COME SEMPRE PAGANO I LAVORATORI PIU’ DEBOLI
IL SALARIO MINIMO E’ NECESSARIO PER STABILIRE UNA SOGLIA DI NEGOZIAZIONE SOTTO LA QUALE E’ VIETATO SCENDERE
Secondo il documento preparato dalla Commissione lavoro del Cnel e presentato ieri all’assemblea per l’approvazione, in Italia non è necessario introdurre un salario minimo per legge perché oltre il 98% dei lavoratori è coperto da un contratto nazionale firmato dai sindacati maggiormente rappresentativi, che “quasi nella totalità dei casi” fissano un minimo tabellare superiore ai 9 euro lordi l’ora.
Mi sembra un ragionamento che non sta in piedi per due motivi.
In primo luogo, il salario minimo per legge è inteso proprio a garantire a tutti, a prescindere dal tipo di contratto e da chi lo ha firmato, una remunerazione oraria minima decente, sotto la quale non è legale andare. Una garanzia che riguarda proprio i lavoratori e le lavoratrici più fragili, meno protetti, per lo più giovani di ambo i sessi, donne di ogni età e immigrati.
Che siano una piccola minoranza non rileva, rispetto alla necessità di stabilire quale sia la soglia minima della decenza.
Viceversa, la strenua opposizione a definire quest’ultima suggerisce che in realtà le cose stiano diversamente, che ci siano molti contratti che invece fissano minimi salariali decisamente inferiori: quelle che il documento CNEL chiama “non trascurabili eccezioni”. È il caso, ad esempio, dei contratti nel settore multi-servizi, oltre che nel lavoro domestico e in agricoltura, ovvero dei settori dove i sindacati sono molto deboli, quando non assenti, e la loro forza contrattuale minima.
Quindi, e questo è il secondo motivo per cui il ragionamento del documento Cnel non sta in piedi, non è solo una questione di “contratti pirata”, ma di forza contrattuale.
L’introduzione di un salario minimo legale darebbe anche al sindacato una base di negoziazione sotto la quale non scendere anche nei contesti dove è più debole, proteggendo i lavoratori e le lavoratrici da forme di sfruttamento indegne di un paese civile.
A queste considerazioni si aggiunga che il documento Cnel ammette che i dati disponibili sulle retribuzioni presentano diverse criticità, sia perché non vi è omogeneità tra le fonti sia perché in alcuni settori – non a caso quelli in cui maggiormente si addensano i salari molto bassi le situazioni contrattuali sono confuse e i fenomeni di elusione diffusi. Se le cose stanno così, di nuovo perché ritenere non necessaria l’introduzione di un salario minimo legale affidandosi a valutazioni su dati incerti? Così come non si capisce perché basare l’analisi solo sui contratti a tempo indeterminato e non anche su quelli a tempo determinato, che notoriamente sono quasi sempre più bassi. O si ritiene legittimo che chi ha un lavoro a tempo determinato, oltre ad avere un reddito annuo inferiore a chi lo ha a tempo indeterminato se lavora meno ore/giorni/mesi, abbia anche una paga oraria più bassa? Introdurre un salario minimo legale non è in contrasto né con il rafforzamento della contrattazione collettiva (anzi vi contribuirebbe), né con l’avvio di un lavoro sistematico di raccolta e verifica di dati sulle retribuzioni – due sviluppi che il documento Cnel pone tra quelli auspicabili.
L’introduzione di un salario minimo legale non risolverà i problemi del lavoro povero, che hanno anche altre cause (part time involontario, precarietà, squilibrio tra reddito disponibile e numerosità della famiglia per cui deve bastare). Ma almeno comincerà a risolvere quella parte del problema che ha a che fare con remunerazioni orarie troppo basse. Aggiungo che una discussione seria su quanto sia il minimo – netto e lordo – che deve compensare un’ora di lavoro sarebbe una grande operazione culturale e di civiltà. Costringerebbe non solo i politici e i sindacalisti, ma tutti noi a interrogarci e confrontarci senza ipocrisie sul valore minimo che attribuiamo al lavoro e a chi lo fa.
(da agenzie)
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