CUNEO FISCALE: GLI INDUSTRIALI CHIEDONO 15 MILIARDI ALTRIMENTI NELLE BUSTE PAGA DEI LAVORATORI NON CAMBIERA’ NULLA
IL GOVERNO PENSA DI STANZIARE TRA 2 E 5 MILIARDI, CONFINDUSTRIA NE CHIEDE IL DOPPIO PER RILANCIARE COMPETITIVITA’ E CONSUMI… CI GUADAGNANO DI PIU’ LE AZIENDE O I DIPENDENTI?
Due gli obiettivi che si vogliono perseguire con un taglio al cuneo fiscale, ossia l’insieme dei carichi fiscali (47,6% la media in Italia) che gravano sul costo del lavoro: aumentare la competitività delle nostre imprese e accrescere il potere d’acquisto delle famiglie.
«Bisogna porsi l’obiettivo di migliorare le condizioni del mercato del lavoro – sottolinea Tito Boeri, economista del lavoro all’Università Bocconi -, che vede dai 7 ai 9 milioni di persone in disagio occupazionale. Se migliorassimo la competitività delle imprese riusciremmo a intercettare la domanda estera, migliorando il mercato del lavoro creeremmo più domanda interna: avremmo entrambi gli effetti. Ecco perchè bisogna fare questa operazione oggi e mettervi tutte le risorse disponibili».
Ci sono però dei rischi.
Secondo Francesco Daveri, docente di economia politica all’Università di Parma, quella allo studio del governo rischia di essere «una manovra tesa più al recupero della domanda, dando più soldi alle famiglie, che a un vero recupero della competitività che permetterebbe di far partecipare il sistema alla ripresa in atto negli Usa e in Germania».
Il timore delle parti sociali è che, anche con un minor costo del lavoro, le imprese non assumano.
«Ma sarebbe più facile far ripartire l’economia puntando sugli elementi forti che non sussidiando le debolezze», ovvero i consumi.
Mariano Bella, a capo dell’ufficio studi di Confcommercio, punterebbe tutto sul taglio dell’Irpef: «Andrebbe a beneficio di tutti, le risorse liberate andrebbero tutte in maggiori consumi».
Quando?
Più soldi nelle tasche delle famiglie, meno spese per le imprese, forse, ma per quanto? L’importante – avvertono tutti gli esperti interpellati – è che non si tratti di un’una tantum, di un provvedimento spot che si fa una volta e basta.
«Quello che conta è che sia sostenibile nel tempo – sostiene Daveri -. Che sia riconosciuta una somma annuale o venga data ogni mese poco per volta, l’importante è che non sia richiesta indietro l’anno successivo».
La somma concentrata in una volta avrebbe maggior visibilità , «ma se venisse detto – prosegue l’economista di Parma – che quest’anno vengono ridati, ad esempio, 25 euro al mese e negli anni prossimi si vuole continuare a farlo, dando magari qualcosa in più, ecco, questo sarebbe un fattore che farebbe cominciare a recuperare fiducia alle persone che, in funzione di questo, potrebbero riprendere a indebitarsi».
Secondo Boeri, la riduzione del prelievo «deve intervenire mese per mese. Non farei cose complicate nè una tantum, ma interventi permanenti: altrimenti non hanno alcun effetto. Si tratta dopotutto di una riduzione delle aliquote: ogni mese si pagherebbe di meno».
Comunque serve più di ogni altra cosa un segnale, perchè come conferma Bella, di Confcommercio, «per adesso la ripresa è solo nei modelli econometrici, non è nei fatti».
Ora occorre, sostiene, «tagliare sprechi nella spesa pubblica e restituire potere d’acquisto. Io sono per un programma strutturale e progressivo che vari le aliquote in maniera stabile, piuttosto che con interventi spot. L’importante è che sia una manovra incisiva e credibile».
Quanto?
Come sempre sull’intervento da fare si scatena il balletto delle cifre.
Il governo, partito da una cifra di 2 miliardi, sarebbe pronto a impegnarne 4 o 5.
Confindustria ne chiede 8-10, di miliardi, il Pdl, con il capogruppo alla Camera Brunetta, almeno 16.
Chi ha ragione? «In un’ipotesi da 2 miliardi – avvisa Boeri – vuol dire che un lavoratore con 30 mila euro in busta paga si vedrebbe aumentare il netto di 30 euro all’anno. Il suo datore di lavoro vedrebbe il costo del lavoro ridursi di 60 euro all’anno: non se ne accorgerebbero nemmeno».
Anche 4 o 5 miliardi «sono pochi, davvero molto pochi. Bisogna porsi un’obiettivo più consistente: 2,5 punti che costano circa 16 miliardi».
Il punto è trovare le risorse. Tagli immediati, ma non solo.
«Con una negoziazione europea si potrebbe cercare di fare intervenire i tagli non subito ma nel corso del tempo, e attuare invece gli sgravi fin da subito».
L’importante, aggiunge Bella, di Confcommercio, «è tagliare veramente il cuneo fiscale, non amplificarlo sui consumi per ridurlo sul lavoro, come avvenuto con l’iva. Sarebbe solo una rimodulazione del cuneo».
Secondo Daveri, avere 300 euro in più all’anno, come viene ipotizzato, non sposterebbe di molto le cose. «La spesa annua delle famiglie è di circa 29 mila euro l’anno. Sarebbe come dare un centesimo. Sono convinto, sebbene in minoranza, che non sarà pompando soldi nelle famiglie che usciremo dalla crisi. Ma per aumentare i consumi servirebbe il 2-3% in più.
Tutto contribuisce, ma non sarà questo a far ripartire il Pil di chissà che, servirà a stabilizzare la riduzione dei consumi».
Come?
Qual è l’intervento più efficiente in termini di taglio del cuneo? Daveri, che preferisce l’intervento sulle imprese «per un recupero di competitività », sostiene che sarebbe utile il taglio dell’Irap sul costo del lavoro «spostando così – suggerisce l’economista di Parma – il finanziamento della spesa sanitaria a carico delle imposte sul reddito».
Di diverso avviso è Bella. Secondo lui occorre «maggior reddito alle famiglie».
Col taglio a favore delle imprese si rischia, sostiene, il trasferimento del costo dei servizi oggi pagati con le imposte sul lavoro alla fiscalità generale.
Il responsabile dell’Ufficio Studi di Confcommercio preferirebbe un taglio secco dell’Irpef, «non vedo altre possibilità ».
Del resto per un’impresa, «pagare 20 allo Stato come sostituto d’imposta per il lavoratore o pagare 18 e dare 2 in più al lavoratore in busta paga sono la stessa cosa. E la competitività non c’entra».
Per accrescerla «meglio ridurre gli adempimenti amministrativi, assicurare una giustizia civile che funzioni…».
Secondo Boeri, invece, «una parte importante deve andare dal lato delle imprese, altrimenti non serve per aumentare la competitività ». E propone una riduzione dei contributi previdenziali dal 32,7 al 30%.
«Poi però – aggiunge l’economista della Bocconi – una parte dovrebbe andare al lavoratore».
In ogni caso, dice Boeri, «alla fine non conta a chi si riducono le tasse. Anche se il taglio fosse tutto sui lavoratori, i datori ne beneficerebbero, magari non subito. Ricontrattando i salari, farebbero ripagare parte di questa riduzione delle tasse ai lavoratori, sotto forma di salari più bassi».
Francesco Spini
Leave a Reply