposta oggi appare tutt’altro che rassicurante.
Alessandra Ghisleri
per lastampa.it
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