Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA RILEVAZIONE DEL KYIV INDEPENDENT NEL GIORNO DELL’APERTURA A SORPRESA DI ZELENSKY CHE POTREBBE ANCHE DECIDERE DI NON RIPRESENTARSI DANDO UN SONORO SCHIAFFO MORALE A TUTTI… SE I CIALTRONI USA ED EUROPEI AVESSERO FORNITO A TEMPO DEBITO LE ARMI ALL’UCRAINA OGGI PUTIN SAREBBE IN GINOCCHIO A CHIEDERE LA PACE
Elezioni anticipate in Ucraina? Quella che sino a poche ore fa sembrava fantapolitica, un sogno di Vladimir Putin più o meno convintamente condiviso dalla Casa Bianca, ora pare uno scenario realmente possibile. Al termine di una giornata a Roma in cui ha incontrato Papa Leone XIV e Giorgia Meloni, infatti, Volodymyr Zelensky a sorpresa ha aperto all’idea su cui l’aveva sfidato in un’intervista Donald Trump: «Stanno usando la guerra per non indire le elezioni, penso che il popolo ucraino dovrebbe avere questa scelta». Ora il leader di Kiev si dice pronto a far partire il processo così che possano svolgersi elezioni «entro 60-90 giorni», se gli Usa contribuiranno a creare le condizioni di sicurezza necessarie nel Paese, persino sotto legge marziale.
Ma che succederebbe se si andasse al voto? «Forse vincerebbe Zelensky. Non so chi vincerebbe», rifletteva a voce alta Trump nell’intervista a Politico.
In effetti il risultato a priori pare un rebus, in un Paese che di fatto ha visto «anestetizzata» la contesa politica da quando a febbraio 2022 è stato sconvolto dalla guerra scatenata da Vladimir Putin.
Ma una cosa è certa: Zelensky negli ultimi mesi è calato nei sondaggi, e lo scandalo corruzione ai vertici dell’Ucraina arrivato a lambire il suo «cerchio magico» sembra aver dato un colpo al suo consenso.
Secondo un sondaggio pubblicato oggi dal Kyiv Independent al primo turno di futuribili elezioni presidenziali voterebbe per Zelensky il 20,3%
La rilevazione è stata condotta tra il 13 e il 28 novembre, pochi giorni dopo l’esplosione dello scandalo corruzione costato il posto a due ministri e alla fine pure al braccio destro di Zelensky, Andriy Yermak. Nel precedente sondaggio, che risale a ottobre, a dichiararsi pronti a rivotare Zelensky erano il 24,3%
degli ucraini. Un calo deciso, dunque. Eppure il «comandante in capo» dei quasi quattro anni di guerra resta al momento il candidato più popolare.
Anche perché al momento di chiari contendenti non ce ne sono. Solo indiscrezioni e speculazioni, su cui provano a misurare la temperatura i sondaggi. Ecco dunque che lo sfidante più accreditato sarebbe Valerii Zaluzhny, l’ex capo di stato maggiore dell’esercito rimosso dall’incarico da Zelensky a febbraio 2024 e inviato a Londra come ambasciatore.
Secondo molti anche per frenare su eventuali ambizioni politiche considerata la sua grande popolarità tra i soldati e non solo per aver guidato sul campo la brillante risposta all’aggressione russa. Per Zaluzhny, che sin qui non ha mai ufficializzato alcun progetto politico, voterebbe in ipotesi il 19,1% degli ucraini (+3% sul mese precedente).
E in eventuali elezioni parlamentari un solido 21,8% dice che voterebbe un eventuale partito guidato da Zaluzhny, mentre “Servitore del Popolo”, il partito di Zelensky scosso dalle inchieste per corruzione, raccoglierebbe appena l’11,5%.
Ricandidarsi o passare la mano? Il dilemma di Zelensky
L’altro possibile sfidante di Zelensky di cui si vocifera da tempo è Kyrylo Budanov, attuale capo dell’intelligence militare ucraina. Il sondaggio di Info Sapiens per il Kyiv Independent lo accredita per ora di un più modesto 5,1% di consensi.
D’altronde non è affatto detto che i possibili «sostituti» di Zelensky sarebbero più accomodanti verso Trump – men che meno verso il Cremlino – del leader di questi anni. Anzi. Ultima ma non ultima delle variabili da considerare, la scelta di
Zelensky stesso sul futuro. Davvero si ricandiderà se e quando arriverà davvero la convocazione delle elezioni anticipate? O stupirà tutti, di nuovo, chiamandosi fuori, per togliere a Trump (e Putin) argomenti con cui provare a inchiodare l’Ucraina a un accordo capestro e passare alla storia come l’«eroe di guerra»? Nessuno dimentica che a settembre, sempre per respingere pressioni asfissianti della Casa Bianca, il leader di Kiev disse di essere disponibile a non ricandidarsi dopo la fine della guerra, per il bene dell’Ucraina.
Ipotesi e congetture, mentre resta tutta da verificare la reale possibilità di prevedere elezioni in tempo di guerra incessante.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
L’EMERGENZA PER IL PONTE DELL’IMMACOLATA: POCHI OSS IN SERVIZIO E L’AFFIDAMENTO A UNA COOP ESTERNA
Il mito del San Raffaele, ospedale privato convenzionato d’eccellenza a Milano,
comincia a scricchiolare. E non per le dimissioni di Francesco Galli. Ma per quanto è accaduto nell’ultimo week end: «La situazione è estremamente pericolosa per i pazienti, ma anche per i medici», scrive. E ancora: «Abbiamo tamponato un po’ la situazione bloccando i nuovi ricoveri da Pronto soccorso, bisogna però preoccuparsi anche di chi è già ricoverato», è la mail di un medico in servizio tra sabato e domenica. Per poi concludere: «Di sicuro, così non si può andare avanti, è una situazione troppo pericolosa. Errori irrecuperabili sono dietro l’angolo».
Il San Raffaele
Queste riportate da Repubblica e Fatto sono solo alcune delle frasi nelle mail scambiate tra medici, primari e direzione sanitaria. Per lunedì 8 dicembre è stato convocato un consiglio di amministrazione del Gruppo San Donato. Subito dopo sono arrivate le dimissioni dell’amministratore unico. A decidere, il presidente del gruppo Angelino Alfano, i vicepresidenti Paolo Rotelli, Marco Rotelli e Kamel Ghribi, e i consiglieri Nicola Grigoletto e Augusta Iannini. Il problema più grosso è stato il ponte dell’Immacolta. Tre giorni in cui è stato difficile trovare personale non in ferie. Di qui la decisione di ricorrere agli infermieri di una cooperativa esterna.
La coop
E invece già alle 17.22 di sabato 6 dicembre è partita la prima mail: «Un infermiere del primo gruppo (letti 301.1-306) riferisce
di non aver mai fatto affiancamento in reparto e di essere al suo primo turno presso l’ospedale San Raffaele. Non sapeva dove fossero i farmaci, non risultava in grado di caricare gli esami ematici su Sap (il sistema interno, ndr), non in grado di gestire Niv (la ventilazione non invasiva, ndr), né terapia insulinica in continuo».
Prima viene chiamato un altro infermiere, poi si bloccano i ricoveri dal pronto soccorso. E ancora: «L’infermiera destinata ai letti di AR non sapeva i nomi dei farmaci prescritti, non comprende bene l’italiano». E: «La medesima infermiera commetteva errore di somministrazione di amiodarone 4fl in 250 SG5%, somministrandola a 200ml per ora anziché a 20ml (un’ora anziché 12 ore) per un paziente di Admission room».
L’infermiera
Sempre la stessa infermiera «attorno alle ore 5 si allontanava definitivamente dal reparto, senza più ripresentarsi». Ma non solo: il personale non era in grado di organizzare i carrelli dei farmaci, «quasi tutte le terapie della notte risultavano scadute» e «tutto il personale Oss non sapeva dove si trovasse l’emoteca per ritirare emoderivati urgenti».
Un disastro che ha scatenato la rabbia di pazienti: «Mia mamma è in una condizione delicatissima ed è stata completamente abbandonata, poteva anche morire», dice Samanta Olivieri al quotidiano. «Sabato sono arrivata qui e l’ho trovata senza alcun supporto, ossigeno compreso, ed era quasi giù dal letto, lei che non può muoversi da sola. Lunedì il culmine, sono arrivata alle 10.30 della mattina ed era in condizioni pietose, senza cure. Ho dovuto aspettare quasi tre ore prima che le iniettassero
l’antibiotico».
L’emergenza
Dal San Raffaele adesso assicurano che l’emergenza è rientrata. Fino a ieri sono stati reclutati professionisti interni da altri reparti — con incentivi da 600 euro per un turno diurno e mille per uno notturno — e da oggi saranno trasferiti in pianta stabile lavoratori finora impiegati altrove. Intanto i sindacati hanno presentato una denuncia alla polizia.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
CONFERMATA IN APPELLO LA CONDANNA A 4 ANNI PER EVASIONE FISCALE E AUTORICICLAGGIO
La Corte d’Appello di Milano ha confermato la condanna a quattro anni di reclusione per Irene Pivetti, ex presidente della Camera, imputata per evasione fiscale e autoriciclaggio. La decisione ribadisce integralmente il verdetto di primo grado e chiude un capitolo giudiziario che si trascina dal 2016, anno in cui, secondo l’accusa, sarebbero state messe in piedi una serie di operazioni commerciali dal valore complessivo di circa dieci milioni di euro.
Le tre Ferrari Granturismo
§Al centro del procedimento c’è la compravendita di tre Ferrari Granturismo, una triangolazione internazionale che, stando alle indagini coordinate dal pm Giovanni Tarzia e condotte dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza, avrebbe avuto la funzione di schermare e reimpiegare proventi frutto di illeciti fiscali. Le auto, formalmente destinate al mercato cinese, sarebbero state usate, secondo la ricostruzione, come strumento per movimentare denaro irregolare tra società riconducibili alla stessa Pivetti e altri coimputati.
La difesa di Pivetti
L’ex presidente della Camera ha sempre respinto le accuse, definendo l’inchiesta una «persecuzione» e rivendicando la correttezza dei propri adempimenti fiscali. La conferma della condanna in Appello rappresenta però un passaggio cruciale: qualora il verdetto diventasse definitivo, scatterebbero le
conseguenze penali e patrimoniali, inclusa la confisca delle somme già disposta in primo grado. Resta ora la possibilità del ricorso in Cassazione, ultimo livello per tentare di ribaltare la sentenza.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
LA POLITICA COME UN SET DI CINECITTA’
Succede tutto in pochi giorni, come se qualcuno avesse aperto il sipario. Mercoledì 3
dicembre ha attraversato i corridoi della Camera Simone Ruzzi, alias Cicalone, ex pugile, youtuber, “difensore” delle periferie romane, chiamato in audizione parlamentare davanti alla Commissione che indaga il degrado urbano.
«Come ha detto qui», ha detto orgoglioso presentandosi ai deputati dopo i ringraziamenti di rito. Dove «qui» sta per
Alessandro Battilocchio, presidente della Commissione, parlamentare di Forza Italia che lo aveva appena descritto come «esperto conoscitore delle periferie, un narratore delle periferie».
Quasi una scena cinematografica. Cicalone si è rivolto ai presenti senza cambiare tono rispetto ai suoi video su YouTube. Ha raccontato come ha affrontato fisicamente i borseggiatori della metro di Roma proponendo soluzioni. Deputati estasiati. Il Cinque stelle Antonia Iaria, dandogli del tu, non è riuscito a trattenersi: «Ti seguo dai primi video. Un veicolo di informazione molto importante». «Un lavoro meritorio di denuncia» per Marco Perissa di FdI che in romanesco lo ha accolto: «Buon pomeriggio, Simone. Va a finì che so io che non t’esprimo solidarietà. T’hanno dovuto menà, ma hai messo d’accordo tutti».
Sei giorni dopo, il 9 dicembre, la politica ha “cambiato canale”. La commissione Femminicidio ha convocato Stefano De Martino, ex ballerino, conduttore di TeleMeloni, per discutere di violenza di genere online. Il presentatore di Affari Tuoi ha attraversato il palazzo con i parlamentari che, di nascosto, gli chiedevano selfie.
Di Martino invitato non come esperto ma come vittima, dopo la pubblicazione online di un video intimo con la compagna Caroline Tronelli, rubato dalle immagini del sistema di video sorveglianza della loro casa, che ha portato la procura di Roma ad aprire un’inchiesta per revenge porn. Per i dati sensibili, la tutela dell’audito e la privacy, l’audizione rimarrà secretat
Intanto Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, si prepara a ospitare l’attore Roul Bova che, giovedì 11 dicembre, insieme ad Arianna Meloni parlerà di deepfake, reputazione digitale, odio sui social. Con lui Francesca Barra, Laura Bononcini, Fabio Ferrari e Valerio De Gioia. Attori, influencer, conduttori, creator. Tre fatti. Tutti legati in qualche alla contaminazione tra la politica e il mondo dello spettacolo. Un confine che Silvio Berlusconi, a ben vedere, aveva già superato negli anni Novanta.
In principio fu Berlusconi
Un processo che Massimiliano Panarari, sociologo politico e professore della comunicazione all’Università di Modena e Reggio Emilia, spiega così: «Possiamo prendere come alfa di questo processo Berlusconi, con lui la mediatizzazione diventa integrale. Pensiamo alla logica mediale tipica del medium dominante dell’epoca quella che Umberto Eco chiamava “la neo-televisione”. Lì si trasferisce la politica in una chiave di grande adesione, non solo medium come cassa di risonanza ma la politica adatta i suoi contenuti al medium che la veicola».
Il mondo è cambiato intanto: «Si è consumata la politica razionale della modernità. L’organizzazione politica è in crisi: del volontariato, dei militanti e il mercato elettorale più volatile». Così la politica si affida ai social e a protagonisti che producono like: «Raoul Bova per il gossip per via della separazione, Stefano De Martino popolarissimo su TeleMeloni ma anche sui social per la violazione che ha subito, queste figure che possono diventare dei testimonial, secondo una dinamica tipica della politica che punta a parassitare la celebrity altr
Alla ricerca delle emozioni
Ma non solo. In questo nuovo tempo la piattaforma è sovrana, l’uno vale uno. Da qui il tentativo di scardinare le strutture di partito, di ignorare le competenze: «Un elemento tipico nei tempi del neo-populismo: l’esperire quel processo di crisi degli esperti o anche di contestazione degli specialisti. L’essere una figura pubblica, oggetto di un consenso, giustifica e autorizza automaticamente a portare delle opinioni. Questa è una destra neo-populista che ha attaccato dall’opposizione il sistema di competenze come establishment per anni, promuovendo saperi alternativi».
«C’è poi un altro elemento» individua Panarari «l’essere vittime che diventa possibilità di esprimere opinione. Come nel caso di De Martino. C’è la dinamica dell’“emozionalizzazione”, cioè la trasformazione dall’opinione pubblica della modernità alla emozione pubblica della post modernità. Si è titolati, non a fornire pareri neutri in quanto tecnici, ma portare la propria esperienza di vita e poter coinvolgere emotivamente i destinatari». E così le Commissioni parlamentari diventano un po’ talk show, le feste di partito un po’ festival di inizio stagione, i politici un po’ conduttori e un po’ spettatori. Non è uno scandalo, non è una rivoluzione. È un linguaggio nuovo che entra dove prima non era previsto.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
NON SOSTENUTA DAGLI USA, VISTA CON SOSPETTO DAI LEADER EUROPEI, MELONI RAPPRESENTA L’IRRILEVANZA POLITICA
La diplomazia è anche un esercizio, spesso acrobatico, di equilibrismo. Ma è vero che la politica estera di un paese che sia media potenza deve essere improntata alla ricerca degli equilibri, di volta in volta preferibili, tenendo nel massimo conto le alleanze, gli impegni presi, le promesse fatte agli elettori e, non da ultimo, le posizioni ideali del proprio partito.
Fin dall’inizio della sua esperienza di governo, Giorgia Meloni ha dimostrato di avere consapevolezza del fascio di problemi che il suo esplicito, mai nascosto, sovranismo implicava nei rapporti con gli Stati-membri dell’Unione europea e con la Commissione, motore delle iniziative e attività.
Pur rimanendo con la testa fuori dalla maggioranza che ha espresso e sostiene la Commissione è spesso riuscita a mettere piede nelle decisioni che contano. Lo ha fatto ridefinendo, ridimensionando il suo sovranismo senza tagliare i ponti con i partiti populisti al governo in Ungheria e in Slovacchia o all’opposizione, in particolare in Spagna. Però, la risposta alle furibonde e maleducate critiche all’Ue formulate in un documento di strategia del National Security Council degli Usa e alla profezia, quasi un augurio di smembramento dell’Unione, non può essere quella di un delicato pontiere.
Quel ponte, già traballante, fra Usa e Unione, Trump e i suoi collaboratori lo hanno distrutto. Non casualmente e non per una infelice e cattiva scelta delle parole, ma perché da tempo nutrivano astio per la costruzione di una unione di Stati che, secondo loro, si facevano/fanno proteggere militarmente senza pagare il conto, in maniera furba e egoistica, non più accettabile
La presidente del Consiglio italiana non ha condiviso le risposte
severe e preoccupate dei maggiori leader europei. Ancora una volta il suo invito a cercare di capire il punto di vista di Trump è molto ambiguo, potendo essere interpretato come sostegno alla posizione del presidente appare come un indebolimento preventivo delle risposte che l’Unione riuscirà ad approntare e dare. Per di più la reazione di Meloni ha lo sguardo molto corto. Non vede che le elezioni americane di metà mandato nel novembre 2026 potrebbero già trasformare il presidente in carica, se i repubblicani perdessero la maggioranza in una o entrambe le Camere, in un’anatra zoppa, comunque già non rieleggibile nel 2028.
Non dovrebbe essere difficile neanche per i dirigenti politici che non sappiano ragionare sul lungo periodo, come fanno gli statisti, cogliere la volatilità della situazione. I molto eventuali vantaggi derivanti da un rapporto privilegiato con l‘attuale presidente dovrebbero essere valutati alla luce degli inconvenienti e delle critiche che causeranno nei rapporti con gli stati-membri dell’Unione europea. Quegli ipotetici vantaggi non contemplano affatto una crescita di prestigio per il governo Meloni e per la Nazione Italia, anzi sono vantaggi limitati, di breve periodo, effimeri. Da un momento all’altro possono rivelare la contraddizione congenita e insanabile del sovranismo.
Se ciascun governante antepone e impone il suo interesse nazionale, lo Stato più forte vincerà cosicché il sovranismo Maga è regolarmente destinato ad avere la meglio su qualsiasi concorrente solitario. Qui sta l’altra contraddizione del sovranismo che intenda sfruttare vantaggi dalla sua tanto orgogliosa quanto presunta autonomia. Non sostenuta dagli Usa vista con sospetto dalla maggioranza partitica e politica dell’Unione europea, Giorgia Meloni rischia l’irrilevanza politica per sé e per l’Italia. Indebolirebbe l’Ue in questa fase cruciale nella quale è indispensabile alzare il tiro decisionale e migliorare il coordinamento politico in senso federalista, l’esatto contrario di qualsivoglia sovranismo.
In una Unione indebolita anche l’Italia sarà inevitabilmente più debole sulla scena europea e mondiale, certamente meno sovrana
Bandiere, spiriti guerrieri e democrazie militarizzate
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
TRA I DELIRI DI TRUMP SULL’EUROPA E LA QUINTA COLONNA DI PUTIN NEL GOVERNO, GIORGIA MELONI PATTINA SUL GHIACCIO
Il cortocircuito si manifesta mentre Volodymyr Zelensky entra a Palazzo Chigi e in
contemporanea le agenzie segnalano l’ultima intervista di Donald Trump a Politico. Il presidente Usa paragona il leader di Kiev al P. T. Barnum, il re degli spettacoli da circo, un venditore di fumo ineguagliabile che «ha convinto il disonesto Joe Biden a dargli 350 miliardi di dollari» finiti in cenere, visto «che il 25 per cento del suo Paese è scomparso». Insomma, Zelensky come un piazzista e chi lo ha ascoltato (e lo ascolta) come un illuso o peggio il complice di una guerra inutile. E tuttavia mai come adesso Meloni e il presidente ucraino avevano bisogno di una pubblica stretta di mano. Zelensky deve tenere Meloni nel fronte degli alleati europei, gli serve che faccia massa critica anche perché è consapevole che Washington la giudica un’amica.
Per Meloni è importante ribadire un ruolo di primo piano, ma anche confermare la vicinanza a Kiev nonostante gli evidenti problemi di questa fase. Le serve per motivi internazionali, per mantenere un ruolo nella frenetica azione diplomatica dell’Unione, ma soprattutto per rilucidare un valore che nelle ultime settimane è apparso un po’ appannato: la coerenza, elemento fondante del racconto della destra di governo.
Mai come adesso quel valore e quel racconto appaiono a rischio, perché lacerati da due scelte entrate all’improvviso in conflitto: l’amicizia assoluta con l’America e il sostegno alla resistenza di Kiev. Per tutta la presidenza Biden le due linee di condotta sono andate di pari passo, l’una ha generato e rafforzato l’altra. Essere amici di Kiev, dare armi a Kiev, sanzionare la Russia, denunciarne i crimini di guerra, equivaleva a ribadire ogni giorno la relazione speciale con gli Usa. Oggi lo schema è rovesciato. Armare, nutrire, sostenere l’Ucraina nella ricerca di una pace giusta significa scontentare la Casa Bianca, al punto
che la premier si è tenuta lontana da ogni giudizio sulla revisione europea del piano del presidente Trump, che ha tagliato i capitoli più palesemente punitivi per l’Ucraina. Come reagirà Trump alla controproposta? Nel dubbio, meglio prendere tempo.
Il problema è anche interno, perché Matteo Salvini stavolta potrebbe fare sul serio. La pubblicazione della nuova strategia di Sicurezza messa a punto da Washington lo ha ringalluzzito. Le critiche degli Usa all’Europa, la pioggia di dichiarazioni contro i suoi leader deboli e irresoluti, la dichiarata intenzione di sostenere i partiti sovranisti del Vecchio Continente e gli entusiasti applausi di Mosca al cambio di passo hanno riacceso le aspirazioni leaderistiche del Capitano. Proporsi come il Viktor Orban italiano, rispolverare il sovranismo muscolare dei bei tempi, presentarsi come l’uomo che, in virtù delle sue antiche relazioni, meglio può interpretare l’avvicinamento Usa alle istanze russe. Un’occasione fantastica per lui, un guaio di prima grandezza per il governo.
Così, le dichiarazioni assai sorvegliate del dopo-vertice confermano la sensazione che la premier italiana stia pattinando sul ghiaccio, esercizio nel quale peraltro è campionessa. Il presidente ucraino ringrazia per il «ruolo attivo dell’Italia nel processo di pace», esprime «gratitudine per il pacchetto di assistenza energetica», esalta il sostegno «alle famiglie ucraine, al nostro popolo, ai bambini», e insomma: nessun cenno ai temi-tabù, alle armi, alle speranze di una svolta per l’utilizzo dei 210 miliardi di beni russi bloccati dall’Europa. Sono argomenti che il governo italiano non può affrontare, non in questo momento. E anche la correzione del piano di pace americano è rimasta appesa
a una frase alquanto generica: Meloni, dice Zelensky, è stata informata, «coordiniamo gli sforzi», ma niente di più.
La giornata del cortocircuito, così, si conclude con un flash della premier che ribadisce l’importanza «dell’unità di vedute tra i partner di Usa ed Europa». È la formula che definiva l’Occidente di una volta, bene-rifugio di una destra che spera ancora di poter restare in equilibrio tra due Continenti sempre più lontani.
Può durare ancora un po’, ma entro dicembre si dovrà definire il decreto Ucraina (quello sulle forniture militari), e in tempi brevi decidere se utilizzare il pacchetto di 14 miliardi del pacchetto europeo Safe, e prima o poi si dovrà pur dare un giudizio sulla veemenza antieuropea dell’amministrazione Usa (siamo d’accordo o no? ), sull’esistenza di una guerra ibrida russa contro l’Unione (ci crediamo o no? ), sulla difesa comune dei Ventisette (la vogliamo costruire o no?). Restare in mezzo al guado diventa ogni giorno più difficile, e forse anche rischioso per il castello di relazioni e credibilità messo insieme con tanta fatica.
(da La Stampa)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
DIFENDERE LA DEMOCRAZIA NON E’ UN IMPICCIO IDEOLOGICO SULLA STRADA DELLA PACE,,, OGGI SOLO LA COMUNE DIFESA EUROPEA PUO’ AFFRANCARCI DALL’IMPERIALISMI USA E RUSSO
Sei per la pace o sei per la libertà? In un continente che, negli ultimi ottant’anni, ha avuto entrambe, ha goduto di entrambe, la domanda sembra abbastanza bizzarra. Penalizzante, oltre che illogica: da quando pace e libertà sono alternative l’una all’altra? Perché mai dovrei scegliere? Me le tengo tutte e due.
Eppure, con le dovute sfumature intermedie, è proprio questa la domanda che paralizza, soprattutto in Italia, il “che fare” riguardo al futuro dell’Europa: come se difendere la democrazia, con le sue garanzie, fosse un impiccio ideologico sulla strada della pace, e lavorare per la pace, con i suoi compromessi, fosse un cedimento alla doppia e incombente minaccia autocratica che, da Est e da Ovest, dichiara inimicizia e disprezzo per l’Unione.
Quella domanda è ricattatoria. Sottintende che rispondere “libertà” voglia dire alimentare la guerra quasi per un capriccio ideologico, e rispondere “pace” significhi rivelarsi imbelli e svendere al nemico, insieme alle porzioni di Ucraina già addentate, anche la democrazia.
Ma il fatto che il campo progressista italiano (o come lo vogliamo chiamare), da quando l’elezione di Trump e i suoi successivi atti politici hanno reso lampante, tranne che ai più ottusi e ai più illusi, la fine dell’atlantismo, non sia in grado di fare dell’Europa e dell’europeismo una bandiera comune; non sia in grado di dire che pace e libertà sono entrambe condizioni costitutive del progetto europeo; non sia in grado di convocare una piazza unitaria; non sia in grado di dire quattro parole in croce che, a nome di tutti, stabiliscano che il sovra-nazionalismo europeista è per sua natura l’alternativa democratica al nazionalismo russo, al nazionalismo americano e al nazionalismo dei sovranisti europei: dimostra che quel ricatto, almeno fino a qui, funziona. È insuperato. Irrisolto.
Con l’aggravante, micidiale, che è un ricatto auto-generato dall’opposizione stessa. Nessuno come la sinistra è in grado di sconfiggere la sinistra.
E dire che il dilemma tra riarmo e disarmo è una trappola ideologica da rifiutare ab ovo: l’Europa è già armata fino ai denti, in quella sproporzionata, abnorme quantità distruttiva che è conseguenza del duello atomico tra americani e russi e della Guerra Fredda; ma lo è con armi non sue, irta di missili in massima parte non suoi.
Lo è in quanto, militarmente parlando, ex territorio d’oltremare degli Stati Uniti d’America. Beh, non è più così, e anzi è stato così ben oltre il necessario, fuori tempo massimo, nel senso che appare perfino comprensibile che l’America, ottant’anni dopo la Seconda Guerra e trentacinque dopo la caduta del Muro, non voglia più pagare l’ombrello atomico per noi europei.
Mettersi nei panni degli altri è sempre la più difficile delle operazioni: ma voi paghereste per generazioni la tranquillità e la sicurezza di altri popoli?
Quanto tempo deve ancora passare prima che non solamente i governanti europei, anche le forze politiche e le opinioni pubbliche dei diversi Paesi ne prendano atto e comincino a discutere seriamente, operativamente sul da farsi?
Perché, per esempio, i nipotini di quelli che volevano buttare a mare le basi americane non capiscono che questo, finalmente, è il momento, e che per farlo non serve “riarmo”, serve una difesa comune che sarebbe, probabilmente, meno costosa di quanto i singoli Stati già spendono oggi, adesso, ora, secondo la regola del massimo sforzo e minimo rendimento?
Al governo siedono tre partiti che, sulla politica internazionale, sono ben più divisi di quelli all’opposizione. Grosso modo: un terzo (Meloni e i suoi) è con Trump, un terzo (Salvini e i suoi) con Putin, solo un terzo, Forza Italia, si professa europeista.
Ma il potere, evidentemente, è un collante formidabile, e la destra non sembra versata per l’introspezione. Si accontenta di vivere e possibilmente di comandare. Ed ecco il miracolo di un campo governativo che in caso di guerra non saprebbe che pesci pigliare, ma si guarda bene dal dirlo, perché dicendolo si dissolverebbe in un lampo, Salvini con il colbacco, Meloni con il cappello da cowboy e Tajani che bussa a Strasburgo sperando che gli aprano; e un’opposizione che anche tacendo resta divisa su un tema, quello del futuro europeo, che è con tutta probabilità il più importante non solo per le nuove generazioni, anche per quelle oggi sulla scena. Noi, insomma.
Parecchi lettori e anche qualche esponente politico mi ha scritto, in queste ore: perché non proviamo a replicare la manifestazione europeista del 15 marzo scorso a Roma, nella quale pace e
libertà erano fianco a fianco, e fu un successo nonostante la sua composizione molto plurale (o forse: proprio per la sua composizione molto plurale, da Calenda a Fratoianni)?
La risposta è semplice: perché tocca alla politica, oggi più di ieri, organizzarla. Come fu evidente allora, e ancora più evidente oggi, l’opinione pubblica europeista esiste, esistono gli europei (che sono un passo avanti rispetto agli europeisti: sono l’applicazione pratica dell’idea di Europa Unita). Ma la loro rappresentanza politica, a livello di massa (il solo che conta, che pesa, che cambia il corso delle cose) non è ancora riuscita a mettere insieme pace e libertà in modo che siano la stessa speranza e lo stesso progetto.
(da La Repubblica)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
PER CHI VOTEREBBERO GLI ASTENUTI, SE FOSSERO COSTRETTI AD ANDARE ALLE URNE? IL 37,8% DAREBBE LA PREFERENZA AL CENTRODESTRA, IL 46,1% SI BUTTEREBBE SUL CENTROSINISTRA, IL 6% SU “AZIONE” DI CALENDA… RIPORTARE AI SEGGI DISILLUSI E SCONTENTI, POTREBBE PERMETTERE AL “CAMPO LARGO” DI VINCERE LE PROSSIME POLITICHE
I sondaggisti lo sanno bene, il loro perenne cruccio è la presenza di intervistati che non
rispondono oppure che sono indecisi; se poi l’indagine demoscopica riguarda il comportamento di voto, a queste due categorie si aggiungono i sedicenti astensionisti, per complicare le loro stime dei risultati più probabili.
La quota di indecisi e di non rispondenti, è evidente, non permette di presentare le dichiarazioni di chi è disposto ad
esprimere la propria idea come sufficientemente rappresentative della totalità della popolazione di riferimento. Per il semplice motivo che non è dato sapere cosa pensano o cosa farà realmente chi se ne sta zitto.
Facciamo un esempio semplicissimo: se interrogo gli italiani sul prossimo referendum sulla giustizia e mi risponde solo il 60% degli intervistati dichiarando che voteranno 55 a 45 per il Sì, come posso sapere quanto questo risultato sia attendibile? Cosa farà il resto degli italiani? Potrebbe votare in maggioranza per il No e ribaltare completamente il risultato, oppure votare Sì confermandone la vittoria, oppure ancora astenersi del tutto e lasciare il risultato così com’è.
Il dubbio ovviamente resta. E questo dubbio diventa sempre più grande tanto più grande sarà la percentuale degli intervistati che si dichiara incerto o che non vuole rispondere.
Il caso del comportamento di voto politico è ancora più chiaro. Siamo come tutti sanno in un’epoca di problematica partecipazione elettorale; l’astensionismo ha raggiunto vertici mai visti; nell’ultima consultazione del 2022 è andato a votare solamente il 64% degli elettori; in tutti i sondaggi odierni è evidente l’incapacità di una quota elevata di intervistati di fare una scelta decisa; la cosiddetta “area grigia” (la somma cioè di chi non vuole votare, di chi si rifiuta di rispondere e di chi si dichiara indeciso) arriva spesso sopra al 40%, sfiorando a volte il 45% del campione di italiani.
Ora, le preferenze di voto del 55-60% che dichiara qualcosa vedono, come noto, il centro-destra avanti di qualche punto percentuale, grazie soprattutto a Fratelli d’Italia che sfiora il 30%
dei consensi, seguito dal Partito Democratico intorno al 21-22% e via via da tutte le altre forze politiche. C’è dunque anche in questo caso un piccolo grande punto interrogativo: cosa farà quella quota di elettori che si dichiarano indecisi? La loro scelta finale potrebbe ribaltare o confermare le scelte di coloro che hanno dichiarato le proprie preferenze.
In alcune indagini si chiede anche, a quel piccolo popolo di indecisi (stimabile intorno al 10-15% della popolazione), quale partito è più probabile che voterebbero, nel caso uscissero dall’indecisione. E le loro risposte ci forniscono un quadro previsionale che cambia in qualche modo quello oggi esistente. Gli indecisi, infatti, hanno in generale una prevalenza di voto vicina ai partiti dell’opposizione rispetto a quelli di governo, facendo avvicinare il divario oggi esistente tra le due potenziali coalizioni, se non addirittura permettendo all’area progressista di superare quella di attuale maggioranza parlamentare.
Uno scenario che vedrebbe dunque una possibile vittoria, sebbene “di corto muso”, della coalizione di centro-sinistra rispetto a quella di centro-destra. Con una ovvia postilla: che quegli attuali indecisi non decidessero alla fine di disertare le urne pure loro.
(da agenzie)
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Dicembre 10th, 2025 Riccardo Fucile
UN DATO CHE RADDOPPIA QUELLE DELL’ANNO PRECEDENTE
Nel corso del 2025 la mappa giudiziaria italiana è stata attraversata da un’intensa sequenza di inchieste per corruzione, che tocca numeri da record. Tra il 1° gennaio e il 1° dicembre sono state registrate 96 nuove indagini per corruzione e concussione – in media otto al mese – con un totale di 1.028
persone indagate. Un dato che quasi raddoppia quello dell’anno precedente, quando le indagini erano 48 e gli indagati 588. A fotografare questa crescita è Italia sotto mazzetta, il dossier diffuso da Libera in occasione della Giornata internazionale per la lotta alla corruzione del 9 dicembre. L’analisi delinea una corruzione ormai sistemica e strutturata, inserita in meccanismi stabili, che finisce per minare la fiducia nelle istituzioni, degradare la qualità della democrazia e dei servizi pubblici e favorire una pericolosa assuefazione sociale al fenomeno.
L’associazione fondata da don Luigi Ciotti ha censito le inchieste sulla corruzione dal primo gennaio al primo dicembre 2025, basandosi sulle notizie di stampa. Il quadro restituisce l’estensione e la pervasività della corruzione in Italia, un fenomeno che nel 2025 emerge con continuità su tutto il territorio nazionale. Da Torino a Milano, da Bari a Palermo, da Genova a Roma, passando per numerosi centri di provincia come Latina, Prato e Avellino, fino ad aree del Salernitano, l’anno è stato segnato da un susseguirsi di inchieste per mazzette che hanno coinvolto circa mille tra amministratori, politici, funzionari pubblici, manager, imprenditori, professionisti e soggetti legati alla criminalità organizzata. Sono ben 53 i politici indagati (sindaci, consiglieri regionali, comunale, assessori) pari al 5,5% del totale delle persone indagate. Di questi 24 sono sindaci, quasi la metà. Il maggior numero di politici indagati riguarda la Campania e Puglia con 13 politici, seguita da Sicilia con 8 e Lombardia con 6. Il report evidenzia una distribuzione geografica non omogenea: il Sud e le isole risultano le aree più coinvolte. Di tutte le inchieste del 2025, 48 riguardano regioni
meridionali o insulari, contro 25 del Centro e 23 del Nord. La “maglia nera” spetta alla Campania, con ben 219 indagati, seguita da Calabria (141) e Puglia (110). Tra le regioni del Nord, la prima per numero di indagati è la Liguria con 82, seguita dal Piemonte con 80. Si tratta di una istantanea che smentisce la narrazione di una corruzione confinata a poche “zone calde”: la mappa coinvolge l’intero Paese, dalle periferie del Sud ai borghi del Nord, con una forte presenza di territori del Mezzogiorno in cima alla classifica.
Nel commentare i dati, Libera sottolinea come le inchieste di quest’anno fotografino una corruzione che non è più soltanto episodica o marginale, ma sembra animata da logiche consolidate. Ne emerge una “corruzione regolata”, spesso sistemica, organizzata in rete, con ruoli riconoscibili: dirigenti pubblici, imprenditori, faccendieri, talvolta con collegamenti alla criminalità organizzata. Le aree di intervento suggeriscono quanto il fenomeno tocchi la qualità della vita quotidiana: le mazzette servono a ottenere appalti sanitari, licenze, concessioni edilizie, servizi pubblici o vantaggi per la cittadinanza. Da segnalare anche la presenza del reato di voto di scambio politico-mafioso, concorsi pubblici e universitari truccati, tangenti per certificati di morte o residenze false: segni di un sistema che normalizza l’illegalità come strada per accedere a risorse, diritti o servizi.
Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si sofferma Libera: «Oggi il ricorso alla corruzione sembra diventare sempre più una componente “normale” e accettabile della carriera politica e imprenditoriale». Il processo di progressiva normalizzazionefinisce per rendere la corruzione socialmente tollerata, percepita come un elemento ordinario e quasi inevitabile, alimentando rassegnazione e indifferenza. Questo terreno culturale, avverte l’associazione, rischia di consolidarsi in un sistema di potere sempre più irresponsabile, fondato su relazioni opache, conflitti di interesse tollerati e regole piegate agli interessi di pochi. La risposta non può limitarsi all’azione giudiziaria o all’inasprimento delle pene, ma deve puntare su un rafforzamento reale dei presidi anticorruzione, oggi indeboliti, e su un rinnovato patto tra istituzioni e cittadinanza. Il percorso è «lungo» osserva Francesca Rispoli, copresidente nazionale di Libera, «ma necessario» per riaffermare integrità, trasparenza e giustizia sociale come basi dell’interesse pubblico.
(da agenzie)
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