Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
SONO AVVENUTE DURANTE LA PARTITA DI SERIE A1 MONVISO-MACERATA… MA IL VIMINALE CHE METTE IN PIAZZA 400 UOMINI PER SGOMBERARE UN CENTRO SOCIALE E’ CAPACE DI DESTINARE 10 AGENTI IN GRADO DI INTERVENIRE ALL’INTERNO DI UN PALASPORT PER ARRESTARE QUESTA FOGNA UMANA?
Un post su Instagram per denunciare: “Offese razziste contro me e la mia famiglia”.
Adhu Malual, opposto del Monviso Volley stabilmente nel giro delle Nazionali fin dal settore giovanile, si è sfogata sui social dopo la partita di Serie A1 tra le pinerolesi e Macerata. Cittadina italiana, nata a Roma nel 2000 da genitori del Sudan del Sud, ha giocato con la maglia azzurra vincendo la medaglia d’oro ai Mondiali Universitari.
Adhu Malual: “Non mi sono sentita a casa”
L’episodio si è verificato nel match casalingo perso dal Moviso Volley per 2-3 in casa contro Macerata: “Ieri sera ho giocato in casa – si legge nel post dell’atleta -. E non mi sono sentita a casa. In 12 anni di carriera non avevo mai assistito né vissuto sulla mia pelle un atteggiamento del genere da parte del pubblico che dovrebbe sostenere la propria squadra. Si può sbagliare. Fa parte del gioco, fa parte del lavoro, fa parte dell’essere umani. Quello che non fa parte di questo sport sono insulti, fischi costanti, offese personali e sì commenti razzisti, rivolti non solo a me ma anche ai miei familiari sugli spalti. Dal primo punto all’ultimo. Non per spronare. Non per sostenere. Solo per colpire”.
La nazionalità italiana e il tifo contro
Gli insulti razzisti sono piovuti sulla famiglia Malual dal pubblico “amico”, il prezzo da pagare per alcune giocate non andate come speravano. Oltre che per un inizio di stagione difficoltoso per le piemontesi: “Sono fiera di essere italiana – prosegue l’opposto italiana -. Sono fiera di giocare in uno dei campionati più forti al mondo. Sono fiera di indossare la maglia azzurra, perché l’amore che provo per questo Paese, che è la mia casa, è indescrivibile. E non permetterò a nessuno di metterlo in discussione”.
Il sostegno del Monviso Volley
Non si è fatta attendere la solidarietà del Monviso Volley nei confronti della sua atleta. Il club piemontese ha preso fermamente le distanze “da quanto accaduto ieri sera sugli spalti in occasione della gara contro Macerata, dove si sono verificate manifestazioni di dissenso da parte di una minoranza del pubblico, non in linea con i valori dello sport e con i principi che
da sempre guidano la nostra società”. La società pinerolese ha espresso vicinanza alla sua atleta: “Monviso Volley ritiene inaccettabili atteggiamenti che travalichino il rispetto della persona e dell’atleta, soprattutto quando questi si trasformano in contestazioni personali o in pressioni dannose per il clima sportivo. La Società desidera esprimere piena solidarietà e sostegno all’atleta di Adhu Malual, che ogni giorno dimostra impegno, professionalità e dedizione al progetto sportivo, condividendo con la squadra responsabilità, successi e momenti di difficoltà che fanno parte di ogni percorso competitivo”.
Solidarietà ad Adhuoljok Malual è stata espressa anche dal presidente della Lega Volley Femminile, Mauro Fabris: “Quanto accaduto ieri sera in occasione della partita del Campionato di Serie A1 femminile tra la Wash4Green Monviso Volley e la Cbf Balducci Hr Macerata, come denunciato oggi da Adhu Malual, apostrofata anche con espressioni razziste a commento della sua prestazione in campo, è totalmente inaccettabile – ha attaccato Fabris -. Come Lega Pallavolo Serie A Femminile condanniamo tali comportamenti ed esprimiamo solidarietà all’atleta e alla sua famiglia. Chiederemo l’intervento del giudice di Lega per verificare quanto accaduto e chiederemo alla Federazione di informarsi con gli arbitri, presenti sul campo, per un loro giudizio sui fatti. In ogni caso crediamo che Monviso Volley sia in grado di individuare i responsabili di questa vicenda indegna e proibire loro l’accesso in futuro al palazzetto. La Lega ha sempre combattuto episodi di razzismo, intolleranza e violenza, verbale e non. Nel nostro campionato giocano atlete da tutto il mondo, di 40 nazioni diverse, con credi religiosi e culture differenti, senza
che mai si registrino episodi simili. Il nostro è il Campionato più bello del mondo anche perché ha saputo valorizzare ciascuna di queste straordinarie atlete”.
(da agenzie)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
UN ALLEATO, TAJANI, È MESSO IN DISCUSSIONE DALLA REAL CASA BERLUSCONIANA. L’ALTRO, SALVINI, SI E’ RINGALLUZZITO MA CONTINUA A PERDERE CONSENSI
Mai si era vista una tale confusione, nemmeno ai tempi del pentapartito morente o dell’ottovolante gialloverde in orbita. Sulla manovra si chiuderà coi botti di Capodanno, degno finale dei fuochi d’artificio sparati in questi giorni.
Neanche tanto a salve, con Giancarlo Giorgetti sfiduciato dal suo partito e costretto, ieri, a un pubblico dietrofront con confusione incorporata sulle ennesime nuove misure annunciate. Il vero ministro dell’Economia della Lega ormai è Claudio Borghi, impegnato a evitare la Caporetto sulle pensioni, in una manovra che è già un insuccesso tra rottamazione troppo “mini”, flat tax scomparsa dai radar e canone Rai bocciato.
Sul “decreto armi”, invece, quello che consente di mandare gli aiuti all’Ucraina senza passare dal Parlamento, si chiuderà solo al cdm previsto per il 29 dicembre. Anche qui, all’ultimo momento utile. E, per svelenire il clima, nelle dichiarazioni pubbliche è scomparsa la parola “armi”.
Insomma, è la fotografia di un collo di bottiglia: rinvii, incertezze, nodi non sciolti su due dossier cruciali. Che ci racconta un paio di questioni politiche non proprio banali. La prima è che, con tutte le difficoltà del caso, Giorgia Meloni, come dall’inizio della legislatura, è molto più forte sulla politica estera che su quella interna, paradosso del sovranismo nostrano. Al Consiglio europeo di Bruxelles è stata abile a sfruttare la congiuntura astrale che ha portato al crollo del Muro di Berlino sugli Eurobond, anche grazie alla posizione assunta di Victor Orban.
La seconda è che, nella dimensione domestica, è finita la “monarchia”, formula che prendiamo a prestito da Marco Follini. All’inizio degli anni Duemila, da segretario dell’Udc, assieme agli alleati, impose al sovrano di Arcore tutta la ritualità tradizionale del logoramento, dalle dimissioni di Giulio Tremonti allora ministro dell’Economia a un bis di governo.
La situazione, oggi, non è così grave però quello a cui siamo assistendo è il passaggio dal centrodestra della Regina coi suoi vassalli a una classica coalizione con alleati riottosi e litigiosi, vertici di emergenza, “esigenze di chiarimento”, “passi indietro”. Ci mancano solo “fase due”, “cabina di regia” e “cambio di passo”, e il vocabolario è completo.
Ecco, la ragione è che un alleato, Antonio Tajani, è messo in discussione dalla Real Casa, attraverso il governatore della Calabria, il genio guastatori in attesa che prima o poi arrivi un “erede” dal cognome Berlusconi a miracol mostrare. Ed è chiaro che, in questo clima, le truppe parlamentari siano un po’ fuori controllo.
Ma è l’altro, Matteo Salvini, ad essersi davvero ringalluzzito, e non poco. Diciamocelo, Giorgetti, in questa storia, era la nuora cui parlare per far intendere alla suocera, ovvero Giorgia Meloni, che la musica è cambiata. Che spasso vedere, l’altro giorno, il suo capogruppo leghista Massimiliano Romeo che saltellava in salone Garibaldi dicendo “è tornato il celodurismo lombardo”.
Per i meno giovani, l’espressione risale a quando Umberto Bossi, in uno storico comizio del 1996, incantò i presenti col famoso: “La Lega ce l’ha duro”. Aveva rotto con Berlusconi e gli fece perdere le successive elezioni.
La ragione, di cotanta eccitazione salviniana, è duplice. Riguarda ovviamente il contesto internazionale. Tra i marosi del trump-putinismo, diventati sempre più minacciosi per i vascelli europei, ha ritrovato l’onda più congeniale.
Ma è l’assoluzione definitiva nel processo Open Arms ad avergli
fornito un asset importante per tornare a sognare in grande in un partito che, sia pur non platealmente, lo ha messo in discussione (vai alla voce: Luca Zaia). L’obiettivo lo ha esplicitato proprio commentando la sentenza: “Se nel 2027 gli italiani ci risceglieranno, potrei tornare al Viminale”.
Sogna la rivincita. Il ritorno in serie A: ruspe, come quelle invocate su Askatasuna, e porti chiusi, dopo anni di pedemontane e di un Ponte che non vedrà mai i piloni.
Ora cioè è venuto meno l’ostacolo formale utilizzato per il veto all’Interno, la cui vera ragione sostanziale erano i suoi rapporti filo russi, anch’essi più complicati da gestire nel mondo di Trump. Vabbè, ci siamo capiti. Benvenuti nella Repubblica del centrodestra.
Alessandro De Angelis
per “La Stampa”
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
“C’È MELONI, SOLO LEI, IL RESTO È CONTORNO E COMPARSE. PER MANTENERE IL CONSENSO HA GIOCATO DI RIMESSA”
Da quando è al governo la destra non è cambiato nulla nella nostra vita di italiani, di
cittadini, di contribuenti e anche in quella di «intellettuali», di «patrioti» e di uomini «di destra». Tutto è rimasto come prima, nel bene, nel male, nella mediocrità generale e particolare. E perdura anche il clima di intolleranza e censura verso le idee che non rientrano nel mainstream.
Non saprei indicare qualcosa di rilevante che segni una svolta o che dica, nel bene o nel male, al Paese: da qui è passata la destra – sovranista, nazionale, sociale, patriottica, popolare, conservatrice o che volete voi – e ha lasciato un segno inconfondibile del suo governo.
Lo diciamo senza alcun piacere di dirlo, anzi avremmo più volentieri taciuto, occupandoci d’altro; lo scriviamo solo per non sottrarci, almeno a fine anno, a tentare un bilancio onesto, realistico e ragionato della situazione. Le campagne propagandistiche filogovernative e antigovernative raccontano trionfi e catastrofi che non ci sono, sceneggiano paradisi o inferni inverosimili: prevale il purgatorio della routine
Mediocritas, plumbea o aurea, senza tracolli. Nulla di significativo e di sostanziale è cambiato nella vita di ogni giorno, negli assetti del Paese, nella politica estera ma anche sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici e perfino televisivi, eccetto l’inchino al governo; tutto è rimasto come prima, salvo le naturali, fisiologiche evoluzioni e involuzioni. E in Rai? Ancora Vespa, Benigni e Sanremo, per dirla in breve.
Niente di nuovo, da nessuna parte.
Solo vaghi annunci, tanta fuffa, piccole affermazioni simboliche, del tipo «l’oro è del popolo italiano», un po’ di retorica comiziale e qualche ipocrisia.
Non è emerso alcun astro nascente, nessuna nuova promessa in ambito politico, mediatico, culturale o nella pubblica amministrazione. C’è lei, solo lei, il resto è contorno e comparse.
Chi assegna ancora qualche valore alle appartenenze politiche deve abituarsi a considerarle esattamente come le passioni sportive: puoi tifare per una squadra come per un partito, per un tennista come per un leader, ma sai che se vince o se perde non cambia nulla nella realtà, nella tua vita e in quella pubblica.
Non siamo delusi da questa assenza di svolta perché non ci eravamo mai illusi; sin da prima delle elezioni e poi quando s’insediò al governo la Meloni avvertimmo che non sarebbe cambiato nulla di sostanziale, nessuna svolta a destra era all’orizzonte né avrebbe mai potuto esserci; per andare al governo e per restarvi, la Meloni avrebbe seguito alcune linee obbligate e rinunciato ad altre battaglie politiche annunciate quando era all’opposizione, magari lasciandole balenare ancora solo nei comizi. Insomma avrebbe seguito e rispettato gli assetti interni e internazionali e le direttive, si sarebbe attenuta alla linea Draghi, e nei comportamenti avrebbe adottato uno stile mimetico di tipo democristiano. Così è stato.
Per mantenere il consenso ha giocato di rimessa, puntando sugli errori e le intolleranze della sinistra che creano ondate di rigetto e di solidarietà con chi ne è vittima. Del resto non c’era nemmeno una classe dirigente adeguata alla sfida e in grado di poter cambiare veramente il corso delle cose.
Ma anche chi oggi la contesta dall’opposizione non avrebbe fatto diversamente se fosse stato al governo, si sarebbe attenuto alle direttive dominanti, avrebbe seguito le stesse linee di fondo.
L’unica vera novità politica deriva da un riflesso d’oltreoceano: l’elezione di Donald Trump nel bene e nel male ha ridisegnato il campo e gli scenari. A livello internazionale, quell’elezione ha aumentato il peso della Meloni, come sponda europea dell’Atlantico, e lei si è barcamenata a livello internazionale tra le due linee. Ma il peso dell’Italia resta relativo e permane la doppia dipendenza euroatlantica. Il margine di autonomia è tutto nel sapersi destreggiare tra le due sponde. Una sola raccomandazione: si tenga almeno lontana dallo scellerato eurobellicismo.
Per la Meloni è una situazione favorevole che non ha precedenti, che le garantisce la navigazione fino a conclusione della legislatura, durata e stabilità, salvo inciampi e imboscate; prima di lei i cicli politici non sono durati più di tre anni (Renzi, Conte, Draghi più altre più brevi meteore).
Mezza Italia non va a votare ma in quell’altra metà la Meloni con la sua coalizione riesce a prevalere. Tre quarti del popolo italiano, dice il Censis, non crede più alla politica.
È nato un nuovo populismo anti politico. È questo l’ultimo stadio del populismo, quello di chi diffida ormai della politica e se ne tiene alla larga. Ma questo malumore generale vive nella sua dimensione privata e individuale, senza sbocchi politici.
La politica tramonta, come è tramontata la religione, e pure l’amor patrio e ogni altra appartenenza significativa; il nuovo populismo anti politico si fa virale ma molecolare, miscredente e autoreferenziale.
Tutti lasciano la piazza, ognuno se ne va per conto suo. Non crediamo, come taluni sostengono, che la Meloni, appena varcata la soglia dei 50 anni, età minima per candidarsi, abbia in mente di puntare al Quirinale dopo il lungo regno di Mattarella; sarebbe un salto prematuro, quasi un prepensionamento precoce, che avrebbe senso solo con una riforma presidenzialista: ma non è alle viste, mentre l’ipotesi di rafforzare il premierato è concreta, trova consensi trasversali e conferma che il progetto meloniano sia quello di restare ancora a Palazzo Chigi, con maggiori poteri. Peraltro non è mai accaduto che un vero leader politico in Italia sia diventato capo dello Stato: nessuno nella decina di leader e premier forti che abbiamo avuto nella nostra storia repubblicana è mai diventato presidente della Repubblica.
Con questa analisi disincantata sappiamo di scontentare sia i lettori che sostengono con entusiasmo o quantomeno con fedeltà di schieramento la Meloni e il suo governo; sia quanti, viceversa,
trovano troppo indulgenti e benevoli i nostri giudizi sul governo Meloni che ai loro occhi avrebbe invece tradito gli italiani e le sue promesse.
Questo dissenso bilaterale tra i lettori ci spinge ancor più a parlare sempre meno di politica e di governo; ma riteniamo che sia nostro primo dovere, una tantum, dire ciò che ai nostri occhi ci sembra essere la verità della situazione. Possiamo sbagliarci, naturalmente, ma ci rifiutiamo di fingere e di ingannare. Se poi ad altri fa piacere credere alle fiabe, fatti loro.
Marcello Veneziani
per “La Verità”
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
AL CARROCCIO SAPEVANO BENISSIMO DELLE MISURE, NECESSARIE PER FINANZIARIE I FONDI ALLE IMPRESE. EPPURE HANNO MESSO IN SCENA UN TEATRINO CON TANTO DI IMPROBABILE MINACCIA DI USCIRE DAL GOVERNO
Giancarlo Giorgetti non è mai stato noto per le uscite avventate. Per questo non è difficile capire perché il ministro dell’Economia sia rimasto sorpreso di fronte alla levata di scudi all’interno del suo partito, la Lega, per alcune delle ultime coperture inserite in legge di Bilancio.
In particolare, l’allungamento in prospettiva delle cosiddette «finestre mobili» per le pensioni: il periodo fra il momento in cui si maturano i requisiti contributivi per il ritiro e l’effettiva decorrenza dell’assegno di quiescenza.
Nel tentativo di trovare altri 3,6 miliardi per far quadrare i conti, il ministero dell’Economia nelle ultime settimane aveva lavorato ad allungare le finestre oltre i tre mesi attuali (a partire dai prossimi anni). Giorgia Meloni sarebbe stata d’accordo.
Ma soprattutto, prima di affacciare nel maxiemendamento alla legge di Bilancio un’ipotesi simile, il ministero dell’Economia aveva vagliato anche la Lega.
Del partito Giorgetti è numero due ed è il primo a conoscerne la delicatezza degli equilibri, specie sui temi previdenziali. Per
questo i tecnici dell’Economia hanno discusso, fra gli altri interlocutori, anche con gli uffici del partito del ministro. Il progetto sull’allungamento delle finestre si è affacciato in legge di Bilancio solo dopo.
È lì che sono arrivati gli interventi polemici di vari esponenti leghisti negli ultimi giorni, che hanno costretto Giorgetti e il governo alla marcia indietro. «Tutti avevano visto tutto, non scherziamo» è uno dei commenti che arrivano da via XX Settembre in queste ore. «Quello sulle pensioni non può essere certo un provvedimento arrivato all’improvviso — si aggiunge —. Il lavoro andava avanti da un pezzo».
Giorgetti stesso, con la manovra aperta in Parlamento, non ha alimentato tensioni. Con chi gli ha chiesto se pensa a dimettersi, è stato sintetico: «È la ventinovesima legge di Bilancio che faccio e so perfettamente come funziona fra Parlamento, commissione (parlamentare, ndr ) e le proposte del governo — ha detto —. A me interessa il prodotto finale, crediamo di aver fatto delle cose giuste».
Il punto è capire le ragioni di un cortocircuito così plateale. E cosa ha indotto il ministro a intervenire come ha fatto negli ultimi giorni, visto il percorso della legge di Bilancio almeno da ottobre scorso.
La produzione industriale ha segnato contrazioni per 32 mesi — rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente — su 36 mesi del governo Meloni (l’industria pesa per il 27% dell’occupazione in Italia). Il presidente di Confindustria Emanuele Orsini ha iniziato a incalzare Giorgetti malgrado la buona salute dei conti: «Non ci serve un ministro da copertina
In incontri privati in autunno alcuni rappresentanti del mondo delle imprese hanno sottolineato al ministero dell’Economia che con dicembre scadevano varie forme di sgravio: Transizione 5.0, Industria 4.0 e gli sgravi della Zona economica speciale del Mezzogiorno (anche se Giorgetti in cuor suo pensa che troppi nel Paese siano spesso a caccia di aiuti pubblici).
Non solo. Fra gennaio e ottobre del 2025 — stima il professor Massimo Beccarello dell’Università Milano-Bicocca — il costo della materia prima elettrica è stato dell’85,6% superiore alla media dei principali Paesi europei
Poi a inizio novembre un decreto del ministero delle Imprese ha tagliato di colpo di circa 4 miliardi di euro gli incentivi di Transizione 5.0, con la revisione del Piano nazionale di ripresa (Pnrr). I fondi sono andati ad assorbire altri costi già presenti nella finanza pubblica. Migliaia di imprese indebitatesi in vista degli incentivi hanno protestato e Adolfo Urso, ministro delle Imprese, ha risposto promettendo che tutte le prenotazioni di sgravi presentate entro l’anno sarebbero state soddisfatte.
Ma questo impegno ha portato ad ancora più richieste, al punto che adesso Giorgetti si è trovato con un onere in più previsto ora di 1,3 miliardi che andrà finanziato fuori dal Pnrr: con fondi nazionali. Il ministro, non senza una certa irritazione dei suoi, ha cercato nuove risorse anche per questo.
(da “Corriere della Sera”)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
MATTARELLA HA FATTO CAPIRE CHE SAREBBE STATO INOPPORTUNO E FORSE ANCHE INCOSTITUZIONALE PRESENTARE UN DECRETO DI BILANCIO CON LA FINANZIARIA APERTA…NELLA FIGURACCIA HANNO MESSO LO ZAMPINO I SOTTOSEGRETARI MANTOVANO E FAZZOLARI
La (quasi) crisi di governo sulla Manovra di bilancio può dirsi alle spalle. Le fortissime
tensioni che hanno portato la maggioranza a un passo dal burrone si sono faticosamente allentate.
Ore di nervosismo e di contatti elettrici tra Palazzo Chigi, via XX Settembre, Palazzo Madama e il Quirinale. Uno psicodramma tutto interno alla coalizione di governo, che in parte è andato in scena venerdì dietro le quinte dei saloni seicenteschi del Colle più alto, prima e dopo il discorso di Sergio Mattarella alle alte cariche dello Stato.
Già, perché è toccato al presidente scongiurare il «blitz» con cui il governo aveva provato a scavalcare per decreto le lacerazioni tra i big della Lega e la minaccia di dimissioni di Giancarlo Giorgetti. I meloniani ammettono che l’inquilino del Quirinale si è fatto informalmente sentire, «in maniera collaborativa e non impositiva».
Se ha respinto l’idea partorita tra Mef e Ragioneria di un decreto ad hoc che contenesse le norme della discordia lo ha fatto, raccontano, per questioni «tecniche, politiche, giuridiche e costituzionali e non per rompere le scatole al governo». Le fonti chiedono l’anonimato e c’è da capirle. La tanto sbandierata stabilità ha vacillato nella notte di giovedì, quando la premier a Bruxelles stava chiusa con i leader dell’Europa a combattere su asset russi e Mercosur.
A tarda sera la Lega di rito salviniano parte all’attacco delle coperture identificate dal ministro dell’Economia, Giorgetti. Il Carroccio si spacca, Meloni è però irraggiungibile. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, chiama il sottosegretario leghista Federico Freni e poi il sottosegretario a Palazzo Chigi, Alfredo Mantovano, che a sua volta sente Giovanbattista Fazzolari e il capo di Gabinetto, Gaetano Caputi. Con quale stoffa rattoppare il buco e placare l’ira di «Giorgia»?
L’ideona che vien fuori è stralciare le parti sulle pensioni che la Lega contesta e scrivere a tempo di record un decreto, ma serve il via libera del Quirinale. È un azzardo, visto anche il noto disagio del presidente e dei suoi collaboratori per la sciatteria con cui tante leggi sono scritte e il ricorso sistematico alla decretazione d’urgenza, in barba all’articolo 77 della Costituzione.
Venerdì mattina, con la bozza del decreto sul tavolo, il «pontiere» Mantovano cerca il segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti. Passa qualche ora e il responso degli uffici giuridici e legislativi è un vigoroso no, che nel governo spiegano così: «Il presidente ha fatto capire che sarebbe stato inopportuno e forse anche incostituzionale presentare un decreto di bilancio, con la Finanziaria aperta».
Se avesse forzato e tirato dritto su una strada che non ha precedenti, la maggioranza si sarebbe esposta a possibili ricorsi e conflitti, anche con la Consulta. Insomma, un decreto che contenesse stralci di manovra e la mettesse a rischio poteva essere «pericoloso per il sistema».
Al Quirinale sdrammatizzano e non confermano, ma secondo voci parlamentari anche di questo avrebbero parlato (sottovoce) Mattarella, Meloni, Tajani e Salvini a margine del brindisi del presidente con le alte cariche.
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
“IL FOGLIO”: “IL PENSIERO VA SOPRATTUTTO A GIOVANNI FLORIS E CORRADO FORMIGLI. OGNI TANTO È UTILE METTERSI ALLO SPECCHIO E DOMANDARSI SE “LA MIA FUNZIONE È DIVENTATA QUELLA DI PORGERE UN MICROFONO A PERFETTI CIALTRONI, PATACCARI E MITOMANI SPESSO SENZ’OMBRA DI CONTRADDITTORIO? È QUESTO IL MIO MESTIERE?”
Mi auguro che qualcuno colga l’occasione offerta dall’intervista di Adnkronos al professore Federigo Argentieri, dimissionario da Limes, sulla “nube tossica mediatica” che avvolge la guerra in Ucraina e sulle redazioni televisive che aspettano il prime time per alluvionare il pubblico di panzane.
Il mio pensiero va soprattutto ai conduttori dei talk-show. A Giovanni Floris, che abbiamo imparato ad apprezzare vent’anni fa per il suo visino pulito e paffuto da primo della classe e il suo curriculum impeccabile da beneducato rampollo dell’università liberale e dell’informazione europeista; o a Corrado Formigli, l’allievo di Michele Santoro che sembrava voler seguire in tutto il maestro salvo che nella compiaciuta mascalzoneria, e che era meno appesantito dalla catena antica di solidarietà e ostilità ideologiche che rendono sempre così prevedibile l’autore di Samarcanda. Su Bianca Berlinguer e altri osserverò un caritatevole silenzio.
Sono anni, in qualche caso decenni, che li vediamo ogni settimana sugli schermi, e loro probabilmente sono convinti in buona coscienza di fare sempre lo stesso mestiere. Ma l’abitudine obnubila, e ogni tanto è utile mettersi allo specchio; magari allo specchio di una trasmissione dei loro esordi.
Com’è possibile, potrebbero domandarsi, che di concessione in concessione, di accomodamento in accomodamento, la mia funzione è diventata quella di porgere un microfono a perfetti cialtroni, pataccari, mestatori e mitomani in un tripudio di applausi, spesso senz’ombra di contraddittorio? Creare una “nube tossica” fa bene alla salute dell’informazione democratica? È questo il mio mestiere? E soprattutto: è questo che volevo?
(da “il Foglio”)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
SORGI: “DA TEMPO NON ACCADEVA CHE UN PARTITO DELLA MAGGIORANZA DIVENTASSE INCONTROLLABILE IN PARLAMENTO, COSTRINGENDO LA PREMIER A PRECIPITARSI DA BRUXELLES PER CONVOCARE UN VERTICE DI COALIZIONE, E IL GOVERNO IN SOSTANZA A FARE MARCIA INDIETRO SUI PROVVEDIMENTI ADOTTATI”
No, davvero non si capisce cosa abbia da festeggiare la Lega al Senato, il “ritorno al
celodurismo”, l’aver costretto il governo a un braccio di ferro sulle nuove norme sull’età pensionabile che dovrebbero scattare tra sei anni (e intanto però dovrebbero garantire la costanza di un percorso di risanamento).
Eppure anche questo s’è dovuto vedere a Palazzo Madama: il capogruppo Romeo che minacciava il ministro leghista dell’Economia Giorgetti, avvertendolo che avrebbe fatto uscire dall’aula della commissione i parlamentari del Carroccio, facendo mancare la maggioranza, quando appunto la legge di stabilità ha le ore contate per essere approvata prima della pausa di fine anno ed evitare il ricorso all’esercizio provvisorio.
Ma da tempo non accadeva che un partito della maggioranza diventasse incontrollabile in Parlamento, costringendo la premier Meloni a precipitarsi da Bruxelles per convocare un vertice di coalizione, e il governo in sostanza a fare marcia indietro sui provvedimenti adottati.
E sarà pure vero che il Parlamento esiste per questo e Meloni e Giorgetti non potessero aspettarsi che senatori convocati all’ultimo momento (questo sì, come tutti gli anni), si rassegnassero a fare i passacarte, alzando la mano in segno di condivisione tutte le volte che l’esecutivo lo chiedeva.
Una rivolta in piena regola dei senatori, che non può essere attribuita al senso di frustrazione di parlamentari in attesa da mesi di poter esercitare il proprio ruolo. Piuttosto, lo si è capito benissimo dalla serie di dichiarazioni snocciolate da Salvini già a margine del vertice europeo, una precisa svolta impressa dal vicepresidente del consiglio, oltre che leader del Carroccio, alla politica del suo partito nei confronti del governo.
C’è chi dice che potrebbe trattarsi del primo assaggio; e il secondo sarebbe in arrivo con la discussione sul decreto per gli aiuti all’Ucraina, in cui la Lega vorrebbe che fosse scritto a chiare lettere che non si tratterà solo di armi, ma anzi sempre meno di armi. Perché, dice Salvini, occorre prendere atto che lo scenario della guerra in Ucraina sta cambiando. In cosa, per ora, se ne accorge solo lui.
Marcello Sorgi
per “La Stampa”
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
IN MEDIA SI FARANNO OTTO REGALI A TESTA, ANCHE SE IL 20% DELLE PERSONE PROGETTA DI FARNE TRE O MENO… TRA GLI ARTICOLI PIÙ ACQUISTATI CI SONO CAPI D’ABBIGLIAMENTO, I COSMETICI E I CLASSICI PROFUMI. SUBITO DIETRO CI SONO GIOCHI E GIOCATTOLI
Abbigliamento, cosmetica e giocattoli risultano tra i regali più richiesti in vista delle festività. Con l’avvicinarsi del Natale, quasi 20 milioni di italiani si preparano alla ricerca degli ultimi acquisti da collocare sotto l’albero. I punti vendita tradizionali tornano ad attirare l’attenzione dei consumatori: il 62% prevede di fare compere anche in negozio, il 22% all’interno dei supermercati e il 17% nei mercati o nei mercatini natalizi.
Per i regali del Natale 2025 si stima una spesa media di 250 euro a persona, per un volume complessivo pari a 9,5 miliardi di euro. Le previsioni emergono dal sondaggio annuale Confesercenti Ipsos dedicato ai consumi degli italiani durante le festività invernali.
L’approccio dei clienti è ormai sempre più multicanale, orientato all’utilizzo di un mix di forme di retail, dalle piattaforme ecommerce ai siti indipendenti, passando per grande distribuzione e negozi di prossimità, mercati e mercatini: in media ogni consumatore acquisterà in circa tre format differenti.
Nel periodo del Black Friday (da mercoledì 26 novembre a martedì 2 dicembre) la quota di persone che hanno acquistato un regalo anche presso il canale fisico si è fermata al 32% circa. Nei sette giorni successivi (3-9 dicembre) è stata del 39%, mentre tra il 10 ed il 16 dicembre è salita al 47%. Tra questa settimana e l’inizio della prossima (16-24 dicembre), invece, è intenzionato ad acquistare anche in un negozio il 62% degli intervistati, il 22% in un supermercato ed il 17% in un mercato/mercatino
La spesa prevista è più alta tra le persone oltre i 34 anni di età e tra i residenti delle regioni del Nord Italia (300 euro circa). È invece più bassa tra i giovani (200 euro), gli abitanti del Centro (poco meno di 250 euro) e quelli del Sud e delle Isole (200 euro circa). In media si faranno circa otto regali a testa, anche se il 20% delle persone progetta di farne tre o meno. E, contrariamente all’iconografia tradizionale, Babbo Natale è donna: nove regali in media, contro i sette degli uomini.
La classifica dei doni più ricercati restituisce un Natale ancora molto “materiale” e tradizionale. In testa ci sono capi d’abbigliamento (44%) e cosmetica/profumi (41%): […]Subito dietro ci sono giochi e giocattoli (33%), che restano un pilastro delle feste. Seguono accessori moda (26%) e libri (26%) e gioielli e bigiotteria (25%). Il regalo legato alla tavola è presente con un peso non marginale: i prodotti gastronomici sono al 23%, quelli da enoteca al 19%.
Il 17% sceglierà invece calzature, mentre il 16% arredamento/articoli per la casa, mentre oggettistica, gadget e collezionismo si fermano al 15%. La tecnologia non domina ma è ben distribuita: il 14% comprerà tech sotto i 150 euro e una quota identica tech sopra i 150 euro (14%), lo stesso livello di piccoli elettrodomestici e buoni spesa. Le esperienze restano minoritarie: trattamenti benessere/bellezza (13%), biglietti per spettacoli/eventi (12%), abbonamenti streaming/Tv (9%), viaggio o vacanza (7%) e corsi (2%).
(da tgcom24.mediaset.it)
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Dicembre 21st, 2025 Riccardo Fucile
“HANNO MOSTRATO ANCORA UNA VOLTA DIVISIONE, E L’EUROPA NE ESCE FERITA, MENTRE LA RUSSIA CONTINUA AD ATTACCARE L’UCRAINA E LANCIA AGGRESSIONI ANCHE IN EUROPA”
I leader europei che cercano di aiutare l’Ucraina a opporsi alla Russia hanno esitato.
Quando venerdì mattina hanno fallito nel loro tentativo di utilizzare i beni russi per finanziare lo sforzo bellico di Kiev, hanno mostrato ancora una volta una divisione sul grado di audacia con cui sono disposti a confrontarsi con Mosca.
Non è la prima volta che l’Europa dimostra di avere difficoltà a mantenere una posizione forte di fronte alle minacce e alle intimidazioni della Russia. I leader hanno affermato che l’appropriazione di beni sovrani costituirebbe un precedente pericoloso e che il complesso piano elaborato dall’Unione Europea non è infallibile.
Una cautela simile è emersa a Washington e in Europa durante tutta la guerra, anche se la Russia ha continuato ad attaccare l’Ucraina, ha lanciato un’ondata di aggressioni nella zona grigia
in Europa e ha sequestrato beni europei e statunitensi bloccati in Russia.
I sostenitori occidentali hanno ripetutamente esitato a inviare attrezzature militari avanzate all’Ucraina per paura di un’escalation del conflitto. Hanno rimproverato Kiev per gli attacchi in profondità in Russia, anche se Mosca ha bombardato l’Ucraina impunemente. Hanno imposto ampie sanzioni, anche sul petrolio e sul gas russi, ma non le hanno applicate in modo tale da provocare un confronto con la Russia o aggravare la guerra commerciale con la Cina.
Ora, i 250 miliardi di dollari di beni russi congelati nei primi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina rimarranno probabilmente inattivi fino alla fine della guerra, potenzialmente disponibili per la ripresa dell’Ucraina ma non per sostenere l’esercito di Kiev o gli sforzi di riarmo dell’Europa.
Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato venerdì che il piano equivaleva a una “rapina” che avrebbe avuto “gravi conseguenze per chi ci avesse provato”, prima fra tutte “un’erosione della fiducia” nell’UE come rifugio sicuro per le attività finanziarie
Putin ha affermato che il piano dell’UE è fallito perché “è difficile prendere decisioni che comportano il saccheggio del denaro altrui”.
Il prestito era quasi un’arma a più punte. I funzionari dell’UE, a cominciare dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, e i leader nazionali, tra cui il cancelliere tedesco Friedrich Merz, volevano sequestrare 90 miliardi di euro come garanzia per il prestito all’Ucraina. Ciò avrebbe aiutato Kiev,
punendo la Russia e alleggerendo l’onere finanziario dell’UE. Invece, i contribuenti dell’UE sono costretti a sostenere i costi del prestito.
Venerdì Merz ha definito la decisione di ripiego – un prestito senza interessi di 90 miliardi di euro per l’Ucraina finanziato da un’obbligazione europea congiunta – «una soluzione pragmatica e valida che raggiunge lo stesso obiettivo».
Merz e von der Leyen avevano puntato in alto e hanno mancato l’obiettivo. Tuttavia, l’Europa ha finito per rafforzare notevolmente la posizione di Kiev nel proseguimento dei negoziati di cessate il fuoco guidati dagli Stati Uniti. Il prestito garantisce all’Ucraina un finanziamento per due anni invece che solo per un altro trimestre
Ma mentre l’Ucraina ha ottenuto ciò di cui aveva bisogno, che in definitiva era ciò che contava per i funzionari di Bruxelles, l’UE ne è uscita ferita.
“Dal punto di vista dell’immagine, la situazione è terribile nel contesto di una guerra in corso”, ha affermato Mark Bathgate, amministratore delegato di Tweeddale Advisors, una società di consulenza politica con sede a Londra che opera per conto di società di investimento. Il risultato “dimostra quanto sia difficile ottenere il sostegno politico necessario per estendere la copertura dei costi tra i paesi europei”
I leader dell’UE temono che tale difficoltà sia destinata ad aumentare. Alla posizione contraria del Belgio si sono unite anche Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. Anche Italia, Bulgaria e Malta hanno espresso perplessità.
I leader europei sostengono che il paradosso dei continui negoziati di pace guidati dagli Stati Uniti è che diventa più difficile ottenere sostegno per lo sforzo bellico dell’Ucraina, anche se i negoziati non hanno ancora dato risultati.
Alcuni alti funzionari sostengono che gran parte dell’Europa non ritiene che la Russia rappresenti una minaccia immediata per il continente. Al termine della riunione dell’UE venerdì mattina, il primo ministro danese Mette Frederiksen, il cui paese è stato tra i più generosi sostenitori dell’Ucraina, ha affermato che molti governi e leader stanno subendo crescenti pressioni interne riguardo alla guerra.
“Devo dire che questo è ciò che Putin spera: la combinazione di una sorta di stanchezza bellica con una guerra ibrida che porta molta incertezza e insicurezza nelle nostre società”, ha affermato.
Frederiksen ha affermato che, sebbene molti europei desiderino la pace, ritiene che la Russia non lo voglia. “Dobbiamo riconoscere che loro si considerano in conflitto con noi e quindi dobbiamo restare uniti e fare ciò che è necessario”, ha affermato.
Traduzione di un estratto dell’articolo di Laurence Norman e Daniel Michaels per il “Wall Street Journal”
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