GIORGIA DECISIONISTA A CACCIA DI MIRACOLI
A QUANDO LA FOTO CON GLI STIVALONI DI CRAXIANA MEMORIA?
Magari toccherà anche a lei, prima o poi, essere ritratta con gli stivaloni di craxiana memoria, e probabilmente lo prenderà come un omaggio: il decisionismo è il nuovo mood di Giorgia Meloni, una modalità ben visibile e addirittura ostentata che sta cancellando la fase “comunitaria” del suo rodaggio politico, quando ci teneva a presentare ogni decisione come frutto delle scelte di una squadra o addirittura di una comunità di intenti.
«Mi fido dei miei alleati» aveva debuttato dopo il giuramento, nella sua prima conferenza stampa in grande stile. In nove mesi la fiducia, se davvero c’era, si è diluita al punto che nell’intervista di Ferragosto la premier ha raccontato senza imbarazzi di non aver informato il suo vice Antonio Tajani dell’intervento sugli extraprofitti bancari: «È più facile fare una misura del genere se la notizia non gira troppo». Amen.
Segue lo stesso copione il confronto aperto sul salario minimo, convocato a dispetto di Matteo Salvini che avrebbe preferito attestarsi sul solito muro contro muro, così come la vicenda di Carlo Nordio lasciato solo nei suoi controversi giudizi su mafia, suicidi in carcere, giustizia.
E pure il viaggio a sorpresa di ieri nell’Albania di Edi Rama, appena bollata dal ministro Francesco Lollobrigida come meta cheap di vacanze senza qualità, racconta una Meloni che in rapida virata verso il fai-da-te: se gli altri non aiutano, intralciano, straparlano, ci si arrangerà tagliandoli fuori dalle decisioni o passandogli sopra con la forza del ruolo.
Nella svolta decisionista di Meloni c’è senza dubbio un vantaggio: lei appare assai meglio dei suoi amici e alleati e la maggioranza dell’elettorato di centrodestra alle prossime Europee non avrà neppure bisogno di vedere il suo nome sulla scheda: ogni buona cosa attribuita al governo risulterà “made in Giorgia” e si potrà votare FdI senza turarsi il naso.
Gli scarsi successi sul fronte dell’immigrazione, i tempi duri che annuncia il Pil, il possibile insuccesso sul fronte del lavoro povero e delle buste paga sotto-soglia, i dati poco esaltanti dell’estate turistica e ogni altro inciampo della ripresa autunnale, Pnrr compreso, saranno invece attribuiti agli altri, a chi non sa navigare o ha navigato male. Decisionismo è anche questo: decidere che ognuno se la cavi da solo, e peggio per lui se fatica a farlo.
Ma al vantaggio si associa un evidente rischio perché l’aura di onnipotenza che l’Italia ha sempre associato ai capi decisionisti può attivare meccanismi difficili da controllare. Non a caso l’altro leader massimo della destra di governo, Silvio Berlusconi, non ha mai usato questo tipo di racconto e ha sempre preferito raffigurarsi come prigioniero di alleati ignavi, capaci solo di produrre veti alle meravigliose cose che avrebbe potuto fare per l’Italia se avesse governato da solo. È stato per un ventennio il suo grande alibi e anche il ritornello di ogni campagna elettorale, quando chiedeva (e otteneva) voti indicando come meta il fatidico 51 per cento che gli avrebbe consentito di gestire il Paese senza vincoli e impicci. La modalità scelta da Meloni è il contrario, e il vero pericolo non è nei mugugni o nei possibili atti ritorsivi di Forza Italia, della Lega o di aree del suo stesso partito, ma nelle altissime aspettative che può suscitare l’idea – piuttosto infondata in un Paese democratico e complesso come l’Italia – di una leader con la bacchetta magica, che può aggiustare tutto a dispetto di tutti, e nelle conseguenti, inevitabili, delusioni.
(da La Stampa)
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