Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
UN PREFETTO CHE NON RICEVE I LAVORATORI EX ILVA, LE GRATE A PROTEZIONE DI COSA?… LA SCONSIDERATA SCELTA GENERA IL BLOCCO DEI BINARI FERROVIARI PER UN PAIO DI ORE… BUCCI COSTRETTO A INSEGUIRE SILVIA SALIS CHE SCENDE IN PIAZZA CON I LAVORATORI
Alta tensione a Genova durante il corteo dei metalmeccanici in sciopero per la
vertenza sull’ex Ilva. I manifestanti hanno staccato la grata metallica che la polizia aveva messo a difesa della prefettura di Genova agganciando un cavo d’acciaio a uno dei grandi macchinari che vengono usati per spostare l’acciaio in fabbrica. La polizia ha risposto sparando alcuni lacrimogeni per rispondere all’assalto, nel quale sono andati in fumo alcuni pneumatici.
Poi il corteo si è spostato verso la stazione di Brignole, bloccando per un paio d’ore allo la linea ferroviaria.
A unirsi alla mobilitazione anche la sindaca di Genova Silvia Salis, che ha provato ad allentare la tensione andando a parlare con i lavoratori dell’ex Ilva, ricordando loro come domani sia previsto un incontro con il ministro delle Imprese Adolfo Urso a Roma. La Fiom però è per la linea dura. «Abbiamo chiesto alla sindaca di interrompere i lavori del Consiglio comunale fino a quando non ci saranno risposte da parte del governo», ha detto Armando Palombo dopo l’incontro con la sindaca di Genova.
Le richieste di Genova al governo
«Se non c’è un piano del governo ci chiediamo cosa succederà ai nostri lavoratori ex Ilva? Cosa si produrrà a Genova? Stiamo dando via un altro pezzo d’industria, uno degli ultimi italiani? Noi vogliamo solo delle risposte. Ma soprattutto è importante che lo Stato si impegni a entrare nella gara per far sì che, in caso non avesse un vincitore, si proceda a una statalizzazione, anche transitoria, per mantenere attrattivi e al lavoro gli impianti», aveva detto Salis stamattina.
«Domani andiamo a Roma a chiedere non solo le 45mila tonnellate che ci hanno promesso a Genova per arrivare fino a fine febbraio, ma soprattutto che questa vertenza passi a un tavolo superiore – ha anticipato la sindaca -. Perché non abbiamo avuto le risposte di cui avevamo bisogno e c’è bisogno di risposte, soprattutto sul futuro».
Da segnalare la cattiva gestione della giornata da parte del prefetto di governo che invece che ricevere una delegazione dei lavoratori ha fatto mettere le grate di protezione al Palazzo, neanche ci fosse un attacco terroristico e causando di conseguenze la reazione degli operai che hanno bloccato i binari della stazione. Imbarazzo pure da parte delle forze dell’ordine. Patetico oò èresidente della Regione Bucci che da un lato non puo’ sconfessare il governo amico, dall’altro è costretto a inseguire la Salis per non apparire contro i lavoratori genovesi.
(da agenzie)
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Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
LA RUSSIA ORMAI DIPENDE COMPLETAMENTE DA PECHINO, ANCHE DAL PUNTO DI VISTA MILITARE. IL FORNITORE CINESE WANG DINGHUA HA ACQUISITO UNA QUOTA DI RUSTAKT, IL PRINCIPALE PRODUTTORE DI DRONI IN PRIMA PERSONA… LA MANIFATTURA CINESE È FONDAMENTALE PER RIFORNIRE DI MACCHINARI E MATERIALI LE TRUPPE DI “MAD VLAD”, XI TIENE PER LE PALLE PUTIN ANCHE CON L’ECONOMIA, TRA ACQUISTI DI PETROLIO E IL MONOPOLIO DEI PRODOTTI DI CONSUMO
Ieri in Russia non c’erano solo gli emissari di Donald Trump, ma anche il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, giunto a Mosca per la ventesima tornata di consultazioni strategiche tra Cina e Russia, il clima politico e militare era già denso di segnali di cambiamento.
L’agenda ufficiale parlava di “stabilità strategica”, ma il contesto suggeriva molto di più: un riallineamento profondo nei rapporti di forza tra due potenze che, pur evitando ogni riferimento a un’alleanza formale, si muovono ormai in un sistema di interdipendenze sempre più strette e, allo stesso tempo, sempre più asimmetriche.
L’incontro del ministro degli Esteri cinese con Sergej Lavrov e con il segretario del Consiglio di Sicurezza Sergej Shoigu è arrivato a poche giorni di distanza dalla notizia che un importante fornitore cinese di componenti per droni ha acquisito una quota di una delle aziende impegnate nello sforzo bellico russo in Ucraina.
Secondo il Financial Times, Wang Dinghua ha acquisito il 5% delle azioni di Rustakt, che produce un drone con visuale in prima persona, ampiamente utilizzato da Mosca nei suoi attacchi contro l’Ucraina.
Già negli scorsi anni, l’azienda russa aveva comprato batterie, controller e altre componenti da quella cinese, investendo diverse centinaia di milioni di dollari. Si tratta di cosiddetti materiali a duplice uso, cioè prodotti per scopi civili ma utilizzabili anche per scopi militari.
Questa nuova collaborazione rappresenta però un salto di qualità inedito tra un’azienda cinese e un fornitore militare russo. E va a coprire un settore molto importante, perché i droni sono diventati un elemento cruciale della guerra sia per la Russia che per
l’Ucraina. Si è parlato spesso in questi anni di possibili forniture di elementi critici dei sistemi d’arma da parte di Pechino a Mosca, in particolare sui droni.
Da parte sua, la Cina continua a sostenere che non fornisce armi letali a nessuna delle due parti in conflitto e afferma di applicare rigidamente i controlli sulle tecnologie dual use. Ma spesso la linea tra civile e militare si dissolve
Sul fronte militare, non si può parlare di alleanza formale.
Ma di certo la partnership è solida e in continua evoluzione. In passato, la Cina importava in massa armi e mezzi militari dalla Russia. Da tempo, il rapporto si è ribaltato e ora è Mosca che dipende anche dalla capacità manifatturiera cinese per macchinari e materiali a duplice uso.
Negli ultimi anni, si sono moltiplicate le esercitazioni congiunte, che si svolgono regolarmente sia su terra sia nelle acque del Pacifico o di recente nell’Artico. Spesso non sono solo esercizi tecnici, ma messaggi strategici agli Stati Uniti o ai loro alleati asiatici come il Giappone.
Nei mesi scorsi, il Financial Times ha scritto che la Russia sta aiutando ad addestrare le forze aviotrasportate cinesi nella guerra ibrida e nelle tattiche d’assalto, potenzialmente utili su Taiwan.
Attenzione, però, perché non è tutto roseo. Anche negli ultimi anni, la Russia ha denunciato casi di spionaggio cinese o di copia non autorizzata dei propri sistemi, soprattutto nel campo aerospaziale e missilistico.
E ci sono anche alcune asimmetrie. Nei prossimi giorni, per esempio, Vladimir Putin sarà in India a cui potrebbe vendere il nuovo sistema di difesa anti missile S-500. Una scelta che, se concretizzata, avrebbe implicazioni dirette […] anche per la Cina, che osserva con attenzione ogni movimento militare indiano lungo il confine himalayano
Parallelamente, la Cina sta utilizzando la crescente influenza economica a proprio vantaggio. Una ricerca del Banca di Finlandia Institute for Emerging Economies evidenzia che tra il 2021 e il 2024 i prodotti soggetti a controlli all’export e spediti dalla Cina alla Russia hanno visto un aumento dei prezzi dell’87% […]. In alcuni casi l’aumento in valore non corrisponde affatto a un aumento delle quantità, che risultano anzi diminuite.
(da La Stampa)
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Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
IERI SERA, CON IL 79% DELLE SCHEDE SCRUTINATE, ERA IN TESTA PER UN SOFFIO, IL 72ENNE SALVADOR NASRALLA, CONDUTTORE DI QUIZ TELEVISIVI E VOLTO DEL PARTITO LIBERALE, CHE SUPERAVA IL RIVALE NASRY “TITO” ASFURA DEL PARTITO NAZIONALE, 67 ANNI “PUPILLO” DI TRUMP … “THE DONALD” HA GIÀ ANNUNCIATO CHE SE VINCERÀ NASRALLA CHIUDERÀ I RUBINETTI AL PAESE, COME GIÀ AVEVA MINACCIATO DI FARE IN ARGENTINA
Giallo in Honduras sul risultato delle presidenziali di domenica. Per ben due volte il
conteggio dei voti nel piccolo Stato centramericano (10 milioni di abitanti) si è bloccato per una non meglio identificata «manutenzione del sistema».
Ieri sera, con il 79% delle schede scrutinate, era in testa, per un soffio, il 72enne Salvador Nasralla, conduttore di quiz televisivi, commentatore sportivo e volto del Partito liberale, che superava per poche decine di migliaia di voti (meno dell’1%) il rivale Nasry «Tito» Asfura del Partito nazionale, 67 anni, ex sindaco di Tegucigalpa e «pupillo» di Donald Trump, che non ha lesinato pressioni sul voto.
I duellanti sono entrambi uomini di destra, ma agli occhi di Trump Nasralla è «un quasi comunista», perché fino allo scorso anno era vice della presidente di sinistra uscente, Xiomara Castro.
Poche ore prima dell’apertura delle urne, il capo della Casa Bianca ha avvertito che se Asfura non avesse vinto le elezioni, gli Stati Uniti «non avrebbero sprecato i loro soldi» in Honduras. Frasi simili a quelle che in ottobre hanno aiutato il Partito liberale di Milei ad incassare un’insperata vittoria alle elezioni di mid-term in Argentina.
L’ingresso a gamba tesa di Trump ha dato una spinta alla formazione di estrema destra guidata da Asfura, che fino al giorno prima era dato in netto svantaggio rispetto all’avversario.
Ma nello stesso post, venerdì, Trump ha annunciato la grazia all’ex presidente honduregno Juan Orlando Hernández, anch’egli del Partito nazionale, condannato da un tribunale di New York a 45 anni di carcere per aver aiutato i Cartelli messicani della droga a inondare gli Stati Uniti di cocaina. Paradossi di Trump
Se sarà confermata la vittoria di Nasralla, Trump potrà continuare a soffiare sul fuoco, denunciando brogli contro il suo favorito, oppure accogliere a corte un nuovo alleato latino-americano
(da Corriere della Sera”)
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Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
CHIAMATE LA NEURO: SEMBRA CHE ANCORA NON ABBIANO FIRMATO L’AVVIO DEI LAVORI PERCHÉ SAREBBERO CONTRARI ALL’UTILIZZO DI PLASTICA E PERCHÉ VOGLIONO UN BAGNO DOTATO DI IMPIANTO DI FITODEPURAZIONE
«Ad oggi in Comune a Palmoli non è stato presentato alcun progetto di ampliamento del casolare dei Trevallion». A parlare è Giuseppe Masciulli, sindaco del paesino al centro dell’attenzione mediatica per la vicenda della famiglia nel bosco e dei bimbi collocati in una casa famiglia. Nessun progetto, lavori fermi. È un piccolo giallo che nel giorno dell’udienza al tribunale dei minori dell’Aquila, alimenta dubbi e perplessità. Se una delle criticità che hanno portato all’allontanamento dei tre figli è proprio la dimora in pietra che necessita di adeguamenti, come mai non si procede in fretta?
Sembra che Nathan e Catherine non abbiano ancora firmato l’avvio dei lavori perché sarebbero contrari all’utilizzo di certi materiali (soprattutto la plastica) nocivi all’ambiente e perché, seguendo la loro filosofia di vita, desiderano un bagno dotato di impianto di fitodepurazione. Ma ciò vorrebbe dire attendere il nullaosta della Provincia e quindi mesi. Il tempo invece stringe perché la casa offerta loro in comodato d’uso, tra tre mesi tornerà al proprietario
Con tutta probabilità Nathan e Catherine non ci saranno. «Troppo lo stress emotivo» per la coppia.
Cosa succederà oggi? Verrà revocato il decreto di allontanamento del 13 novembre scorso? Non è una decisione da prendere in velocità ed è probabile che all’udienza i giudici decidano di riservarsi. La difesa della coppia si dice cauta, cercherà soprattutto di valorizzare l’atteggiamento più collaborativo di Nathan e Catherine.
La vicenda che ha avuto ed ha una sua valenza «politica» resta aperta sul fronte delle misure disciplinari, tuttora in via di valutazione al ministero della Giustizia.
Dal ministero anticipano che servirà tempo prima della decisione riguardo all’ispezione, sul tema interviene l’Anm: «Sorprende che il ministro Carlo Nordio abbia nell’immediatezza annunciato una possibile ispezione e abbia al contempo ammesso di non conoscere il contenuto del provvedimento. Ci piacerebbe maggiore cautela», ha detto il vicepresidente Anm Marcello De Chiara.
(da agenzie)
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Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
IL SONDAGGIO DI “LE GRAND CONTINENT”.., MA NON VEDIAMO IL PROBLEMA: QUETO GOVERNO SI ARRENDEREBBE AL PRIMO SCOPPIO DI PETARDO, SONO TUTTI AMICI DI PUTIN E TRUMP
Oltre la metà degli europei teme che la Russia si prepari a entrare apertamente in
guerra contro il proprio Paese. Gli italiani sono su questo un po’ meno pessimisti della media, vede un rischio elevato in tal senso “solo” un cittadino su tre. Ma una maggioranza schiacciante pensa che se così fosse, se cioé davvero Vladimir Putin dovesse muovere guerra direttamente contro l’Europa, l’Italia soccomberebbe.
«Non sarebbe in grado di difendersi», valuta l’85% degli italiani. Cifra record in Ue: solo in Belgio le persone vedono più nero (87%). Sono i dati che emergono da un sondaggio condotto in nove paesi europei da Cluster 17 per la rivista di geopolitica Le Grand Continent e pubblicato stamattina.
Tra le opinioni pubbliche del continente per la verità il pericolo numero 1 in termini di sicurezza resta quello delle organizzazioni terroristiche. Sono di questa matrice gli attacchi che gli europei più temono per il futuro: due su tre nella media, con un picco di paura in Francia – che ha appena commemorato i 10 anni dell’assalto islamista al Bataclan – dell’86%. Segue, appunto, lo spettro del militarismo russo: l’81% degli europei ha smesso da tempo di credere alle fandonie di Putin e non crede che Mosca voglia la pace
A fronte di questa consapevolezza del pericolo, l’opinione pubblica europea mantiene un significativo sostegno alla causa dell’Ucraina. Il 30% pensa che l’attuale sostegno a Kiev vada mantenuto, un altro 31% che andrebbe addirittura aumentato. Pesa comunque la fetta di un europeo su cinque convinta che sia ora di mettere fine agli aiuti al Paese di Volodymyr Zelensky. Ad essere più incerta sulla questione d’altronde è l’opinione pubblica italiana. Qui un pesante 30% vorrebbe interrompere il sostegno a Kiev – cifra record in Europa. Tanti quanti credono sia giusto mantenerlo intatto. La parte restante dell’opinione pubblica si divide altrettanto equamente tra chi pensa che gli aiuti andrebbero aumentati e chi diminuiti. Il sostegno a Kiev d’altra parte costa soldi e fatica, come dimostrano gli avvitamenti dell’Ue sul nodo degli asset russi congelati, specie dopo il disimpegno degli Usa di Donald Trump, che un italiano su due (in linea con la media Ue) vede ormai non a caso esplicitamente come un “nemico”. «In tutto il continente il trumpismo è chiaramente considerato una forza ostile e questa percezione si sta consolidando», spiega Jean-Yves Dormagen, professore di scienze politiche e curatore del sondaggio.
Il progetto di Crosetto per «rivitalizzare» l’esercito
In questo quadro di preoccupazioni e incertezze s’inserisce l’azione del governo Meloni – schierata a parole con Kiev ma sempre più recalcitrante a spendere in armi, italiane o americane, per aiutarla concretamente. Ma anche gli appelli del ministro della Difesa Guido Crosetto perché anche il nostro Paese si
prepari al salto di qualità e quantità nella preparazione dell’esercito ad affrontare le minacce russe (e non solo) di oggi e di domani. «C’è l’esigenza di dotarci di uno strumento militare efficiente ed efficace, pronto ad adeguarsi a cambi repentini che ci rendono impossibile definire il futuro dal punto di vista della minaccia, degli scenari e delle tecnologie. È un tema che richiede un profondo rinnovamento della Difesa, che possiamo gestire insieme e che deve essere approvato dal Parlamento, dove lo proporrò all’inizio del prossimo anno perché è il tempo maturo per ridefinire il quadro della nostra Difesa», ha detto stamattina Crosetto in audizione alle commissioni Difesa congiunte di Camera e Senato, ribadendo come sia urgente per l’Italia dotarsi «di una riserva selezionata, un bacino formato che in caso di crisi o anche calamità naturali sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari». Con buona pace del polverone sollevato dalle sue dichiarazioni della scorsa settimana da Parigi: «Ho solo risposto alla domanda di un giornalista francese sulla riforma di Macron e sottolineo che si parlava di leva volontaria. Almeno abbiamo innescato un dibattito: c’è la necessità di aumentare le forze armate e la loro qualità utilizzando anche competenze che si trovano sul libero mercato e non tra i militari».
(da agenzie)
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Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
IN ARRIVO UN NUOVO REGALO A CHI HA COMMESSO UN REATO: SILENZIO ASSENSO E SANATORIA PER GLI ABUSI
Matteo Salvini governa come se il Paese fosse un cantiere lasciato aperto dagli amici del mattone. E ogni volta che torna sulla scena, porta con sé la stessa idea fissa: non correggere le distorsioni dell’edilizia italiana, ma assolverle. Prima il “Salva Casa” del 2024, trasformato in una sanatoria strutturale delle difformità interne, delle verande chiuse, dei frazionamenti spuntati senza titolo. Poi la spinta, nella Manovra 2026, a riaprire i vecchi condoni del 1985 e del 2003: una promessa implicita di clemenza verso chi ha costruito fuori dalle regole e per anni ha aspettato l’occasione buona.
Ora arriva il capitolo finale: la riforma dell’edilizia che introduce un silenzio-assenso potenziato e una sanatoria per gli abusi realizzati prima del 1° settembre 1967. Un confine che permette di regolarizzare ampliamenti, volumi, trasformazioni nati senza alcun controllo. Se il Comune non risponde, l’abuso diventa legittimo. Non una scorciatoia burocratica: una strategia politica
Salvini racconta tutto come “libertà”, “semplificazione”, “rilancio dell’economia”. Ma la semplificazione, qui, è la cancellazione della legalità urbanistica. Lo Stato rinuncia a verificare, a controllare, a difendere il territorio: è l’irresponsabilità come architettura normativa. Un Paese fragile — segnato da frane, alluvioni, dissesti — dovrebbe pretendere più prudenza, non un colpo di spugna permanente.
È questo il vero progetto: trasformare l’abuso in normalità e la normalità in un ostacolo. Chi ha rispettato le regole resta il fesso della storia; chi le ha violate trova sempre una porta aperta. Governare diventa condonare, e il condono diventa dottrina: una pedagogia del favore che premia chi ha osato di più, che perdona retroattivamente, che considera il territorio una quota di scambio politico.
*La domanda non è più cosa si costruirà, ma cosa lo Stato sarà disposto a perdonare. E in questa risposta c’è già tutto il fallimento di un’idea di gov
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Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
LA VOCAZIONE CONSOCIATIVA DEL POTERE ITALIANO
La lista dei partecipanti ad Atreju (secondo me da pronunciarsi al vocativo, alla
romanesca: a’ Trejuuu!) è poderosa e palesemente apolitica, nel senso che raduna, a mazzi come gli
asparagi, italiane e italiani di ogni risma, cultura, professione, indole.
In questo senso Atreju, nata come adunata di irriducibili arditi, pochi ma tosti, pochi ma neri, è il segno più evidente della vocazione consociativa del potere italiano. Un po’ come il Meeting di Rimini, ma con minore focalizzazione sul business e la produttività (cielle è pur sempre nordica per radici e cultura, il fatturato conta almeno quanto lo Spirito Santo) e con un evidente viraggio romano, non in senso littorio, ma in senso viale Mazzini, e trattorie dei dintorni: c’è Carlo Conti, non sorprende l’assenza di Fiorello, troppo scafato per caderci.
Inspiegabile la mancanza di Bocelli che canta «Vinceròooooooo!» e di Totti, Ilary, Chiara Ferragni e Fedez che sviscerano le complesse problematiche della famiglia tradizionale. Forse si tratta solo di disguidi, forse saranno presenze last minute.
Ci si domanda se sia un bene o un male, questa ammucchiata pacifica, anzi paciosa. Un bene perché saper convivere è pur sempre un buon segno, mica puoi passare la vita intera a prendere le distanze. Un male perché i famosi “no che aiutano a crescere”, come recita la pedagogia meno rammollita, diventano sempre più rari. Prevalgono i “sì che aiutano a campare”.
In fin dei conti, si chiamano Fratelli d’Italia e Forza Italia i due terzi del potere nazionale. Il terzo terzo, la Lega, è comunque nel programma, insieme a porzioni notevoli dell’opposizione.
(da La Repubblica)
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Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
VALE LA PENA SOTTOLINEARE LE PAROLE DELL’EURODEPUTATO DEL PD, DARIO NARDELLA: “NON VORREI CHE SI TRASFORMASSE IN UN FUOCO DI PAGLIA CON L’UNICO EFFETTO DI DANNEGGIARE ANCORA UNA VOLTA L’IMMAGINE DELL’ITALIA” …DEL RESTO, A CHI GIOVA SPUTTANARE L’EUROPA, IN UN MOMENTO IN CUI SI ERGE COME UNICO ARGINE ALLA RESA DELL’UCRAINA CHE STANNO APPARECCHIANDO TRUMP & PUTIN? – A GODERE SONO INFATTI “MAD VLAD” E I SUOI TROMBETTIERI
Alla fine, si torna sempre a Seneca: cui prodest? Di fronte ai tempi in cui la Dea Ragione è finita chissà dove, tra post-verità e “rage-bait” (l’esca della rabbia, parola dell’anno 2025), di fronte a ogni notizia è sempre utile andare oltre e chiedersi: a chi giova?
Vale per le guerre, per la politica, per l’economia e la finanza, e vale anche per la cronaca giudiziaria. È utilissimo, ad esempio, chiedersi a chi giova il fermo per “frode in appalti pubblici” di Mogherini e Sannino che negli anni hanno sempre dimostrato nel loro lavoro politico e diplomatico a Bruxelles di essere assolutamente specchiate, al di sopra di ogni sospetto.
L’eurodeputato del Pd, ed ex sindaco di Firenze, Dario Nardella, perplesso di fronte all’iniziativa dei giudici belgi, si pone il dubbio: “Non vorrei che si trasformasse in un fuoco di paglia con l’unico effetto di danneggiare ancora una volta l’immagine dell’Italia”. E dunque, a chi giova danneggiare l’immagine dell’Italia, e dell’Europa?
Questa mattina, sfogliando i giornali, non abbiamo potuto fare a meno di notare due titolazzi in prima pagina. “La Verità” di Maurizio Belpietro apriva il quotidiano a caratteri cubitali: “UE CORROTTA COME L’UCRAINA”; “il Fatto quotidiano” d
Marco Travaglio con “Ci facciamo sempre riconoscere”. Entrambi i quotidiani accompagnavano i titoli con editoriali durissimi dei rispettivi direttori (che riportiamo in estratto sotto).
Se i due quotidiani più filo-Putin d’Italia festeggiano per l’inchiesta su Mogherini-Sannino, la risposta alla domanda di cui sopra (a chi giova?) è presto trovata. L’indagine indebolisce ancora di più le già fragili istituzioni europee, con grosso godimento della Russia, che vede franare pezzo dopo pezzo l’unico argine alla resa dell’Ucraina.
Se le accuse contro Mogherini e Sannino saranno provate, o se come il Qatargate si concluderanno in un mezzo nulla di fatto, lo vedremo con il tempo. Intanto a Mosca hanno stappato le bottiglie di vodka buona.
E infatti ieri Maria Zakharova, sempre pronta quando si tratta di vomitare un po’ di veleno (a proposito di “rage bait”), come un Belpietro qualunque, ha associato la vicenda Mogherini allo scandalo corruzione in Ucraina: “Nell’ Ue milioni di euro fluiscono attraverso i ‘canali della corruzione’ verso Kiev, e questo ‘va avanti da anni ed è sotto gli occhi di tutti”.
Non dice, la poveretta, che se anche fossero vere le accuse verso Mogherini e Sannino, come quelle verso i funzionari ucraini accusati di aver incassato le mazzette, il fatto che ci siano degli arresti significa che il sistema funziona, a differenza delle autocrazie come quella in cui vive.
Ps. Federica Mogherini, per quanto inconcludente come politica (il suo unico risultato è stato di aver firmato il fragile e inutile accordo sul nucleare con l’Iran), è giudicata a Bruxelles come una persona seria, e al Collegio d’Europa ritengono che da rettrice abbia fatto bene all’istituzione: da polverosa e grigia scuola di formazione si è svecchiata, diventando più “pop” e appetibile.
Lo stesso vale per Stefano Sannino: le uniche critiche che i giornali di destra hanno saputo muovere riguardano la sua vicinanza a Romano Prodi, il suo sostegno al mondo Lgbt e di aver ricevuto il premio Transexualia in Spagna. Nulla da eccepire sul suo lavoro, riconosciuto come eccellente in ambienti diplomatici, come ambasciatore.Possibile che siano diventati, improvvisamente, due mascalzoni da arrestare per “frode in appalti pubblici”?
(da Dagoreport)
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Dicembre 4th, 2025 Riccardo Fucile
“E’ SUICIDIO INDUSTRIALE E STRATEGICO”
La crisi dell’ex Ilva è arrivata al punto di collasso. Da quando il governo Meloni ha
scelto di spingere sul cosiddetto “ciclo corto” – vendere i coils grezzi prodotti a Taranto senza alimentare più gli stabilimenti del Nord Italia – la più grande acciaieria del Paese è entrata in una fase che i sindacati definiscono “di smantellamento”. Genova, Novi Ligure e Racconigi rischiano la fermata immediata, Taranto attende la chiusura delle cocherie, e l’intero settore siderurgico nazionale potrebbe perdere in poche settimane migliaia di posti di lavoro diretti e nell’indotto. In mezzo, intanto, resta irrisolta la questione ambientale, affrontata negli anni senza alcuna prospettiva industriale di lungo periodo. Insomma, proprio il governo che ha costruito gran parte della sua fortuna parlando di sovranità industriale, autonomia, difesa dei settori chiave dell’economia nazionale, rischia di accompagnare alla chiusura l’unico polo siderurgico in grado di produrre acciaio primario in Italia.
Per capire quali scenari si stanno delineando, quali sono le responsabilità politiche e perché l’Italia rischia di consegnarsi all’importazione di acciaio da Cina e India, Fanpage.it ha interpellato Loris Scarpa, responsabile nazionale della siderurgia per la Fiom-Cgil, una delle voci più autorevoli nel seguire da anni la vertenza.
Qual è, dal vostro punto di vista, la vera natura della crisi dell’ex Ilva? È una crisi inevitabile o il risultato di precise scelte
politiche e industriali compiute negli ultimi anni, soprattutto dall’attuale governo?
La crisi dell’ex Ilva non è affatto un evento naturale o inevitabile. È il prodotto diretto di un disinteresse strutturale del Paese verso l’industria e verso ciò che genera davvero ricchezza. Da anni – e oggi più che mai – si è affermata l’idea che l’iniziativa privata, libera da vincoli e da investimenti pubblici, sia automaticamente in grado di produrre sviluppo. Non è così. Lo vediamo non solo nell’acciaio, ma nell’intero sistema industriale italiano: l’industria non è più considerata come un settore su cui investire, ma come un terreno su cui muoversi solo finanziariamente. L’investimento produttivo è stato sostituito dalla logica speculativa.
Nel caso dell’ex Ilva questo è evidente: i bandi, sia quelli del Mimit (Ministero delle Imprese e del Made in Italy) sia quelli dei commissari, dimostrano che non c’è alcun reale interesse privato a investire nella produzione di acciaio di cui Italia ed Europa hanno bisogno. Non è un caso che alcuni soggetti abbiano offerto un euro simbolico per acquisire il gruppo: significa che nessuno vuole assumersi il peso di investimenti pesanti, né la responsabilità industriale di un asset strategico per il Paese. Il punto è semplice: un Paese che rinuncia a produrre acciaio rinuncia a produrre ricchezza. E se non produci ricchezza, non distribuisci benessere. Noi lo diciamo da tempo: questa crisi è il frutto di una precisa scelta politica, non di una fatalità.
Perché l’acciaio è così strategico per l’Italia e per l’Europa oggi
Per capirlo bisogna distinguere. L’acciaio prodotto nel Nord Italia è destinato in gran parte all’export. L’Italia esporta molto acciaio verso altri Paesi europei, mentre solo una parte minima viene utilizzata sul nostro territorio. È un acciaio importante, certo, ma non è quello che determina la possibilità di esercitare una vera sovranità industriale
Il cuore della questione è l’acciaio da ciclo integrale, quello che si produce con gli altiforni e con le tecnologie che oggi dovrebbero essere riconvertite alla decarbonizzazione. È questo l’acciaio strategico: serve all’automotive, agli elettrodomestici, all’industria tecnologica, all’aerospazio, alla difesa, all’edilizia. Senza acciaio primario non produci la filiera che rende un Paese industrialmente rilevante.
L’Italia ha bisogno di almeno 40 milioni di tonnellate annue per alimentare la sua economia. Senza Taranto, questo fabbisogno dovrebbe essere coperto importando 20-30 milioni di tonnellate da Cina e India. Significa dipendere completamente da potenze industriali che oggi giocano una partita globale molto dura. È un suicidio industriale, oltre che strategico.
La vicenda dell’ex Ilva di Taranto è indissolubilmente legata al nodo della salute. Ebbene, la questione ambientale è stata davvero risolta oppure no?
No, non è stata risolta. E non poteva essere risolta, perché gli investimenti necessari non sono stati completati. Il problema parte da lontano: dalla privatizzazione dell’era Riva e dal raddoppio della capacità produttiva di Taranto, ottenuto anche
chiudendo l’altoforno di Genova. Poi c’è stato il passaggio con ArcelorMittal, che a un certo punto ha deciso di non investire più in Italia perché aveva altri interessi strategici. Da lì sono saltati gli investimenti sugli impianti, a partire dalle manutenzioni straordinarie, che sono l’elemento minimo per garantire sicurezza e salute.
Negli ultimi anni alcuni interventi sono stati fatti – penso ai fondi sequestrati ai Riva, alla copertura dei parchi minerali, delle aree di stoccaggio, ai filtri Meros. Ma questi interventi, pur importanti, non completano ciò che servirebbe per rendere Taranto un impianto compatibile con la salute. E soprattutto: cosa ce ne facciamo di investimenti costosi se poi lasciamo la fabbrica chiusa o semichiusa?
Oggi Taranto produce acciaio in modo “pulito”?
La produzione attuale è talmente bassa che gli impatti sono molto ridotti rispetto al passato. Ma questo non significa che il problema ambientale sia superato. Significa semplicemente che la fabbrica è quasi ferma. Gli impianti hanno bisogno di investimenti enormi per essere in linea con le normative e con le tecnologie moderne. Senza un piano industriale vero e senza manutenzioni, il ciclo integrale diventa insostenibile sia dal punto di vista ambientale che da quello produttivo. E questo ci riporta alla domanda: quali scelte ha fatto lo Stato? La risposta è semplice: non si è voluto investire davvero.
Come si concilia oggi la produzione dell’acciaio con la tutela della salute?
Servono due condizioni: investimenti e programmazione. La salute si tutela se gli impianti vengono rinnovati, se si passa davvero alla decarbonizzazione, se si gestisce il ciclo integrale con tecnologie moderne, se si fanno manutenzioni costanti. E naturalmente se si progetta un percorso industriale di lungo periodo. Finché la politica continuerà a inseguire l’emergenza, senza una strategia, la salute rimarrà un tema irrisolto. Oggi siamo purtroppo ancora in questa situazione
Parliamo della mobilitazione di questi giorni. Quali sono le ragioni della protesta?
Le ragioni sono semplici e drammaticamente chiare. Il governo, dopo aver promesso che avrebbe messo a disposizione tutte le risorse necessarie, ha di fatto chiuso i rubinetti. Lo abbiamo capito nell’incontro dell’11 novembre a Palazzo Chigi. Da lì è arrivata la decisione di adottare il cosiddetto “piano ciclo corto”: l’unico altoforno ancora in funzione a Taranto produrrà alcuni coils, che però non verranno inviati agli stabilimenti del Nord e neppure lavorati a Taranto. Verranno venduti sul mercato, grezzi.
Questo significa che Genova, Novi Ligure e Racconigi non riceveranno più acciaio e quindi fermeranno gli impianti. Significa che anche Taranto perderà la sua funzione industriale: a febbraio è prevista la chiusura delle cocherie, che sono essenziali per alimentare gli altiforni. Senza coke, chiudi gli altiforni. E senza altiforni non esiste più il ciclo integrale. Tutto questo avviene senza alcuna programmazione verso i forni
elettrici, senza un cronoprogramma di decarbonizzazione, senza investimenti.
In sostanza: non produrranno più acciaio e non rinnoveranno gli impianti. È corretto?
Esattamente. È la peggiore combinazione possibile: non mantieni la produzione e non investi. È la strada più rapida verso lo smantellamento.
A quanto ammonta oggi la produzione rispetto al fabbisogno nazionale?
La produzione attuale non supera il milione e mezzo di tonnellate. Neppure due milioni. Potremmo avere capacità massima di 6 milioni, ma siamo anni luce da quel livello. Un altoforno è sotto sequestro, un altro non è tecnicamente pronto a ripartire, e persino l’altoforno 4 – l’unico in marcia – non può essere spinto oltre perché ha bisogno di manutenzioni straordinarie. Anche nella migliore delle ipotesi non arriveremo a 6 milioni prima del 2026 o 2027. Forse.
Quali sono gli effetti occupazionali immediati?
Devastanti. Se il governo decide di vendere sul mercato tutto l’acciaio grezzo, senza alimentare gli impianti di trasformazione, il risultato è che tutti gli stabilimenti a valle si fermano. Oggi ci sono 10 mila dipendenti diretti: almeno 6 mila finirebbero in cassa integrazione nel giro di poche settimane. Da marzo il numero potrebbe aumentare, perché la chiusura delle cocherie avvierebbe una catena di fermate inevitabili.
E poi c’è l’indotto.
Proprio ieri due aziende dell’indotto tarantino hanno annunciato 220 licenziamenti. L’effetto domino è già iniziato.
Si rischia quindi lo smantellamento della siderurgia italiana?
Sì. Lo dico senza giri di parole: siamo davanti allo smantellamento dell’acciaio strategico per l’Italia e per l’Europa. È ciò che sta avvenendo. Ed è esattamente ciò che avevamo denunciato anni fa.
È un paradosso per un governo che parla di sovranità industriale?
Un paradosso enorme. Il governo Meloni parla di indipendenza nazionale, di Made in Italy, di sovranità, ma nei fatti sta dismettendo il principale presidio industriale del Paese. Noi lo denunciamo da tempo. È per questo che la vertenza è finita a Palazzo Chigi: è una questione che riguarda l’interesse nazionale.
Sul futuro della governance: spingete verso una forma di nazionalizzazione dell’ex Ilva?
No, non chiediamo una nazionalizzazione totale. Chiediamo una presenza pubblica stabile, com’era all’origine della siderurgia italiana. Taranto, Genova, Piombino: tutti i grandi impianti sono nati grazie all’intervento pubblico. Oggi il settore è in crisi perché è stato abbandonato dal pubblico e privatizzato senza una strategia. Il risultato è davanti agli occhi di tutti.
Noi diciamo una cosa semplice: se i privati offrono un euro, e se persino i fondi speculativi non vogliono assumersi responsabilità, allora deve intervenire il pubblico. E il pubblico
ha gli strumenti per farlo: ENI, Enel, Fincantieri, Webuild, Leonardo. Sono aziende partecipate che operano in settori direttamente collegati all’acciaio. Hanno competenze, capitale, interesse industriale. Possono garantire la transizione verso l’acciaio green, stabilizzare i siti, rilanciare la produzione e tutelare l’occupazione. La normativa europea prevede già questa possibilità; non solo, in Italia abbiamo Cassa Depositi e Prestiti, e questo vuol dire che c’è tutto il potenziale economico per rilanciare l’ex Ilva e risolvere anche la questione occupazionale.
Perché non si fa?
Perché manca la volontà politica. Non perché manchino le norme o gli strumenti. La Presidenza del Consiglio dovrebbe spiegare al Paese perché non intende assumersi questa responsabilità. Il ministro Urso continua a dire che non si può fare per ragioni costituzionali, ma è semplicemente falso: manca la volontà, non la possibilità.
State aspettando un incontro con la Presidenza del Consiglio. Ci sono novità?
L’unica certezza è la mobilitazione dei lavoratori, che sta crescendo in tutti gli stabilimenti. Parliamo di persone che da più di dieci anni vivono dentro una crisi occupazionale permanente, mantenendo dignità e professionalità. Non ci fermeremo finché non avremo un confronto vero con la Presidenza del Consiglio. Non è una questione di un incontro formale: è una questione di affrontare finalmente il tema.
Siete ottimisti? La presidente Meloni negli ultimi mesi non ha mostrato grande rispetto per i lavoratori…
L’ottimismo non è il punto. Il punto è che la Presidenza del Consiglio ha un dovere istituzionale: tutelare il lavoro e l’industria. Se davvero il governo pensa che chi sciopera vuole solo farsi un weekend lungo, lo venga a dire ai lavoratori di Genova e Taranto, e vediamo che succede. Noi stiamo chiedendo solo una cosa: che lo Stato faccia il suo lavoro. E continueremo a chiederlo finché non lo farà.
(da Fanpage)
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