EPURARE E PUNIRE
L’IDEA DI CULTURA CHE HANNO I SOVRANISTI
Dall’alto del Collegio Romano dove l’ha issato l’ex camerata Meloni, il possente ministro Giuli scaglia fulmini contro tutti i nemici. “Non tolleriamo rendite e parassitismi, i soldi dei contribuenti sono sacri!”, tuona il Giove pluvio, contro i giganti che
osano scalare l’Olimpo. Le ultime due saette piovono improvvise. La prima colpisce Stefano Massini, turpe fustigatore della fascistissima destra al comando e fetido frequentatore dell’odiatissima “Piazza Pulita”: bisogna lavare quest’onta, e così il Teatro della Toscana che dirige va declassato, e dunque de-finanziato.
La seconda incenerisce Nicola Borrelli, infido responsabile della Direzione cinema e audiovisivo, quella che dispensa generose prebende agli amici della parrocchietta di sinistra e — si scopre ora — ha foraggiato persino il criminale Francis Kaufmann, il presunto assassino di Villa Pamphili.
Due vicende totalmente sconnesse l’una dall’altra, ma che riflettono la medesima, becera idea di “egemonia culturale” di questa improbabile Banda Bassotti chiamata Fratelli d’Italia. Che da quando è entrata nella stanza dei bottoni ha solo un imperativo categorico, che non ha nulla a che vedere con i valori della res publica, con la maestà della sua Costituzione e con la dignità delle sue istituzioni: epurare e punire quelli che c’erano prima, occupare e sottomettere tutte le “casematte del potere”.
Alla faccia di Gramsci — che alle masse diceva “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” — i patrioti dicono “dominate, perché dobbiamo coprire tutta la nostra incompetenza”. Va avanti così, ormai da quasi tre anni. Poltrone ministeriali e commissioni scientifiche, fondazioni culturali e musei, teatri ed enti lirici, premi letterari e bande musicali: è tutta Cosa loro, dall’informazione al cinema, dalla Treccani alla Rai. Hanno fatto una mostra penosa su Tolkien e una dignitosa sul futurismo. Valditara ha difeso il patriarcato, Mollicone ha attaccato Peppa Pig, La Russa ha commemorato i “musici altoatesini in pensione” sterminati dai partigiani vigliacchi a Via Rasella. E questo, sulle
politiche culturali, è più o meno tutto.
Siamo passati dall’intellettuale della Magna Grecia Sangiuliano — che discettava della “Times Square di Londra” e premiava i libri dello Strega senza averli letti — al divo Giuli che scrive dotti pamphlet proprio su Gramsci. A rileggerlo oggi non viene da piangere. Volava altissimo, il non ancora ministro dei Beni artistici e culturali: “Fuor dalla metafora orfico-tolkeniana, è giunta l’ora che la destra italiana, ormai adulta, celebri il proprio ingresso nell’età matura, e si lasci alle spalle … ogni lacerto di nostalgia per un’identità illusoria animata da fantasticherie revansciste, reazionarie, regressive… La Repubblica è per antica definizione res sacra”, e dunque “esige un’adesione scevra da qualsiasi condizionamento confessionale brandito come strumento di dominio o di esclusione”.
Poi invitava la destra a non “vedere la cultura come il terreno di una guerra di trincea, in cui eserciti contrapposti si contendono posizioni di potere” e in piena trance classicista la spingeva a valorizzare “ciò che ci unisce, più importante di ciò che ci divide”, perché “passando attraverso dei logoi che mettono a contesa una verità, si può arrivare ad annodare i fili di una condivisione”.
Capite allora lo sgomento, nel constatare come nel giro di un solo anno quei “fili annodati” si siano sciolti in manganelli e olio di ricino contro il “culturame” della sinistra woke e radical chic. Forse Giuli, come presentiva nel suo colto libello, si è accorto che “l’agente collassante di un’onda quantica è la coscienza”. E la coscienza deve avergli rigurgitato addosso tutto il suo passato di militante missino vissuto con la “calimera” Giorgia: “Il Signore degli Anelli” e i riti pagani sul Soratte, il Meridiano Zero e l’aquila tatuata sul petto. Fatto sta che adesso il ministro fa l’opposto di
quello che predicava da inquieto dandy del Gianicolo. E lo rivendica con orgoglio: “Stiamo governando la cultura veramente da patrioti”. Qui, davvero, non mente.
Dopo aver deriso la sinistra che “non ha più intellettuali ma solo comici”, dopo aver offeso attori e registi che al Quirinale chiedono ascolto su una dissennata riforma del tax credit, dopo aver preso a pesci in faccia Elio Germano come “rappresentante di una minoranza rumorosa che ciancia in solitudine”, è veramente “da patrioti” cavalcare l’onda ideologica di una tragedia di cronaca nera per chiudere i conti con quel covo di loschi bolscevichi del cinema che campano grazie all’amichettismo di Stato.
Giuli schiuma “sgomento e rabbia”: di fronte al delinquente Kaufmann che prima di massacrare a Villa Pamphili la compagna Anastasia e la figlioletta di 6 mesi avrebbe incassato indirettamente 836 mila euro dal ministero per un film mai girato, ma soprattutto “di fronte a un sistema di finanziamenti al cinema che ha consentito in passato leggerezze e sprechi”. E lo giura col sangue: “Non permetteremo più che questo accada”.
Non dice che a presentare la domanda di finanziamento è stato il titolare di una società in perfetta regola. E nemmeno che a dare il via libera è stato proprio quel Borrelli, capo della Divisione Cinema, insediato al ministero da Sandro Bondi nel Berlusconi IV del 2008, confermato dai cinque ministri successivi e al quale lui stesso ha rinnovato l’incarico tre giorni fa. Se ci ha ripensato, lo cacci. Se no, taccia. E rinunci alla caccia alle streghe comuniste: esistono solo nella mente dei volonterosi carnefici del nuovo Minculpop, convinti come il duce che “il cinema è l’arma più forte”
Dopo il repulisti sovranista agli Uffizi di Firenze e alla Pinacoteca di Brera, dopo la rimozione forzata del noto anarco-insurrezionalista Tomaso Montanari al Museo Ginori di Sesto Fiorentino, dopo il blitz sullo statuto dell’Accademia del cinema italiano per far decidere al ministro della Cultura anche i David di Donatello e sulla governance del Centro sperimentale cinematografico per far nominare i vertici dall’esecutivo, è veramente “da patrioti” sparare a zero su Stefano Massini e i tre teatri toscani che dirige, tagliandogli venti punti di qualità per togliergli qualche milione di finanziamento.
E pazienza se nel programma della prossima stagione il pericoloso agit-prop della splendida “Trilogia Lehman” porterà sul palco Trump, i femminicidi, le guerre, con compagnie nazionali e internazionali. A dimostrare che non merita quei soldi provvederanno i novelli Pavolini del Collegio Romano. Come l’apposito Gianmarco Mazzi, sottosegretario pupillo di Fazzolari: toccherà a lui eseguire l’ordine. Massini è “rosso”, quindi deve pagare. Come Saviano e Scurati, come Augias e Benigni, come Gruber e Fazio. Come tutti i sovversivi e i dissidenti dell’infinita “lista dei nemici” squadernata magistralmente al Senato da Filippo Sensi. Questa è la “destra reale”, che gestisce dossier a Palazzo Chigi con lo stesso spirito di vendetta di quando covava rancori a Colle Oppio. Stanno f
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