Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
STRAGE FUNIVIA, SI PREVEDONO NUOVI AVVISI DI GARANZIA
Sotto la lente di inquirenti e investigatori, nell’inchiesta della procura di
Verbania sull’incidente della funivia del Mottarone che ha provocato 14 morti, entrano ora il ruolo e le presunte responsabilità dell’operatore che quella mattina del 23 maggio, giorno della tragedia, non rimosse i forchettoni dai freni di emergenza su “ordine”, come chiarito da lui stesso a verbale, di Gabriele Tadini, caposervizio.
Le analisi sulle eventuali responsabilità si concentrano su quella mattina, sulla decisione di tenere i ceppi e sulla consapevolezza del dipendente che non li tolse: “Gli addetti avrebbero anche potuto rifiutarsi di disattivare i freni” ha detto la stessa gip, nell’ordinanza con cui ha scarcerato i tre indagati mettendo ai domiciliari Tadini, pur muovendo pesanti critiche all’operato della procura di Verbania.
L’addetto, un manovratore, potrebbe presto entrare nell’elenco degli indagati: sentito come persona informata dei fatti (decisione anche questa aspramente criticata dal gip), è il principale accusatore del caposervizio Tadini, dall’altra notte agli arresti domiciliari nella sua casa di Borgomanero: “E’ stato Gabriele Tadini a ordinare” di mettere “i ceppi” per bloccare i freni di emergenza della cabina e la loro installazione era “avvenuta già dall’inizio della stagione, il 26 aprile, quando l’impianto tornò in funzione dopo le restrizioni anti-Covid” ha detto in un passaggio chiave della sua deposizione. Il dipendente ha aggiunto anche che “Tadini ordinò di far funzionare l’impianto con i ceppi inseriti” a causa delle anomalie al sistema frenante non risolte, “anche se non erano garantite le condizioni di sicurezza necessarie”. Tadini, secondo il manovratore, diceva: “Prima che si rompa il cavo ce ne vuole”
A mettere a verbale il nome dell’operatore che quel giorno mantenne i ceppi sulla cabina 3 “su autorizzazione” di Tadini è stato un dipendente-testimone.
L’operatore chiamato in causa ha poi confermato ai pm che fu il caposervizio a dargli l’ordine ma, in linea col verbale di quest’ultimo, ha anche raccontato che Tadini aveva più volte discusso col gestore Nerini e col direttore Perocchio perché lui avrebbe voluto “chiudere” l’impianto e gli altri due non volevano per “motivi economici”.
È l’unico teste agli atti, in sostanza, che è in linea con Tadini e “accusa” i vertici. L’operatore ha anche descritto Tadini come “demoralizzato” e turbato in quei giorni perché, a suo dire, voleva interrompere le attività della funivia per le anomalie ai freni. A Tadini, secondo l’operatore, vennero fatte “pressioni” da Nerini per non fermare i viaggi delle cabine.
Le analisi su presunte responsabilità di altri, oltre a Tadini, nel tenere su i forchettoni a bloccare i freni si concentrano su quel mattino. Anche se pare che fosse una prassi che andava avanti almeno da fine aprile e non è escluso quindi che contestazioni di omissioni dolose di cautele possano essere portate avanti dagli inquirenti anche per altri giorni in cui la cabina viaggiava coi ceppi inseriti e viaggiatori all’interno, ma per fortuna non accadde nulla.
Uno dei punti su cui si stanno concentrando gli inquirenti è anche l’analisi delle comunicazioni, via chat o mail, tra il caposervizio Gabriele Tadini e il gestore Luigi Nerini e il direttore dell’impianto Enrico Perocchio. L’obiettivo è verificare se ci siano state indicazioni sull’uso dei forchettoni per disattivare i freni di emergenza o sulle anomalie del sistema frenante. Anomalie che hanno portato Tadini a bloccare i freni con “i ceppi”. I telefoni dei tre infatti sono stati sequestrati nei giorni scorsi.
Oltre alla possibilità sempre più concreta che nell’inchiesta entrino nuovi indagati c’è il capitolo degli accertamenti irripetibili, necessari anche per fare chiarezza su un capitolo ancora mancante, la prima causa della strage. Gli accertamenti irripetibili che saranno disposti nell’inchiesta sull’incidente della funivia del Mottarone “sono finalizzati a capire perché la fune si sia rotta e sfilata, e se il sistema frenante avesse dei difetti”, e da queste analisi si vedrà se “emergeranno” anche altre responsabilità. Lo ha chiarito la procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi.
Alcuni accertamenti, ha precisato il magistrato, andranno svolti con la cabina ancora là sul luogo della tragedia e altri “dopo la rimozione della stessa: non sarà dunque facilissimo e rapidissimo e quindi serviranno ditte specializzate”.
Il procuratore ha chiarito di non poter fare ora “ipotesi senza una certezza tecnica” sulla rottura della fune. E per il momento si sa solo che “cronologicamente prima si è spezzata la fune e poi essendo stato disattivato il sistema frenante la cabina è precipitata”.
Bossi è tornata a parlare anche in merito alle scarcerazioni dei due indagati Luigi Nerini, il gestore, e Enrico Perocchio, direttore di esercizio, dei domiciliari a Gabriele Tadini, caposervizio, chiarendo che “l’impianto accusatorio come qualificazione giuridica dei fatti resta invariato e anzi è stato avallato” con la misura cautelare per Tadini per omissione dolosa aggravata dal disastro, e da ciò “ripartiamo”. Sui due il gip parla di indizi insufficienti: “Restano indagati – ha concluso il pm – e l’attività di ricerca prove sarebbe andata avanti comunque”.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
“ENNESIMA PROVA DI UNA GIUSTIZIA MALATA, NON STARO’ PIU’ ZITTO”
“Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verita’, è come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perche’ essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata”.
Lo afferma in una nota Nichi Vendola, dopo la condanna di primo grado nel processo “Ambiente svenduto”
E ancora: “Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Hanno umiliato persone che hanno dedicato l’intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell’Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda. Ho taciuto per quasi 10 anni – conclude Vendola – difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non staro’ piu’ zitto.
Questa condanna per me e per uno scienziato come Assennato e’ una vergogna. Io combattero’ contro questa carneficina del diritto e della verita’”.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 31st, 2021 Riccardo Fucile
SI TRATTA DEL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO SULL’INQUINAMENTO AMBIENTALE PRODOTTO DALLA STABILIMENTO SIDERURGICO
La Corte d’Assise di Taranto ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e
Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo chiamato Ambiente Svenduto sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico.
Rispondono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. La pubblica accusa aveva chiesto 28 anni per Fabio Riva e 25 anni per Nicola Riva.
Tre anni e mezzo di reclusione sono stati inflitti all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola e all’ex presidente della Provincia Gianni Florido per il presunto disastro ambientale negli anni di gestione della famiglia Riva. I pm avevano chiesto la condanna a 5 anni. Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far “ammorbidire” la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva.
Adolfo Buffo, ex direttore dello stabilimento siderurgico di Taranto, ed attuale direttore generale di Acciaierie d’Italia (societa’ tra ArcelorMittal Italia e Invitalia), è stato condannato a 4 anni.
Per Buffo, i pm avevano chiesto la condanna a 20 anni. A Buffo era contestata anche la responsabilita’ di due incidenti mortali sul lavoro.
Ventuno anni di reclusione sono stati invece inflitti all’ex direttore del siderurgico Luigi Capogrosso (28 la richiesta dei pm) e 21 anni anche per Girolamo Archinà, ex consulente dei Riva per le relazioni istituzionali (28 la richiesta dei pm).
Corte d’Assise di Taranto ha disposto la confisca degli impianti dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto per il reato di disastro ambientale imputato alla gestione Riva. La confisca era stata chiesta dai pm.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 30th, 2021 Riccardo Fucile
IL GIP CREDE ALLA VERSIONE PER CUI TADINI AVREBBE AGITO A INSAPUTA DEL GESTORE E DEL DIRETTORE… LA PROCURA SI RISERVA DI IMPUGNARE LA DECISIONE
Va ai domiciliari Gabriele Tadini, il caposervizio della funivia del Mottarone che ha ammesso di avere bloccato i freni della cabina con l’ormai famigerato “forchettone”. Tornano pienamente liberi invece Luigi Nerini, il gestore dell’impianto, e Enrico Perocchio, direttore di esercizio.
Queste le decisioni del gip di Verbania Donatella Banci Buonamici. I tre erano stati fermati nella notte tra martedì e mercoledì per l’incidente che domenica scorsa ha causato 14 morti.
La decisione del gip è stata letta ai legali dei tre e al procuratore, Olimpia Bossi, nel carcere di Verbania.
Dopo tre giorni, dunque, la giudice ritiene la misura dei domiciliari sufficiente per Tadini, mentre è probabile che per gli altri due, che hanno invece negato di sapere del blocco del freno d’emergenza, non ci siano elementi probatori sufficienti per la misura cautelare.
Una interpretazione confermata dalla procuratrice di Verbania Olimpia Bossi che ha commentato a caldo le scarcerazioni: Il gip – ha spiegato – ha valutato “che non ci sono indizi sufficienti di colpevolezza su Luigi Nerini e su Enrico Perocchio” e ha ritenuto “non credibili sufficientemente le dichiarazioni di Gabriele Tadini”, ha creduto “alla dichiarazione di estraneità di Nerini e Perocchio che hanno scaricato la scelta” dell’uso dei blocchi al freno “su Tadini”.
Per parte sua, la procuratrice ha sottolineato che il lavoro di accertamento delle responsabilità prosegue: “Noi – ha detto – abbiamo accertamenti programmati e che proseguiranno, gli indagati restano gli stessi e manca l’accertamento sul perché la famosa fune si è rotta”. La procura, dopo aver letto attentamente le motivazioni del gip, farà valutazioni “ed esistono semmai strumenti di impugnazione”. Ora, ha aggiunto il magistrato, “bisogna accertare tutte le responsabilità di chi ha concorso a causare questo terribile incidente e da lunedì riprenderemo con tutti i passi tecnici che dovremo fare”.
La decisione, che di fatto smantella l’impianto accusatorio della procura, arriva al termine di una lunga giornata di interrogatori in cui solo il capo del servizio ha confermato quanto aveva già ammesso, mentre il responsabile dell’esercizio ha negato le accuse e il titolare dell’impianto ha allontanato ogni responsabilità.
Nelle otto ore degli interrogatori di garanzia dei tre indagati per la strage del Mottarone, le posizioni già espresse nella notte che ha portato ai fermi si sono cristallizzate davanti alla giudice Banci Buonamici.
Gabriele Tadini ha ripetuto di aver inserito i ceppi per bloccare i freni della cabina numero 3 e di averlo fatto anche altre volte.
Enrico Perocchio ha respinto le accuse a suo carico e scaricato la responsabilità proprio su Tadini, il capo del servizio: “Quella di inserire i forchettoni è stata una sua scelta scellerata”.
Mentre Luigi Nerini, gestore dell’impianto e amministratore unico della Ferrovie Mottarone srl, ha dichiarato che la sicurezza dell’impianto non era “affar suo”.
E alla domanda se sapesse dell’inserimento del forchettone non ha voluto rispondere. Tutti e tre si trovano dal 26 maggio nel carcere di Verbania, accusati di omissione dolosa di cautele aggravata dal disastro, omicidio colposo plurimo e lesioni colpose gravissime.
La gip ha ascoltato per primo Tadini, che già martedì sera ha reso le prime ammissioni spiegando di aver deciso lui di piazzare e mantenere i blocchi sulle ganasce che hanno disattivato il sistema frenante d’emergenza, che non è scattato quando il cavo traente si è spezzato. E lo ha fatto, come quasi “abitualmente” nell’ultimo mese, per evitare blocchi della funivia dovuti alle anomalie dei freni. Così, però, al momento dell’incidente, la cabina numero 3 non è rimasta agganciata al cavo portante ed è volata via. Una scelta, ha spiegato Tadini ai pm, di cui il titolare dell’impianto era “del tutto consapevole”.
Nerini: “La sicurezza non era affar mio” –
La versione di Nerini, però, è opposta. Secondo quanto ha riferito il suo legale, Pasquale Pantano, parlando coi cronisti dopo l’interrogatorio, il gestore ha detto di aver sì saputo dei problemi ai freni nei giorni prima dell’incidente, ma di non essersi attivato in proposito perché la sicurezza dell’impianto “non rientrava nelle sue competenze”. “La sicurezza non è affare dell’esercente, per legge erano Tadini e Perocchio a doversene occupare”, ha raccontato. “Sapevo che c’erano stati problemi al sistema frenante e che era stata chiamata due volte la ditta per ripararlo, ma non che venissero usati i forchettoni per disattivarlo”. Ha aggiunto che il proprio compito è di occuparsi degli “affari della società” e di non aver avuto “alcun interesse a non riparare la funivia”, come invece sostengono i pm.
“Abbiamo dato delle indicazioni, a nostro avviso molto importanti, su chi doveva fare cosa in questa società, cioè chi deve occuparsi della sicurezza dei viaggiatori e chi del business. Nerini ha agito in piena trasparenza. Non era lui a poter fermare la funivia. Per legge è così, due decreti del ministero dei Trasporti dicono che spetta al capo servizio dell’impianto e il direttore di esercizio”, spiega l’avvocato. “Lui non può, perché è in conflitto d’interessi: se lo fa lui interrompe un pubblico servizio. Lui può fermare l’impianto solo se non c’è il direttore d’esercizio. Per favore non dite più che ha risparmiato sulla sicurezza, ha agito in piena trasparenza”.
Perocchio nega: “Una scelta scellerata di Tadini”
“Non sapevo dell’uso dei forchettoni, non ne ero consapevole”, ha detto al gip Enrico Perocchio, responsabile di esercizio dell’impianto e dipendente della Leitner. L’uomo ha dunque negato quanto sostenuto da Tadini, interrogato in precedenza, e cioè che anche lui fosse al corrente dell’uso del dispositivo per bloccare il freno di emergenza che entrava in funzione a causa delle anomalie dell’impianto. “Non salirei mai su una funivia con ganasce, quella di usare i forchettoni è stata una scelta scellerata di Tadini”, ha sottolineato Perocchio, secondo quanto riferito dal suo legale Andrea Da Prato. Che spiega: “Il mio assistito non poteva pensare, prevedere, né sapeva che qualcuno ha fatto un uso scellerato e vietato dalla legge” del dispositivo che ha bloccato i freni d’emergenza. Non lo ha mai saputo, e non c’è traccia del fatto che l’affermazione di Tadini sia in qualche modo sostenuta. Come gliel’avrebbe detto, quando gliel’avrebbe detto? Con una mail, una pec? Non c’è risposta a queste domande”. Perocchio è venuto a conoscenza della disattivazione dei freni, sostiene il legale, “alle 12.09 della domenica, quando Tadini, in un minuto di telefonata o forse meno, gli dice che sono inseriti i forchettoni. È il primo momento in cui apprende questa evenienza, poi, già da lunedì, capisce cosa è successo dalle foto dei giornali. Per lui la presenza del forchettone era un elemento così importante da volerlo comunicare all’autorità giudiziaria, ma non è stato ascoltato”.
Nell’interrogatorio di garanzia, il responsabile di esercizio “ha contrastato, circostanziando con precisione e scrupolo, l’unico elemento che viene utilizzato a suo carico, una breve, generica e secondo me anche superficiale dichiarazione di Tadini sul fatto che anche lui sarebbe stato consapevole” dell’uso del meccanismo.
Sul “movente economico” ipotizzato dalla Procura per la disattivazione dei freni, Da Prato argomenta: “L’ingegner Perocchio non perde denaro se l’impianto resta fermo, è direttore d’esercizio. Se l’esercizio sta chiuso l’ingegner Perocchio dorme tra otto cuscini. Ha una moglie e un figlio che lo aspettano e speriamo di poterglielo riportare oggi stesso”.
Tadini al giudice: “Messo ceppi, anche altre volte”
Da parte sua, il capo servizio dell’impianto – ha detto il difensore Marcello Perillo – ha “risposto in maniera compiuta a diverse domande del giudice” e ha “confermato le sue responsabilità”, ammettendo “di aver messo il forchettone”. Tadini ha detto di aver messo il ceppo blocca-freno anche altre volte e ha spiegato che le anomalie manifestate dall’impianto non erano collegabili alla fune, escludendo collegamenti tra i problemi ai freni e quelli al cavo. “Non sono un delinquente. Non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune si spezzasse”, ha aggiunto.
L’ordinanza del gip
Ventiquattro pagine molto argomentate quelle in cui la gip Donatella Banci Buonamici smonta punto per punto l’impostazione della procura di Verbania, che aveva ritenuto che dovessero essere messi in carcere i tre indagati per la strage del Mottarone.
Luigi Nerini, gestore della funivia (difeso da Pasquale Pantano), Enrico Perocchio (avvocato Andre Da Prato) e Gabriele Tadini (assistito dal legale Marcello Perillo), nella notte sono usciti dalla cella in cui hanno passato quasi 96 ore sulla base di un’ordinanza che non convalida il fermo disposto dalla procura martedì sera.
Un fermo che “è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge e non può essere convalidato”, dice secca all’inizio la giudice. E dopo gli interrogatori “il già scarno quadro indiziario sia stato ancora più indebolito”.
“Non c’era pericolo di fuga”
“Difettava infatti il pericolo di fuga, presupposto indefettibile per procedere al fermo indiziati di reato – insiste – Sono gli stessi pm che hanno operato il fermo a non indicare ALCUN (evidenzia in maiuscolo, ndr) elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati”. E spiega: “Suggestivo ma assolutamente non conferente è il riferimento al clamore mediatico nazionale e internazionale dato alla vicenda: è di palese evidenza la totale irrilevanza di tale condizione al fine di affermare il pericolo di fuga, non potendosi certo farsi ricadere sulla persona dell’indagato un clamore mediatico creatosi attorno alla vicenda”. Non c’era pericolo in particolare che fuggisse Tadini: “L’indagato infatti ha reso ampia confessione, ha ammesso nel dettaglio le proprie condotte, è padre di famiglia, vive e lavora da sempre in questo territorio”.
Il caso di Perocchio
Ancora più palese il caso di Perocchio: “Invece di essere raggiunto nel luogo di residenza da eventuale provvedimento restrittivo, è stato convocato alla stazione di Stresa per essere sentito come testimone. Si è spontaneamente presentato nel cuore della notte e nemmeno per un attimo ha ipotizzato la fuga. Ma v’è di più: Perocchio immediatamente ha chiesto inutilmente di essere sentito per dare la sua versione dei fatti dimostrando in questo modo altro che la volontà di fuggire, bensì la volontà di sottoporsi a ogni richiesta e provvedimento dell’autorità giudiziaria”.
E lo stesso vale per Nerini, che “da subito nei momenti iniziali della tragedia si è messo a disposizione delle forze dell’ordine rendendo ogni chiarimento. Tanto meno il pericolo di fuga potrebbe ipotizzarsi, come pure ipotizzato dal pm, nella necessità di sottrarsi a un ingente risarcimento del danno: ha un’assicurazione e, anche laddove non vi fosse la copertura assicurativa per le ipotesi di dolo, a maggior ragione Nerini avrebbe avuto interesse a restare sul territorio e difendersi da tale accusa anche per evitare le gravissime ripercussioni economiche su tutta la sua famiglia”.
L’accelerazione nelle indagini
È una risposta equilibrata a quella che era stata vista come un’accelerazione improvvisa delle indagini, tanto rilevante da portare a un fermo per tre persone eseguito nel cuore della notte, e che invece adesso suona come una sconsiderata fuga in avanti non suffragata da basi solide. Per tutti e tre le pm Olimpia Bossi e Laura Carrera avevano chiesto il carcere invece secondo la giudice, Nerini e Perocchio devono essere liberi, mentre per Tadini ha ritenuto giusti gli arresti domiciliari. “Il pericolo di reiterazione del reato per lui è implicito nella reiterazione per lungo tempo da parte del Tadini di una condotta scellerata, della quale aveva piena consapevolezza, posta in essere in totale spregio della vita umana e con una leggerezza sconcertante. Ciò induce a ritenere che il Tadini non abbia la capacità di comprendere la gravità delle proprie condotte e che, trovandosi in analoghe situazioni, reiteri con la stessa leggerezza altre condotte talmente pregiudizievoli per la collettività”.
La prassi scellerata dei forchettoni
Numerosi testimoni, dipendenti della società Ferrovie del Mottarone che ha in concessione la funivia, sentiti e poi risentiti dai carabinieri hanno confermato la prassi scellerata di inserire i forchettoni per disattivare i freni, ma ne attribuiscono la responsabilità al solo Tadini, “mentre nessuno ha parlato del gestore o del direttore d’esercizio”, sottolinea la gip. Tadini stesso sentito inizialmente come testimone aveva fatto convergere su di sé la colpa sostenendo che né Nerini né Perocchio sapessero nulla dei forchettoni. Versione poi cambiata quando la sua posizione è diventata di indagato. A quel punto, dopo sette ore di interrogatorio, ha detto che “tutti sapevano”.
Incolpati per condividere il peso
Ma la gip spiega bene: “Tadini sapeva benissimo di aver preso lui la decisione di non rimuovere i ceppi, Tadini sapeva perfettamente che il suo gesto scellerato aveva provocato la morte di 14 persone, Tadini sapeva che sarebbe stato chiamato a rispondere anche e soprattutto in termini civili del disastro causato. E allora perché non condividere questo immane peso, anche economico, con le uniche due persone che avrebbero avuto la possibilità di sostenere un risarcimento danni? Perché non attribuire ANCHE a Nerini e Perocchio la decisione di non rimuovere i ceppi? Tadini sapeva benissimo che chiamando in correità i soggetti FORTI del gruppo, il suo profilo di responsabilità, se non escluso, sarebbe stato attenuato”. Ma le argomentazioni di Tadini, se per le pm sono “logiche”, per la gip “non sono in alcun modo convincenti”. In particolare la giudice analizza la posizione di Perocchio, che è “dipendente della Leitner, percepisce uno stipendio dalla Leitner la quale a sua volta percepisce dalla Ferrovie del Mottarone una somma di 127 mila euro all’anno per l’attività di manutenzione. Perché avrebbe dovuto rifiutare di intervenire per la manutenzione? Perché avrebbe dovuto avallare la scelta scellerata del Tadini? Che interesse avrebbe avuto la Leitner a mantenere in cattive condizioni l’impianto di Stresa? La Leitner aveva tutto da perdere dal malfunzionamento della funivia e Perocchio aveva anche tutto da perdere in termini di professionalità e reputazione dal malfunzionamento dell’impianto di Stresa”
E lo stesso per Nerini: “Percé avrebbe dovuto avallare una simile prassi? La stagione turistica non è ancora iniziata, a causa delle restrizioni Covid mancano del tutto i turisti e in termini di fatturato almeno fino a giugno non è prevedibile un afflusso di turisti. Sarebbe stato certamente questo il momento per sospendere per qualche giorno il servizio per provvedere alla manutenzione”.
L’interrogatorio di convalida
Nell’interrogatorio di convalida il caposervizio Tadini ha continuato ad accusare i suoi superiori: “Ho detto che lasciavo i ceppi sui freni, che ormai era prassi, mi dicevano arrangiati. Ci sono state occasioni in cui mi sono incazzato, mi dicevano di andare avanti invece dovevano chiudere l’impianto”. Solo un dipendente corrobora in parte queste accuse quando dice di aver “udito più volte Tadini discutere animatamente con Perocchio e Nerini perché erano contrari alla chiusura dell’impianto, nonostante la volontà di Tadini fosse di chiudere. Per questo lo vedevo turbato e demoralizzato”. Ma si tratta della testimonianza di un dipendente che rischia anche lui di essere incriminato per la pratica dei forchettoni blocca-freno e che si scontra con altre di segno opposto .
Indagati per reati gravissimi
I tre restano indagati per reati gravissimi: non cambia la contestazione che la procura di Verbania ha mosso nei loro confronti, accusati di omicidio plurimo colposo, lesioni colpose, rimozione di tutele antinfortunistiche per aver posizionato dei ceppi blocca-freno che hanno inibito il funzionamento del freno d’emergenza, e per il solo Tadini c’è anche l’accusa di falso per aver omesso di segnare sul registro giornaliero dei controlli le anomalie all’impianto che da giorni lo tormentavano e che aveva risolto in maniera sconsiderata con i ceppi, i cosiddetti “forchettoni”.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 29th, 2021 Riccardo Fucile
NEL MIRINO DELLA CORTE APPALTI MILIONARI AFFIDATI DA ENTI PUBBLICI SENZA GARA
Il “candidato civico” di Giorgia Meloni, Enrico Michetti, è sotto indagine della
Corte dei Conti del Lazio per alcuni appalti milionari affidati da enti pubblici senza gara. La Procura contabile è abbottonatissima, ma la notizia non depone a favore del cavallo che potrebbe correre per il centrodestra la partita del Campidoglio.
È anche uno smacco per il candidato-docente che all’Università di Cassino insegna proprio Diritto degli enti locali, e la cui cifra professionale è usata dalla Meloni a metro della distanza coi candidati più “politici” e come livella per gli eccessi istrionici da tribuno delle radio romane.
Ma per chi voteranno i romani? Per il professore, per l’avvocato, l’opinionista o l’imprenditore?
Il curriculum di Michetti è lungo ben 18 pagine, più di quello di Draghi. Dal 2017 è insignito del titolo di “benemerito Cavaliere della Repubblica”.
Come avvocato dal 1996 difende centinaia di amministratori locali laziali, dal Comune di Ariccia a Zagarolo. Ha difeso Marrazzo, la Regione Lazio, l’Atac e l’Asl dalle pretese della giustizia contabile che bussa ora alla sua porta: lo studio legale in via Giovanni Nicotera 29, a Roma.
Qui ha sede legale la “Fondazione Gazzetta Amministrativa”, centro nevralgico di una florida industria di servizi per la pubblica amministrazione (Pa) ma anche fonte di guai per alcuni enti che l’hanno alimentata e si ritrovano ora come Pinocchio tra i gendarmi: l’Anac da una parte, la Corte dei Conti dall’altra.
Abbiamo chiamato il quasi-candidato per saperne di più, non ha mai risposto.
Il Michetti-imprenditore potrebbe sembrare solo il “re” dei siti civetta della Pa, ma sarebbe riduttivo.
La sua creatura più nota è la Gazzetta amministrativa della Repubblica Italiana, una piattaforma online che per grafica e loghi evoca quella ufficiale edita dal Poligrafico dello Stato. Ma nulla c’entra, e neppure col sito giustiziamministrativa.it. La Gazzetta ha poi figliato “L’Accademia della Pa” per offrire corsi di alta formazione, da non confondere con la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) fondata nel 1957 per sfornare quadri e dirigenti sotto l’ombrello del governo.
“Mai sentita”, taglia corto la funzionaria che da 12 anni si occupa di formazione alla SNA. Sul sito di Michetti si cercano docenti “in vista dell’apertura delle sedi dell’Accademia in tutto il territorio nazionale”. Per loro, dicono dal call center, è previsto un rimborso spese. Nel 2013 Michetti lancia poi il sito Quotidiano della Pa, da lui diretto. Sembra un bollettino ufficiale del ministero, ma non lo è.
Torniamo alla Gazzetta, il cuore dell’impero: offre soluzioni di formazione, banche dati di norme, sentenze e notizie agli enti locali. Hanno aderito oltre 1.200 enti che – precisano dal call center – “non pagano per servizi commerciali, bensì versano una quota di sottoscrizione in favore della Fondazione”.
La quota minima è 100 euro l’anno ma c’è anche l’“adesione istituzionale” da 10mila. Tra gli aderenti-paganti ci sono piccoli e medi comuni, ma pure l’ Accademia di Brera. Le “quote” raccolte sono briciole di un business che sforna torte ben più grosse, anche grazie ad affidamenti senza gara.
Oltre un milione di euro solo dal Consiglio Regionale del Lazio, che nel 2008 spicca il volo con gli abbonamenti alla rivista giuridica per 33mila euro l’anno. Nel 2011 il Consiglio acquista 1500 accessi online al “sistema informativo e di supporto tecnico-giuridico” per i dipendenti: 675mila euro oltre Iva.
Nel 2012 compra anche la formazione per loro: 360mila euro.
Spese finite nel mirino dell’Anac: quegli affidamenti, secondo l’Anticorruzione, sono tutti diretti, senza gara pubblica e senza una preliminare ricerca comparativa di mercato e dunque illegittimi.
A fine 2018, li deferisce alla Procura della Corte dei Conti. Lo stesso fa con altri. Al fondo c’è un nodo tecnico-giuridico raffinato.
Se si telefona alla Gazzetta, il refrain è sempre lo stesso: “Siamo una Fondazione istituzionale partecipata da enti pubblici, non vendiamo servizi commerciali, ma forniamo soluzioni in convenzione con gli enti che aderiscono al progetto, sottoscrivendo le quote”. Per l’Anac però si tratta di comuni “forniture di servizi svolti a titolo oneroso”, acquistate perlopiù da un soggetto privato (Gazzetta Amministrativa Srl) e come tali “non possono sussistere i presupposti applicativi degli accordi tra pubbliche amministrazioni”. Come fosse un paravento per aggirare il codice degli appalti.
La Fondazione per tutto brilla, salvo la trasparenza. Dal 2013 offre ai comuni il servizio “Amministrazione Trasparente”. Pagando la quota di 100 euro possono caricare su un sito ospite bilanci, personale, bandi, spese etc. Ma la Fondazione si preoccupa poco dei propri: sul suo sito non c’è nulla di tutto questo, nonostante la stessa legge (art. 51) li imponga alle “Fondazioni e agli enti di diritto privato… con bilancio superiore ai 500mila euro la cui attività sia finanziata in modo maggioritario da pubbliche amministrazioni”.
Sarebbe questo il caso, ma la trasparenza si fa col sito degli altri.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 29th, 2021 Riccardo Fucile
E’ LA PARTE CHE TIENE LE DUE ESTREMITA’ DEL CAVO TRAINANTE… NON TRANCIATO DI NETTO MA SI SAREBBE CONSUMATO POCO ALLA VOLTA
Svolta nelle indagini sulla tragedia della funivia Mottarone Stresa in cui hanno perso la vita 14 persone. In queste ore i periti tecnici incaricati dagli inquirenti della Procura di Ivrea sono riusciti a individuare il capo della fune spezzato che insieme alla disattivazione del freno di emergenza è alla base della strage. Il punto di rottura del cavo trainante coincide con la porzione rinchiusa nella morsa di acciaio che tiene unite le due estremità della fune. Si tratta della cosiddetta testa fusa, una porzione del cavo ritenuta tra le più deboli dell’intera struttura e per questo tra le ipotesi principali emerse nei giorni scorsi come possibile motivo alla base della tragedia.
La Testa fusa infatti è la parte meno controllabile dell’intero cavo la cui analisi è svolta periodicamente a vista da un tecnico specializzato a non affidata alla verifica magneto-induttiva delle funi che in quel punto non è in grado di verificarne l’integrità.
Secondo quanto emerso dai primi rilievi effettuati nelle scorse ore sul posto e come si vede dalle immagini riprese dal Tg1, il cavo della funivia si sarebbe spezzato nella parte attaccata alla cabina ma non sarebbe stato tranciato di netto ma si sarebbe consumato poco alla volta con i vari fili di acciaio che mano a mano si sarebbero sfilacciati cedendo infine domenica scorsa.
Sarebbe stata sostituita tra cinque mesi
L’ultima verifica sul cavo era stata effettuata il 5 novembre 2020 quando era stato effettuata proprio verifica magneto-induttiva attraverso una ditta specializzata che aveva verificato tutte le funi dell’impianto.
Per legge però proprio la testa fusa, meno controllabile, andrebbe sostituita ogni cinque anni e i gestori dell’impianto avrebbero dovuto sostituirla tra cinque mesi.
Ora resta da capire se effettivamente nessuno si sia accorto dell’elevata usura e perché. Secondo quanto emerso dalle ultime indagini, da giorni nella cabina della funivia crollata si sentivano strani rumori metallicima sui report redatti dopo ogni controllo di routine non erano stati annotati problemi.
§Nella richiesta di custodia cautelare, i pm scrivono che il responsabile dell’attività avrebbe invece sentito il rumore caratteristico della perdita di pressione del sistema frenante della cabina ripetersi ogni due-tre minuti prima del disastro.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 28th, 2021 Riccardo Fucile
E ALLORA NE HA DA ASPETTARE, LE SCUSE SONO COSA DA UOMINI VERI
“Esprimo le mie scuse a Simone Uggetti”. Luigi Di Maio ha affidato a una lettera inviata al quotidiano Il Foglio nella quale tornato sulla vicenda giudiziaria dell’ex sindaco di Lodi che è stato prima condannato e poi assolto in appello nel processo che lo vedeva accusato di turbativa d’asta. Il 3 maggio 2016 Uggetti venne arrestato aver modificato il bando per la gestione delle piscine estive Belgiardino e Ferrabini.
Nella sua lettera il ministro degli Esteri ricorda che “nella stessa piazza e nello stesso week-end, prima il Movimento 5 stelle con la mia presenza e il giorno dopo la Lega di Matteo Salvini, con Calderoli, organizzarono dei sit-in contro il dottor Uggetti fino a spingerlo, un mese dopo l’arresto, alle dimissioni. L’arresto era senz’ altro un fatto grave in sé, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli. Il periodo dell’arresto di Uggetti coincise con le campagne elettorali che nel 2016 coinvolsero le città di Roma, Torino, Napoli, Milano e Bologna: una tornata, lo ricorderà, senza esclusione di colpi. Anche io contribuii ad alzare i toni e a esacerbare il clima. Sul caso Uggetti fu lanciata una campagna social molto dura a cui si aggiunse il presidio in piazza, con tanto di accuse alla giunta di nascondere altre irregolarità, insinuazioni che suonano come indicative, con il senno di poi, credo siano stati profondamente sbagliati”. Nel suo mea culpa pubblico Di Maio aggiunge di non voler essere frainteso: “Sono fortemente convinto che chi si candida a rappresentare le istituzioni abbia il dovere di mostrarsi sempre trasparente nei confronti dei cittadini, e che la cosiddetta questione morale non possa essere sacrificata sull’altare di un “cieco garantismo” – ha concluso – il punto qui è un altro e ben più ampio, ovvero l’utilizzo della gogna mediatica come strumento di campagna elettorale”.
La risposta
“Ho letto la dichiarazione di Di Maio nei miei confronti ma, su quanto detto, devo ragionarci bene prima di commentare”.
“Aspetto le scuse di Salvini”
“Ho sofferto e la sto superando: spero non si facciano più gli stessi errori, francamente – ha aggiunto l’ex sindaco -. Bene le scuse di Di Maio ma adesso aspetto quelle di Salvini, perché, quando venne a Lodi, mimò il gesto delle manette. Io avevo solo lavorato nell’interesse della mia comunità”.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 28th, 2021 Riccardo Fucile
IL DUBBIO DELLA PROCURA: PER NON PERDERE INCASSI, DA ANNI DI FACEVA COSI’
Potrebbero aggiungersi nuovi indagati nell’indagine sulla tragedia della funivia
Stresa-Mottarone, a cominciare da chi materialmente aveva lasciato i forchettoni all’interno del sistema frenante
I tre arrestati per la strage della funivia Stresa-Mottarone in cui sono morte 14 persone non potevano essere gli unici a sapere che la cabina numero 3 viaggiasse senza freni di emergenza. Il sospetto emerge chiaro negli atti della Procura sugli arresti del titolare delle Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini, il caposervizio Gabriele Tadini e il direttore di esercizio, Enrico Perocchio. L’elenco degli indagati potrebbe rapidamente allungarsi e coinvolgere chi materialmente ha lavorato sull’impianto nell’ultimo mese, periodo in cui come ormai assodato la cabina precipitata stava viaggiando con il divaricatore inserito nel sistema frenante: «Un’intera squadra di operai ha fatto funzionare la funivia con questo bypass – ha detto il capitano dei carabinieri a Repubblica, Luca Gemiale – Difficile dire al momento quanti siano e chi siano, ma di certo non è un sistema che si può far funzionare con una persona sola».
Quel che è certo finora per la procuratrice Olimpia Bossi è che i tre finiti in carcere «erano stati ripetutamente informati».
Finora sono state sentite diverse persone, compresi gli operai che sostituivano Tadini quando non era in turno. Nessuno è stato ancora iscritto nel registro degli indagati, ma l’analisi di pc e cellulari potrebbe far emergere nuovi elementi finora taciuti. Così come si attendono chiarimenti dall’analisi della scatola nera della funivia.
Cosa succedeva negli anni passati
Altro sospetto se possibile ancor più angosciante è su quanti giorni quella cabina abbia viaggiato senza freni. Come emerso dai primi interrogatori al momento dei fermi, di sicuro quella pratica era in uso da almeno il 26 aprile, quando il Piemonte è tornato in zona gialla e sono tornati i primi turisti, dopo un lungo periodo di chiusura legato alle restrizioni per la pandemia di Coronavirus.
Il dubbio che emerge ora tra gli inquirenti, scrive la Stampa, è che quella soluzione rapida ed economica di disattivare i freni pur di non fermare la funivia, e perdere altri incassi, era stata preferita già in passato, negli anni scorsi.
Resta poi il punto oscuro sulle cause che hanno portato alla rottura della fune traente, su cui l’arrivo del superesperto dal Politecnico di Torino potrà fare luce. Ieri il docente di ingegneria meccanica Giorgio Chiandussi ha trascorso fino all’ultimo minuto di luce sul luogo della tragedia. Da lui questa mattina la procuratrice Bossi aspetta le prime analisi, in vista degli interrogatori di garanzia per i tre indagati fissato per domani alle 9 nel carcere di Verbania.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »
Maggio 28th, 2021 Riccardo Fucile
LA LETTERA A IL FOGLIO SUL SINDACO TRAVOLTO DA INCHIESTA GIUDIZIARIA E POI ASSOLTO
“Sull’arresto dell’ex sindaco di Lodi ho contribuito a esacerbare il clima. Mi scuso”. Così in una lettera a Il Foglio il ministro degli Esteri Di Maio fa le sue scuse a Simone Uggetti, esponente del Pd arrestato nel 2016 e costretto alle dimissioni un mese dopo.
“Ricordo bene quei giorni – scrive Di Maio – in cui la notizia dell’arresto portò diversi partiti italiani a chiederne le dimissioni. Nella stessa piazza, e nello stesso weekend, prima il Movimento 5 stelle con la mia presenza e il giorno dopo la Lega di Matteo Salvini, con Calderoli, organizzarono dei sit-in contro il dottor Uggetti fino a spingerlo, un mese dopo l’arresto, alle dimissioni”.
“Con gli occhi di oggi – continua Di Maio – ho guardato con molta attenzione ai fatti di cinque anni fa. L’arresto era senz’altro un fatto grave in sé, che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli”.
″È giusto che in questa sede io esprima le mie scuse”, conclude l’ex capo politico 5 stelle, aggiungendo di voler “aprire una riflessione”, ricordando che “il periodo dell’arresto di Uggetti coincise con le campagne elettorali che nel 2016 coinvolsero le città di Roma, Torino, Napoli, Milano e Bologna”.
(da agenzie)
argomento: Giustizia | Commenta »