E’ ATREJU O SANREMO? LA DUCETTA HA TRASFORMANDO LA KERMESSE IN UNA PUNTATA DI “DOMENICA IN” CON MARA VENIER
“LA STAMPA”: “CI SONO TANTI NOMI IMPORTANTI CHE ATTESTANO UN POTERE PERCEPITO COME DURATURO. E’ IL TRIONFO DELLO STATUS QUO IN FORMATO NAZIONAL-POPOLARE O POPULISTA. UN POSTO CENTRALE CE L’HA LA CULTURA DELL’INTRATTENIMENTO PIU’ DEL DIBATTITO SOFFERTO” – “SI LAVORA SUL CORPO BASSO DELLA SOCIETÀ, SULL’UMORE E SULL’IMMAGINARIO DI UN PAESE CHE TIRA A CAMPARE, VUOLE IL QUIETO VIVERE”
Lo scorso anno fu Javier Milei che incantò la sala col suo tango liberista e l’estetica da profeta carismatico che promette di salvare il popolo uccidendo lo Stato. Prima ancora Elon Musk, che aveva conquistato Marte e poi la Casa Bianca.
E andando a ritroso Viktor Orban, accolto, nell’edizione di qualche anno fa, sulle note di “avanti ragazzi di Buda”, e Steve Bannon, l’ideologo del primo Trump e della cancellazione del socialismo su tutto l’orbe terraqueo.
A proposito, anche Rishi Sunak, il teorico del modello Ruanda da cui Giorgia Meloni trasse ispirazione per il suo modello Albania, celebrato poi – sempre lì – con Edi Rama. Ogni volta, una “special relationship” da ostentare
Stavolta invece, in questa edizione di Atreju che inizierà il 6 dicembre e finirà il 14, la più lunga di sempre (evidente prova di forza), stavolta, dicevamo, l’ospitone che tocca le corde profonde dell’identità non c’è, perché certo non si può catalogare come tale Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen e vicepresidente dei Conservatori europei. Chissà, forse è necessità.
Ognuno, per un motivo o per l’altro, è diventato infrequentabile: chi ha domato l’inflazione massacrando i salari, chi è scomparso dai radar (anche se non dai satelliti), chi è caduto in disgrazia con Trump, chi, forse, è un po’ troppo hard da invitare se si continua a sostenere l’Ucraina. E poi i centri in Albania non fun-zio-na-no, ma non si può dire.
Oppure è una scelta. Sia come sia, il nome vero di rilevo è Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Qualche corda la tocca nella tradizione della destra ma parla soprattutto dell’oggi e della prospettiva, e non è affatto male: i due popoli, il processo di pace, il ruolo che vuol agire l’Italia nel Medioriente, eccetera. Interessante. È una notizia, che ci dice quanto Giorgia Meloni punti sul tema internazionale come elemento caratterizzate del suo racconto.
C’è l’enorme parata di ministri (tutti) in panel dedicati. Ci sono i “nemici perfetti” come la giudice Silvia Albano, contraria ai centri in Albania e contraria alla riforma della giustizia, quella a cui in sala non crederà nessuno ma la cui presenza, assieme ai tanti esponenti dell’opposizione (di fatto gli unici assenti sono Landini e Schlein) dà il senso di un luogo aperto, dove si discute.
A proposito: si consiglia di aggiornare lo spartito dell’allarme democratico.
E, ci sono i tanti nomi pop: Mara Venier e Carlo Conti, Ezio Greggio e Raoul Bova, Gigi Buffon, Julio Velasco.
Nomi importanti che anch’essi attestano una forza e un potere esercitato e percepito come duraturo, ma anche una non banale cifra culturale.
Dal recinto cattivista delle “motoseghe” a Sanremo, Striscia e Domenica in. La forza dell’audience e dell’abitudine di tv che hanno perso voglia di sperimentare e stupire. È il trionfo dello status quo in formato nazional-popolare o, forse, nazional-populista, nel senso di circenses.
La Festa come esibizione in cui un posto centrale ce l’ha la cultura dell’intrattenimento più del dibattito sofferto (a proposito, quello sulla cucina italiana con Lollobrigida si annuncia come imperdibile). Ed è tutto così rassicurante e accogliente che viene ri-accolto financo Gianfranco Fini assieme a Francesco Rutelli, in un amarcord della sfida (datata 1993) a sindaco di Roma. Mica su Fiuggi e il sovranismo, però la presenza chiude la fase della damnatio memorie.
L’operazione ha una sua efficacia, perché lavora sul corpo basso della società. Lavora sull’umore e sull’immaginario di un paese che tira a campare, vuole il quieto vivere, Gaza sì ma senza troppe piazze ed è stanco di avventure dopo un decennio sull’ottovolante che ha suscitato grandi entusiasmi e repentini tonfi.
Il mood non è la rivolta ma la stabilità: farsi andare bene ciò che c’è, rientrare a casa, afferrare il telecomando e guardare la tv come una distrazione dalla vita dura. Ecco, questa festa è perfetta per un paese che si vuole accontentare di ciò che ha.
(da agenzie)
Leave a Reply