Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
PER RECUPERARE LE COPERTURE CHE SALTERANNO, SARÀ NECESSARIO UN DECRETO LEGGE, DA APPROVARE IN CONSIGLIO DEI MINISTRI ENTRO FINE ANNO… IL PASTICCIO SULLA PREVIDENZA VEDE COINVOLTI GIORGETTI, LA SUA FEDELISSIMA DARIA PERROTTA, RAGIONIERA GENERALE DELLO STATO, E GIORGIA MELONI, CHE DI CERTO NON POTEVA ESSERE ALL’OSCURO DEL CONTENUTO DEL MAXI-EMENDAMENTO
Senato, piano ammezzato. Alle undici di sera, Massimiliano Romeo si infila negli uffici della commissione Bilancio. Il capogruppo della Lega chiama Giancarlo Giorgetti. Sbotta: “O togli le norme sulle pensioni dall’emendamento o noi ce andiamo a casa”. Non a dormire. Fuori dal governo. È il momento di massima tensione tra i leghisti e il “loro” ministro dell’Economia.
Dietro l’aut-aut di Romeo c’è Matteo Salvini. È lui a guidare i suoi nell’assalto al titolare del Tesoro nella notte in cui la manovra viene stravolta per espellere dal testo le misure sulla previdenza che non sono andate giù al Carroccio.
Lo stralcio della stretta sul riscatto della laurea e sulle finestre mobili per l’uscita anticipata parte proprio dall’arrembaggio di Romeo, che prima di chiamare Giorgetti si consulta proprio con Salvini.
Ecco la sconfessione del ministro. Colpevole, per i compagni di partito, di “aver fatto un pasticcio”, come Claudio Borghi spiffera al collega senatore Giorgio Bergesio
Una telefonata nervosa. Fonti leghiste raccontano che il ministro ha provato a spiegare, ancora una volta, il senso delle misure. Grosso modo così: l’allungamento delle finestre si può modificare in qualsiasi momento, prima che entri in vigore. Ma la traccia delle clausole di salvaguardia, messe a punto al Mef per tenere in equilibrio il sistema previdenziale, non ha convinto i “pasdaran” di via Bellerio.
La chiamata a Giorgetti dura un paio di minuti. La voce del ministro si farà sentire in vivavoce, appena dopo, nella stanza in cui sono riuniti il sottosegretario all’Economia Federico Freni, e il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani. In collegamento c’è anche la Ragioniera Daria Perrotta.
Parte da qui il contatto con Palazzo Chigi. Il terminale è Gaetano Caputi, il capo di gabinetto di Giorgia Meloni. La sintesi, invece, è affidata al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano.
L’unica soluzione è lo scorporo delle norme incriminate. Ma toglierle significa sottrarre una parte delle coperture che tengono in piedi il maxi-emendamento voluto dall’esecutivo per aiutare le imprese. Dentro ci sono anche le risorse promesse alle aziende, un risarcimento per i sostegni, dal credito d’imposta per la Zes a Transizione 4.0, che si sono scoperti insufficienti rispetto alle richieste. Non solo. Il testo contiene anche 1 miliardo di misure in capo al Mit di Salvini, dal Piano casa alla mobilità, oltre alla rimodulazione dei fondi per il Ponte sullo Stretto.
Da qui la decisione di un decreto legge in corsa, da approvare in
Consiglio dei ministri entro la fine dell’anno, per recuperare tutto quello che non può restare più nella legge di bilancio.
In questo modo – è il ragionamento – tutti i sostegni alle imprese saranno salvaguardati e diventeranno operativi dal primo gennaio, come promesso.
Il calendario dei lavori della Camera, dove la Finanziaria traslocherà appena incassato l’ok di Palazzo Madama, segna il 30 dicembre come il giorno del via libera definitivo. A poche ore dall’onta dell’esercizio provvisorio. Ecco il frutto velenoso caduto dall’albero del governo.
(da agenzie)
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Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
IL CAPOGRUPPO GALEAZZO BIGNAMI PRENDE PER LE ORECCHIE ELISABETTA GARDINI, CHE AVEVA PRESENTATO LA LEGGE: “È TASSATIVO IL MIO OK PER LE PROPOSTE” , IL TENTATIVO È FAR CREDERE CHE SI SIA TRATTATO DI UNA MOSSA SOLITARIA DELL’EX ATTRICE
Dopo le pensioni, la maggioranza inciampa sui condomìni. Non si è ancora spenta
l’eco del contestato emendamento del governo con la doppia stretta sulle pensioni e la successiva parziale retromarcia, che scoppia la polemica sulla proposta di legge presentata alla Camera da Fdi, prima firmataria Elisabetta Gardini.
Di primo mattino suonano i tamburi di guerra della Lega. Con bocciatura perentoria in una nota: «La riforma bis del condominio, così come ipotizzato dalla proposta di legge 2692, presenta evidenti criticità e non è condivisa dalla Lega». A seguire il segretario del Carroccio Matteo Salvini rilancia: «Niente nuova burocrazia per i condomìni e per gli inquilini che adempiono al loro dovere».
Per la Lega «prima di introdurre nuovi obblighi bisogna ascoltare le categorie interessate e intervenire con strumenti efficaci contro l’insolvenza e a tutela dei proprietari onesti, non aggravando ulteriormente i bilanci familiari».
La pressione diventa così alta nella maggioranza, su un tema “sacro” nel centrodestra come quello della casa, che deve intervenire il capogruppo di Fratelli d’Italia a Montecitorio, Galeazzo Bignami. Il disegno di legge Gardini viene derubricato a «proposta che, come molte altre, è in discussione alla Camera e che ha la finalità di tutelare i proprietari e i condomini onesti da gestioni non corrette, problema assai diffuso che coinvolge molti cittadini».
Ma «trattandosi di una proposta è indispensabile un confronto tra tutti i soggetti interessati in grado di costruire una posizione di buon senso a tutela della casa degli italiani, senza la quale Fratelli d’Italia ritiene che non potrà proseguire il suo iter». Se non è una bocciatura, è per lo meno uno stop.
«Aspettiamo che si posi la polvere della tempesta, poi dopo le feste torniamo a discuterne serenamente», è il ragionamento diffuso tra i firmatari. Mentre Forza Italia annuncia per gennaio un suo testo di riforma all’insegna di «meno burocrazia, regole certe e moderne, amministrazioni più efficienti e responsabili».
Gardini deve aver pensato che bisognava mettere i conti in ordine nei palazzi d’Italia, e che si doveva farlo subito, rischio il crollo del Prodotto interno lordo. Ed ecco perché secondo la proposta di legge a sua prima firma i condòmini che pagavano i conti regolarmente avrebbero dovuto quotarsi per riparare i buchi economici lasciati dai vicini di pianerottolo.
La normativa è rapidamente stata cambiata. La deputata di Fratelli d’Italia probabilmente ha abbandonato la calcolatrice. Da quando è tornata in Parlamento è la prima volta che un suo provvedimento fa tanto clamore. Vent’anni fa non era stata una norma, già alla Camera nella sua nuova vita dopo i successi in tv, a far parlare tanto di lei, ma un episodio dentro al bagno di Montecitorio.
Era il 2006. In quella legislatura sugli scranni della Camera era arrivata Wladimir Luxuria che i registri avevano segnato con il suo nome all’anagrafe, Wladimiro Guadagno, ma che nella sua comunità era nota con il suo nome d’arte (e di elezione): Luxuria. Oggi, vent’anni dopo, Luxuria fa programmi insieme a Francesco Storace, ma all’epoca il suo essere una donna trans non era ancora così tanto gradito ed Elisabetta Gardini non voleva accettare proprio niente di lei.
Quell’incontro-scontro in bagno fece il giro di tutti i media, all’epoca. Pochi minuti appena, all’esterno della toilette delle donne della Camera. Gardini all’epoca era deputata di Forza Italia, uscì da quel bagno inorridita dalla presenza di quella donna trans che — come lei stessa ha detto e ripetuto tante volte — non ha mai voluto completare il suo ciclo di transizione.
Luxuria non reagì, in quel bagno. Intervistata si limitò a commentare: «È evidente: donna si nasce, signora si diventa».
In quella legislatura Elisabetta Gardini era reduce da una carriera televisiva durante la quale non aveva esitato a mettere in mostra la sua bellezza oggettiva e conturbante. Arrivata a Montecitorio, però, era una donna molto diversa. «Percepisco Satana tra le menzogne che sento e gli stili di vita indigesti che sono ostentati». Deve aver pensato lo stesso sui condòmini morosi.
(da agenzie)
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Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
AL CONSIGLIO EUROPEO I VARI PAESI HANNO CONTINUATO A BATTIBECCARSI PER FINIRE NELLE MANI DEL G3 (STATI UNITI, CINA E RUSSIA), CON IL VECCHIO CONTINENTE COME UNA COLONIA.. E IL GOVERNO ITALIANO NON SA CHE PESCI PIGLIARE E SI GUARDA ATTORNO SPAURITO PER ANNUSARE L’ARIA CHE TIRA, AL SOLITO INDECISO TRA FEDELTÀ ATLANTICA E FEDELTÀ URALICA
Ora che la diplomazia si è messa in moto, pure troppo, e sta dimostrando tutta la sua plastica impotenza, con summit che si susseguono a ogni longitudine, annunci di progressi che non si concretizzano, ripartenze, colloqui a due a tre a quattro ma senza mai che ci siano coloro che possono decidere, ora che succede tutto questo, dunque, l’Europa avrebbe l’obbligo di chiedersi chi è, cosa vuole rappresentare, quanto vuole contare.
Del resto si è spesso detto in questi anni di conflitto in Ucraina che “qui si fa l’Europa o si muore”. Il presupposto aveva nel sottofondo un pensiero positivo. Anche in passato i (pochi) passi fatti verso l’integrazione del Vecchio Continente, erano stati spinti da situazioni emergenziali.
Davanti alla sfida della guerra e delle minacce alle porte, erano la politica di difesa e quella estera le indiziate di un’accelerazione sulla via della cessione di quote di sovranità in nome di un progetto ambizioso che evitasse la retrocessione nell’irrilevanza.
Niente è successo nonostante i proclami, niente continua a succedere e la cartina di tornasole di una perniciosa frammentazione è emersa con chiarezza al Consiglio europeo. Dove i vari paesi hanno continuato a battibeccarsi come i polli di
Renzo, mentre la storia cammina spedita per finire nelle mani del G3 (Stati Uniti, Cina e Russia) che si propone come dominatore del secolo ventunesimo.
Il Vecchio Continente, un vassallo di qualcuno se non una colonia. Un briciolo di tempo per cambiare la geometria da triangolo a quadrato di potenze ci sarebbe ancora. Non se ne vede la volontà.
L’Europa è spaccata tra Stati, ed è spaccata all’interno degli Stati che a forza di coltivare dei supposti piccoli interessi di bottega, finiscono per scordare il quadro generale che imporrebbe ben altra postura.
Così mentre la Russia annuncia che i missili supersonici Oreshnik sono stati schierati in Bielorussia, mentre rulli di tamburi e fanfare di battaglia accompagnano la volontà di continuare il conflitto per raggiungere gli scopi dell’ “operazione militare speciale” se questi non verranno riconosciuti da una trattativa di pace, a Bruxelles incoscientemente si balla sul Titanic.
Donald Tusk ammonisce che c’è da scegliere tra i soldi (dei beni congelati alla Russia) oggi «o il sangue domani», manca poco che l’ineffabile Viktor Orbán gli dia del cretino: si limita a definire stupida la proposta.
Salvini si traveste da spalla di supporto all’amicone ungherese e bolla come inqualificabili le parole di Tusk. Il governo italiano nella sua totalità non sa che pesci pigliare e si guarda attorno spaurito per annusare l’aria che tira, al solito indeciso tra fedeltà atlantica e fedeltà uralica, mentre Merz si dice pronto a usare il
patrimonio della Banca centrale russa immobilizzato in Germania. Tutti in ordine sparso, l’unanimità è un sogno che si tramuta, al solito, in un incubo.
Da chiedersi, alfine, se non sarebbe l’ora di spezzare questo incantesimo che tutto tiene bloccato, finirla con il giorno della marmotta e decidere di rompere il tabù del consenso di tutti per andare avanti decisi con chi ci sta a una maggiore integrazione della difesa e della politica estera.
Varando infine un’Europa a due velocità nella quale un satrapo locale non possa paralizzare un intero Continente. Questo non è il tempo dei signori Tentenna, questo è il tempo delle scelte.
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Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
L’ACCORDO SUL PRESTITO DA 90 MILIARDI ALL’UCRAINA È UNA SOLUZIONE A METÀ: QUEI SOLDI BASTANO A KIEV PER EVITARE IL DEFAULT, MA NON SONO SUFFICIENTI A GARANTIRE UNA PROSPETTIVA DI DUE ANNI ALLA RESISTENZA ANTI-RUSSA DELL’UCRAINA, IL MANCATO UTILIZZO DEGLI ASSET RUSSI È UN SEGNALE DI DEBOLEZZA
Alla fine è stata la Germania a fare un passo indietro, per permettere una soluzione
per sostenere finanziariamente l’Ucraina anche nel 2026. Italia e Francia, sostanzialmente schierati con il Belgio, hanno mantenuto fino in fondo la loro sostanziale contrarietà all’uso delle riserve congelate russe. La Germania invece ha ritirato la propria all’idea di un debito comune europeo da 90 miliardi di euro, garantiti dal bilancio europeo, che verranno «prestati» all’Ucraina.
L’intesa è che l’Ucraina debba rimborsare solo se la Russia accetterà di pagarle riparazioni per i danni, le uccisioni di civili e le distruzioni di guerra.
Se la Russia non pagherà le riparazioni (come molto probabile), l’Ucraina non dovrà rimborsare l’Unione europea e il debito comune europeo sarà coperto con lo spazio che resta nel bilancio di Bruxelles.
I fondi che saranno stanziati, 90 miliardi di euro, sono sufficienti a sbloccare l’impasse finanziaria del governo di Kiev, che con marzo avrà del tutto esaurito le sue risorse. Non sono sufficienti, tuttavia, a dare all’Ucraina la visibilità a due anni che lo sblocco delle riserve russe fra 140 e 210 miliardi di euro avrebbe consentito. Solo il costo delle operazioni militari per Kiev supera ampiamente i 50 miliardi di euro all’anno e più ci sono spese civili.
Dunque ora l’Ucraina avrà delle risorse, ma viene meno uno degli obiettivi dell’operazione: dare al Cremlino il segnale che Kiev avrebbe potuto riarmarsi e resistere a lungo, per almeno altri due anni; questo avrebbe potuto generare una deterrenza e creare più dubbi nelle élite di Mosca sulla sostenibilità del progetto di guerra di Vladimir Putin.
1. Cosa sono le riserve russe congelate?
La banca centrale russa, come molte banche centrali di Paesi emergenti, negli anni ha riciclato i suoi surplus da export di petrolio, gas e altre risorse naturali in valuta di riserva (la stessa in cui la Russia era pagata per il suo export).
Ciò ha comportato che da Mosca si sia investito centinaia di miliardi in euro dollari e, in misura minore, yen giapponese e sterline britanniche attraverso titoli pubblici dei Paesi emittenti quelle monete.
Questo denaro era detenuto in gran parte presso grandi banche commerciali in quegli stessi Paesi (nel caso degli investimenti in euro, in gran parte in Austria, Francia e Germania).
Dopo la prima ondata di sanzioni scattata con l’annessione della Crimea nel 2014, Mosca aveva fortemente ridotto la quota delle proprie riserve in dollari custodite negli Stati Uniti a una somma fra circa 10 miliardi di dollari.
Nel 2022, all’inizio dell’aggressione totale all’Ucraina, le quote detenute nell’Unione europea valevano circa 210 miliardi di euro, quelle in Giappone (in yen) e in Gran Bretagna (sterline) circa 20 miliardi di dollari ciascuna.
In quel momento i Paesi del G7 e dell’Unione europea presero una decisione nella quale l’Italia ebbe un peso fondamentale, grazie al ruolo dell’allora premier Mario Draghi: congelarono le riserve sovrane russe; queste restavano di proprietà della banca centrale di Mosca, tuttavia essa non ne aveva più disponibilità. L’obiettivo era di ridurre le risorse a disposizione della Russia per portare avanti la guerra.
2. Cos’è e cosa c’entra Euroclear nella partita delle riserve?
Euroclear è una piattaforma finanziaria europea con base a Bruxelles (che vede fra i suoi primi azionisti anche la banca centrale cinese, attraverso un veicolo finanziario collocato alle Isole Vergini britanniche) che svolge una funzione poco visibile, ma vitale: gestisce i depositi e i regolamenti, cioè i flussi di pagamenti e le consegne, nel mercato europeo delle obbligazioni.
In sostanza, quando un bond arriva a scadenza è presso Euroclear che l’ente debitore versa la liquidità al soggetto creditore. È un mercato immenso, da 400 mila miliardi di euro all’anno. E quando i bond europei di proprietà della Russia sono arrivati a scadenza i Paesi debitori hanno versato il rimborso presso Euroclear, come sempre in questi casi.
Ma Euroclear non ha potuto girare i proventi alla Russia proprio perché quelle riserve sono “congelate”. Dunque sono rimasti in deposito presso la piattaforma, attualmente per 185 miliardi di euro. Altri 20 miliardi di euro circa di riserve russe, in bond europei non ancora arrivati a scadenza, sono custoditi presso grandi banche francesi.
3. Esistono alternative all’uso delle riserve russe?
Esistono, ma fino a questa notte si sono scontrate con l’ostilità della Germania e dei Paesi nordici a creare nuove forme di fondi comuni europei. Alla fine l’idea di un eurobond per finanziare l’Ucraina, sempre malvisto in Germania, è rimasta la sola sul terreno una volta caduto il progetto dell’uso delle riserve congelate.
L’emissione di debito comune europeo si ferma a 90 miliardi di euro (a fronte degli 800 miliardi del fondo creato per il Recovery) perché queste solo le riserve inutilizzate del bilancio di Bruxelles che possono garantire l’operazione.
Va dato atto al cancelliere tedesco Friedrich Merz di aver dimostrato più flessibilità e forse anche più senso della responsabilità dei suoi colleghi di Italia e Francia, Giorgia Meloni e Emmanuel Macron. Alla fine è stato Merz ad aver accettato il sacrificio politico di una scelta che sarà senz’altro impopolare nel suo Paese, pur di sostenere l’Ucraina.
4. Cosa ha fatto Euroclear con le riserve russe fino ad ora?
Le ha gestite con investimenti a bassissimo rischio. Circa 50 miliardi sono accantonati e investiti in maniera leggermente più propositiva per generare dei rendimenti destinati a rimborsare, entro almeno dieci anni, i Paesi dell’Unione europea e del G7 che nel 2024 hanno anticipato a questo scopo un “prestito” da 50 miliardi di dollari all’Ucraina.
Il resto dei fondi russi di Euroclear è depositato in gran parte su un conto presso la Banca centrale europea, che rende oggi il 2% annuo. Euroclear genera dunque dei profitti dalle sue attività sulle riserve russe, i quali legalmente non appartengono a Mosca ma a Euroclear stessa. Su questi profitti dal 2022 Euroclear ha versato 1,2 miliardi in tasse al governo belga, che si era impegnato a girare tali proventi fiscali straordinari all’Ucraina (ma pare non l’abbia fatto, suscitando le ire degli altri governi).
(da Il Corriere della Sera)
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Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
IL PRESTITO SARA’ FINANZIATO SUL MERCATO DEI CAPITALI CON LA GARANZIA DEL BILANCIO COMUNITARIO… COSA RIDICOLA: ORBAN E FICO POTRANNO SFILARSI
L’annuncio sul compromesso arriva poco dopo le 3 del mattino del 19 dicembre. L’Unione Europea presterà all’Ucraina nel 2026 e nel 2027 90 miliardi, che saranno reperiti tramite debito comune. Sconfitta quindi la linea della Germania e del cancelliere Friedrich Merz, che ha tentato fino all’ultimo di evitare di aumentare il debito europeo per sostenere Kiev. Sull’ipotesi dell’uso degli asset russi vedeva la perplessità di Italia, Bulgaria, Malta e Repubblica Ceca. Viktor Orbán e Robert Fico si sono impegnati fino all’ultimo per evitare la soluzione che avrebbe irritato Mosca.
L’accordo
E allora sul tavolo dei 27 è arrivato via al piano B. Ovvero un prestito da 90 miliardi finanziato sul mercato dei capitali con la garanzia del Qfp, ovvero del bilancio pluriennale comunitario. Praga, Bratislava e Budapest si sono detti disponibili a votarlo. Ma a patto di avere la possibilità dell’opt-out, ovvero di non partecipare al prestito per Kiev.
Un’ora dopo l’accordo era stato trovato. I beni russi congelati rimarranno bloccati fino a quando la Russia non avrà pagato i risarcimenti all’Ucraina. E, se non lo farà, l’Ue si dice pronta a ricorrere, nel rispetto del diritto internazionale, a quegli stessi asset per rimborsare il prestito.
Il comunicato
Nel comunicato finale si legge: Il Consiglio Europeo «concorda di erogare all’Ucraina un prestito di 90 miliardi di euro per gli anni 2026-2027, basato sui prestiti contratti dall’Ue sui mercati dei capitali e sostenuto dal margine di bilancio dell’Ue».
Il Consiglio Europeo «ha discusso gli ultimi sviluppi riguardanti l’Ucraina. Ha fatto il punto sulle attività in corso per far fronte alle pressanti esigenze finanziarie dell’Ucraina per il periodo 2026-2027, alla luce delle opzioni presentate dalla Commissione».
«Attraverso la cooperazione rafforzata (articolo 20 Tue) in relazione allo strumento basato sull’articolo 212 Tfue, qualsiasi mobilitazione di risorse del bilancio dell’Unione a garanzia del prestito non avrà alcun impatto sugli obblighi finanziari della Repubblica Ceca, dell’Ungheria e della Slovacchia».
Il prestito all’Ucraina
Quanto sopra, si legge ancora, «non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e difesa di alcuni Stati membri e tiene conto degli interessi di sicurezza e difesa di tutti gli Stati membri, conformemente ai trattati. Il testo riportato nel documento Euco 26/25 è stato fermamente sostenuto da 25 capi di Stato o di governo. Il Consiglio Europeo tornerà sulla questione nella sua prossima riunione».
Nel documento separato sull’Ucraina, che ha il sostegno di 25 Stati membri su 27, si legge che »in linea con le precedenti conclusioni del Consiglio Europeo, che sottolineano che, nel rispetto del diritto dell’Ue, i beni della Russia dovrebbero rimanere immobilizzati finché Mosca non cesserà la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina e non la risarcirà per i danni causati dalla guerra, l’Unione Europea, data la situazione senza precedenti, ha adottato, sulla base dell’articolo 122 Tfue, misure di emergenza eccezionali, temporanee e debitamente giustificate per immobilizzare tali beni in modo più duraturo».
Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia
A confermare che l’accordo sul prestito Ue all’Ucraina prevede un opt-out per Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia è stato Orbán. «L’Ungheria è completamente fuori da tutto questo», ha dichiarato il primo ministro ungherese al termine del vertice. «Tre paesi hanno deciso di non partecipare. Si tratta di un opt-out per la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria. Quindi noi siamo innocenti», ha aggiunto.
Il premier ungherese ha ribadito che si tratta di «una decisione estremamente sbagliata che avvicina l’Europa alla guerra. Sembra un prestito ma ovviamente gli ucraini non saranno mai in grado di ripagarlo. Quindi si tratta fondamentalmente di denaro perso. La presidente della Commissione a sempre presentato due opzioni: una era il congelamento dei beni, che è fallito, e l’altra era il prestito, ma il problema del prestito era che richiedeva una decisione unanime. Alla fine abbiamo rinunciato al diritto di veto e in cambio abbiamo ottenuto l’opt-out».
(da agenzie)
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Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
NELLA MANOVRA SPUNTA UN “GIOCO” NUOVO DI ZECCA PER FINANZIARE OLIMPIADI E CONI
«Io ho il vizio della coerenza!», ha tuonato mercoledì in Senato la premier Giorgia
Meloni. Immaginatevi quanto sarà indispettita contro la Giorgia Meloni leader di Fratelli d’Italia (un’omonima?) che quand’era all’opposizione urlava contro Renzi reo di «continuare a far cassa col gioco d’azzardo» il che «significa guadagnare oggi dei soldi facili, ma pagare domani dei costi sociali altissimi». E sferzava: «Possiamo trattare il gioco d’azzardo come le sigarette? Possiamo vietare la pubblicità del gioco d’azzardo? Possiamo scrivere come facciamo sui pacchetti di sigarette che il fumo provoca il cancro e che le slot machine e il gioco d’azzardo producono miseria, povertà, droga, suicidio?».
Detto fatto il suo esecutivo, con il quale la «raccolta» dovrebbe salire nel 2025 a 170 miliardi «buttati» nell’azzardo (copyright Giorgia 2015), ha varato ora nella manovra un «gioco» nuovo di zecca. Stavolta per finanziare Olimpiadi e Coni. Scelta stangata da don Luigi Ciotti («Vergogna! Questa è complicità nel sistema che rovina milioni di persone fragili»), dalla Consulta Nazionale Antiusura («È inaccettabile che di fronte a un’emergenza sociale
conclamata le istituzioni continuino a considerare l’azzardo come una leva fiscale, ignorando deliberatamente le conseguenze devastanti») e dalla Caritas: «Finanziare lo sport ampliando l’azzardo è una scelta che preoccupa. Così si alimentano fragilità e sovraindebitamento. Nei nostri Centri di Ascolto incontriamo ogni giorno persone schiacciate dal sovraindebitamento».
Non bastasse tanta «coerenza» è confermata dalla scelta parallela del nome del nuovo «gioco»: «Win For Italia Team». Perfetto, per una destra che voleva «il rilancio dell’italiano», si era inventata il ministero del Made in Italy e voleva con Fabio Rampelli una legge che punisse fino a centomila euro «enti, grandi aziende, multinazionali» per l’uso dell’inglese in luogo dell’«amata lingua». Wow!
(da agenzie)
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Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
L’IPOCRISIA DI TRUMP
Non ricordo un solo allenatore di calcio che, quando la sua squadra perde, scarichi la colpa sul predecessore. Sarà fairplay, sarà ipocrisia, sarà spirito di corporazione, fatto sta che non accade. E anzi: capita spesso che l’allenatore in carica, davanti ai microfoni, faccia riferimento “al buon lavoro di chi mi ha preceduto”.
In politica accade l’esatto contrario: è sempre più frequente sentire leader che scaricano ogni responsabilità sui governi
precedenti. Tendenza antica quanto mendace, come tutti i falsi alibi: “Io sto facendo bene anzi benissimo, non ne sbaglio una, ma purtroppo ho ereditato un disastro dagli imbecilli e dai corrotti che hanno governato prima di me”. È il rovesciamento storico di “dopo di me il diluvio”, la frase attribuita a Luigi XV di Francia. Meglio dire “prima di me il diluvio”.
Eccellono in questa pratica al tempo stesso ignobile e puerile i boss sovranisti, ovviamente Trump su tutti.
Perché per quanto questo sputare sul nemico sconfitto risulti disgustoso ai cittadini dotati di raziocinio e di buona educazione, è una pratica perfettamente funzionale al racconto del mondo che fanno i populisti di destra: il mondo stava andando a rotoli perché la democrazia è decadente, con le sue regolette noiose e inefficienti. Ora finalmente il popolo, destandosi dal suo letargo, mi ha incoronato, e se il presente non è ancora radioso è solo per colpa di chi, immeritatamente, ha governato prima di me.
Comodo, no? Se questa Amaca dovesse contenere una corbelleria, o un errore di sintassi, la colpa non è mia. È di chi ha scritto sui giornali prima di me, rovinando il giornalismo.
(da repubblica.it)
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Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
AMPI SERVIZI SULLE RETI MEDIASET ALL’EVENTO DEL LANCIO DI OCCHIUTO
Due minuti di servizio al Tg5 delle 20. Altrettanti del Tg 4 delle 19. Uno e 40 di Tg
Com 24. La prima spinta al presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto arriva Mediaset della famiglia Berlusconi.
Mercoledì sera, poche ore dopo l’esordio di “In Libertà”, i telegiornali del Biscione hanno fatto ampi servizi dedicati all’evento per lanciare la corrente del vicesegretario di Forza Italia. Con parole al miele per Occhiuto e la sua “rivoluzione liberale”.
Non è un caso. L’appoggio della famiglia Berlusconi – o, meglio, il sostegno silenzioso – è ormai chiaro. E il governatore ne avrebbe parlato anche tra mercoledì e ieri con i Berlusconi che si sarebbero complimentati con lui per l’iniziativa.
L’obiettivo adesso è farne un’altra a febbraio, ma stavolta a Milano, e l’idea sarebbe proprio quello di coinvolgere uno tra Pier Silvio e Marina Berlusconi. La loro presenza, a quel punto, significherebbe un endorsement esplicito per la sua candidatura al congresso dell’autunno 2026 contro il segretario Antonio Tajani.
Che proprio poche settimane fa, a fine ottobre, ha fatto approvare una modifica allo statuto dei congressi con cui si è blindato: possono candidarsi coordinatori regionali solo coloro che, in ogni provincia, hanno il 15% di iscritti al partito tra i propri sostenitori.
Inoltre per i congressi non può correre chi non ha la tessera da almeno due anni. Dunque se Occhiuto vuole provare a scalare il partito e correre per il congresso nel 2026 dovrà partire dal cambiamento delle regole dello statuto che favoriscono tutti i fedelissimi di Tajani sul territorio. Anche perché ci sarà da fare le liste in vista delle politiche.
Il primo obiettivo di Occhiuto, comunque, saranno i capigruppo. Paolo Barelli e Maurizio Gasparri tra Camera e Senato sono nel mirino della famiglia Berlusconi che hanno chiesto “facce nuove” e per questo il primo passo politico del governatore potrebbe essere proprio quello di forzare su un cambio di ruoli.
Alla Camera i nomi sono quelli di Giorgio Mulè (preferito da Occhiuto) ma anche della vicesegretaria Deborah Bergamini (vicina alla famiglia Berlusconi) e Cristina Rossello (storica avvocata dei Berlusconi).
Resta la reazione dura di Tajani e dei suoi fedelissimi. Raccontano che mercoledì, in Transatlantico, facessero la lista dei 22 parlamentari presenti da Occhiuto minacciando di metterli in una blacklist e di non ricandidarli alle prossime elezioni.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Dicembre 19th, 2025 Riccardo Fucile
DAI 6.000 TESSERATI ALLA MORTE DI SILVIO GLI ISCRITTI SAREBBERO DIVENTATI CIRCA 200.000
I congressi regionali a cavallo fra marzo e aprile, e poi quello nazionale a gennaio del 2027, a ridosso delle elezioni politiche. La strada con cui FI sceglierà la sua leadership è praticamente segnata, e Antonio Tajani assicura di non temere il confronto, anche ora che il dibattito interno ha fatto un salto di qualità con la “scossa liberale” impressa da Roberto Occhiuto.
“Facciamolo il Congresso: l’abbiamo già fatto in passato. Forza Italia è un partito democratico…”, sottolinea il segretario nazionale azzurro Tajani, che rivendica di aver “contribuito al rinnovamento”, e dopo aver incontrato ieri a Milano Marina Berlusconi si appresta a chiudere nelle prossime ore la campagna tesseramento 2025 con un “boom di iscritti”, come lo definiscono fonti del partito.
I dati ufficiali arriveranno più avanti. Ma dopo i 110mila iscritti del 2023 e i 140mila dell’anno successivo, in questi dodici “stiamo arrivando a circa duecentomila – annuncia Tajani -. Dopo la morte di Berlusconi ne erano rimasti 6mila”.
Lombardia e Sicilia sarebbero le regioni trainanti sul fronte delle iscrizioni. Nel giro di qualche mese i territori eleggeranno i coordinatori regionali, e quella sarà la prima vera rappresentazione dei rapporti di forza, si ragiona fra gli azzurri all’indomani dell’iniziativa con cui Occhiuto ha dato una spinta a “rafforzare l’ala liberale del centrodestra”, pochi giorni dopo il nuovo input di Pier Silvio Berlusconi su “facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato”.
Non è nata alcuna corrente, la precisazione del vicesegretario e governatore della Calabria, durante il convegno “In libertà, pensieri liberali per l’Italia’, a cui ha partecipato almeno una dozzina di parlamentari di FI. Occhiuto però in un’intervista a La Stampa ha rimarcato qualche appunto: ad esempio condividendo l’obiettivo di FI del 20% ma evidenziando che “al momento il
partito galleggia attorno all’8%”.
“A prescindere se io mi candiderò o meno – è la sua linea -, dobbiamo usare il tempo che ci separa dal congresso per proporre un profilo più smart, moderno e aperto del partito, riattualizzando il progetto di Berlusconi. Ho dimostrato che il coraggio non mi difetta. Sono pronto, se necessario”.
“Sia chiaro che non ho nemici, da nessuna parte”, ha commentato in mattinata a Bruxelles Tajani che ieri pomeriggio a Milano (dove il vicepremier e ministro degli Esteri si trovava per la Conferenza nazionale dell’Export) ha avuto un nuovo incontro (l’ultimo noto il 24 novembre) con Marina Berlusconi. Un colloquio di circa un’ora, fra lo scambio di auguri natalizi e qualche accenno all’attualità politica. Un incontro, assicura un azzurro ben informato, disteso e molto positivo. “Il rinnovamento sono i congressi, in un partito che vuole avere una base sempre più ampia – ha sottolineato il leader, ospite di Dritto e rovescio -. È giusto che gli iscritti scelgano i loro dirigenti, locali, regionali e nazionali. La legittimazione democratica è fondamentale. Chi vuole offrirsi e dare la propria disponibilità al partito, è bene che lo faccia. Più gente vuole lavorare meglio è, poche chiacchiere e molti fatti. Io ho dedicato gran parte della mia vita a FI e continuo a farlo, sono uno dei fondatori e credo aver dato contributo importante al rinnovamento”.
Il vicepremier ha anche rivendicato “il grande segnale” dato dal partito “anche dal punto di vista culturale” con il Manifesto della libertà varato a fine estate: “Ogni messaggio in ogni parte di questo documento evoca la parola libertà, dalla giustizia ai rapporti affettivi”.
(da agenzie)
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