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“CASO MACCHI, UN PRETE CONOSCE LA VERITA”

LA TESTIMONE CHE RIAPRE IL CASO… L’OMICIDIO DELLA STUDENTESSA DI VARESE NEL 1987 E GLI INTRECCI CON COMUNIONE E LIBERAZIONE… CACCIA AL SACERDOTE CHE HA RICEVUTO LA CONFESSIONE

Scrive sempre, scrive tutto, Patrizia. Annota ogni frase di quel ragazzo di cui si è invaghita. Patrizia Bianchi è la super-testimone che con le sue rivelazioni lo scorso 15 gennaio ha portato all’arresto di Stefano Binda, accusato di essere l’assassino di Lidia Macchi, a quasi 30 anni dall’omicidio avvenuto il 5 gennaio 1987.
È lei ad aver riconosciuto la grafia di Binda dalla lettera mostrata più volte dai quotidiani locali e poi nel 2014 dal programma tv «Quarto grado», una lettera anonima intitolata «In morte di un’amica» e inviata a casa Macchi il giorno del funerale di Lidia, il 10 gennaio.
E’ sempre lei ad aver consegnato le cartoline ricevute da Binda e messe a confronto per la perizia grafica che ha indirizzato gli inquirenti a Brebbia, a casa di Stefano, un uomo disoccupato e con grandi problemi di eroina. Ma questa è storia nota.
LA CONFIDENZA AL DON  
La Stampa è in grado di rivelare un’altra confessione registrata da Patrizia su una sua agenda e ora in mano agli investigatori come ulteriore prova contro Binda: un documento che aprirebbe uno scenario inedito, confermando voci sempre circolate attorno al delitto e ai misteri che lo hanno avvolto per anni, e cioè che un sacerdote sa quello che è successo.
Lidia è stata uccisa con 29 coltellate all’uscita dall’ospedale di Cittiglio, mezz’ora circa di macchina da Varese, dove era ricoverata l’amica Paola Bonari. Le sue tracce si perdono poco dopo le 20, quando una testimone vede uscire a bassa velocità  dal parcheggio la Panda rossa dei Macchi.
Lidia viene ritrovata senza vita in un bosco in località  Sass Pinì, a 700 metri dall’ospedale. Il corpo a terra coperto da un cartone e il liquido seminale come prova di un rapporto sessuale.
La comunità  di Varese è ancora sconvolta dall’omicidio, quando Patrizia raggiunge Stefano davanti alla chiesa di San Vittore.
Secondo gli appunti della donna il dialogo è questo: «Tu non sai, non puoi nemmeno immaginare cosa sono stato capace di fare». Firmato, tra parentesi, “T.” «Forse è per questo, di certo per questo, che non ho insistito nel chiederti perchè vai a letto così tardi». Firmato “L”. «Per quanto è nelle tue responsabilità , e questo solo Dio lo sa, io ti perdono». Firmato “D”.
Chi sono, “T”, “L” e “D”? Sono iniziali: le prime due stanno per Teti e Loa, i soprannomi affettuosi che si scambiavano Stefano e Patrizia. Il terzo per Don.
E’ un prete che, secondo la ricostruzione di Patrizia, avrebbe ricevuto la confessione dell’assassinio. Un prete, ancora. E’ una storia piena di preti, questa.
Perchè è una storia che coinvolge uno dei più importanti movimenti ecclesiali in Italia. Lidia, Stefano e Patrizia facevano parte di Comunione e Liberazione, un brand politico-religioso che a Varese domina sin dalle origini. E’ su questa cerchia di amici che puntano subito gli investigatori, lasciando un’ombra su Cl che non se ne andrà  mai più.
LA CORTINA DI SILENZIO DI CL  
Si parla di coperture, depistaggi, silenzi più o meno complici: «Non è omertà , è legittima riservatezza» ci dice Alberto Macchi, il fratello di Lidia, che aveva 10 mesi alla sua morte e come tutta la famiglia ne ha seguito le orme in Cl. Gianni Spartà  è la memoria di Varese, il cronista, oggi in pensione, che più di ogni altro si è occupato di quella che per lui è diventata un’ossessione al punto da titolare «L’impossibile verità » il capitolo su Lidia del suo ultimo libro Tutta un’altra storia.
Spartà  ci racconta un episodio: «La sera del ritrovamento di Lidia venne in redazione da noi alla Prealpina il sindaco ciellino Maurizio Sabatini e mi disse: “Questo non è un delitto come gli altri”».
Cosa voleva dire? Anche il capo della mobile di allora, Giorgio Paolillo, conferma che Sabatini cercava in ogni modo di allontanare i sospetti dai ciellini. Le pressioni sulla procura e sul pm Agostino Abate, anche per i suoi modi bruschi di condurre gli interrogatori, furono fortissime.
Quattro parlamentari della Dc presentarono un’interrogazione parlamentare. Abate aveva fermato per un giorno quattro preti e un laico, un dirigente di Cl, per torchiarli. Da Milano arrivarono le proteste della Curia guidata dal cardinale Carlo Maria Martini.
Don Giussani chiese di mandare a Varese Federico Stella, il super avvocato della chiesa ambrosiana, per tutelare gli amici ciellini di Lidia: «Sembravano tutti pilotati da una regia. Rispondevano solo sì, no, non lo so. E ognuno dava una versione che suonava concordata» racconta Paolillo. Lui stesso fu avvicinato da don Riccardo Pezzoni, il prevosto di Varese.
In un irrituale colloquio gli consigliò di lasciar stare preti e ciellini: «Perchè non indagate sulle sette sataniche?» gli domandò.
La chiusura del Movimento, forse solo per paura, fu immediata. Sta di fatto che mancò la collaborazione con i magistrati. Partì anche una campagna per togliere l’inchiesta ad Abate.
A guidarla il capo di Cl a Varese, Giulio Cova. Oggi è preside all’istituto Manfredini e ci accoglie nel suo studio dove ricostruisce una riunione di allora tra i ciellini più in vista in città  per sapere dai ragazzi cosa avessero detto durante gli interrogatori.
«Cl era nel mirino, ricevevamo telefonate di minacce e c’era chi si voleva fare giustizia da solo».
Negli anni però il sospetto che qualcuno sapesse o coprisse un segreto è sempre rimasto. Dalla questura varesina filtra lo stupore degli investigatori : «C’è tanta omertà  ancora oggi. Neanche a Palermo è così».
Anche all’avvocato della famiglia Macchi, Daniele Pizzi, che ha ottenuto la riesumazione della salma, non è sfuggito l’«abbraccio avvolgente e tranquillizzante» dell’intero Movimento attorno ai parenti di Lidia, santificata come una martire da Cl. Certamente non può non suonare strano che gli avvocati di Binda, cioè del presunto assassino di Lidia, Sergio Martelli e Roberto Pasella, siano anch’essi ciellini e amici dei Macchi. A consigliarli a Binda è Marco Pippione, altro responsabile ciellino.
I DUBBI DEL PARROCO  
Di Cl è anche don Baroncini, la guida spirituale che pochi mesi prima del delitto era stato trasferito a Milano.
Nella sua grafomania, Patrizia annota in agenda, parola per parola, persino l’omelia funebre per Lidia di don Baroncini. E’ lui il prete a cui lei fa riferimento nei diari, colui che avrebbe raccolto il pentimento dell’assassino?
E’ l’ipotesi più forte, basata sui ricordi, anche se incerti, della donna interrogata dagli inquirenti. «E’ don Fabio, o don Serafino» dice.
Il secondo è il parroco di Brebbia, il paese a venti chilometri da Varese dove vive Binda. Don Serafino è morto tre anni fa. Patrizia ci risponde al citofono ma non vuole rilasciare dichiarazioni.
Don Baroncini invece è in servizio alla parrocchia di San Martino nel quartiere Niguarda di Milano. Lo raggiungiamo in canonica, prima della messa.
Sul tavolo del suo studio un ritaglio di giornale sul caso Macchi, e appesa al muro una grande foto di due ragazzi in abiti da montagna: don Fabio e il futuro cardinale Angelo Scola.
Sono tra i primi seguaci di don Luigi Giussani, fondatore di Cl. Subito dopo l’arresto di Binda, don Baroncini si è lasciato sfuggire una frase («Non c’è ancora tutta la verità ») che ha attirato l’attenzione degli inquirenti. «Il mio era un augurio. Tre indizi non fanno una prova. Questo è un pasticcio. L’ho detta anche al giudice che si è offesa». E sospira: «Il questore di allora mi avvertì che stavano puntando su Cl».
Don Baroncini mostra di non credere alla colpevolezza di Binda anche se ha più volte detto di essere convinto che Lidia conoscesse l’assassino. Chi lo conosce, anche oggi a Brebbia, è stupito. Colpisce che molti della sua vita, assieme al carattere mite, ribadiscano un aspetto: non è mai stato visto in giro con una ragazza. Anche Patrizia ricorda quella che definisce la sua «misoginia», e ricorda un bacio di lui e il suo immediato pentimento.
Durante l’incidente probatorio don Baroncini ha ribadito di essere tenuto per il proprio magistero al segreto confessionale, con una specifica però, la stessa che ripropone a noi prima che gli venga chiesto: «Io non ho mai confessato i ragazzi di Cl. E’ prassi per i ciellini distinguere la guida spirituale dal confessore». Don Baroncini molto probabilmente verrà  interrogato e forse sottoposto al test del Dna.
IL DNA ANONIMO  
Perchè fra i tanti misteri di questa storia c’è anche una traccia genetica sulla linguetta della busta dov’era contenuta la lettera anonima attribuita dalla perizia a Binda. Il Dna è maschile ma non appartiene a Stefano, nè agli altri uomini coinvolti a vario titolo nella vicenda.
Un particolare che va a favore della difesa. L’unico con cui non è stato ancora fatto l’incrocio è don Baroncini. Il parroco ritorna a quegli anni, al banco alla fine dell’aula del liceo Cairoli dove sedeva Stefano.
Lo ricorda con una personalità  affascinante e carismatica. Ricorda lui, Lidia, Patrizia e soprattutto Giuseppe Sotgiu, l’amico più caro di Binda. Anche lui prete, e di Cl. Sotgiu è una figura centrale in questo «cold case».
«Noi non abbiamo mai pensato a Binda, il sospettato è sempre stato Sotgiu» racconta la madre di Lidia, Paola. Sotgiu è il primo indagato dopo l’omicidio, già  29 anni fa, quando al pm Abate fornisce alibi contraddittori sull’amico che al tempo, e fino alle rivelazioni di Patrizia Bianchi, non viene sfiorato dai sospetti dei magistrati.
Dunque è Sotgiu che involontariamente tira dentro per la prima volta Binda. Ma è Sotgiu a essere indagato. Prima che Lidia arrivasse all’ospedale di Cittiglio era lì, pure lui a far visita a Paola.
Si sono incontrati? Sotgiu dice di no. Lo sottopongono al test del Dna, ma la tecnologia dell’epoca non permette una fotografia genetica affidabile.
Così come accaduto anche al responsabile dell’oratorio di San Vittore, la parrocchia di Lidia, il prete chiamato a benedirne la salma.
Si chiama don Antonio Costabile, per 29 anni il suo nome è rimasto l’unico nel fascicolo dei pm di Varese, senza prove. E’ stato scagionato solo due anni fa, quando il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda ha avocato l’inchiesta. Sotgiu invece è stato interrogato più volte. E più volte è apparso reticente, di nuovo contraddittorio agli occhi dei pm.
LA LETTERA DELL’ARCIVESCOVO  
Dopo l’arresto di Binda, i magistrati cercano prove di complicità  o coperture.
Non credono tanto all’omicidio in concorso, ma non escludono che Stefano, disperato, abbia chiesto aiuto. Nel 2015, consapevole di essere indagato, Binda riprende contatti con gli amici del tempo.
Perchè lo fa? Uno è Sotgiu, l’altro è Piergiorgio Bertoldi. Tutti e tre sono di Brebbia. A metterli in contatto è Pippione. La vita li ha divisi, ma il passato ritorna. Bertoldi ha fatto carriera e oggi è arcivescovo e Nunzio in Burkina Faso.
Anche lui ha sempre dimostrato un interesse per Binda e lo dimostra la corrispondenza sequestrata dai pm a casa del presunto assassino, in particolare in una lettera in cui, in toni poetici, Bertoldi cede al fascino del più giovane amico.

Giacomo Galeazzi Marco Grasso Ilario Lombardo
(da “il Secolo XIX”)

This entry was posted on domenica, Marzo 20th, 2016 at 21:35 and is filed under Giustizia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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