GLI ITALIANI SPACCATI SULLE PIAZZE PRO GAZA, IL 43% A FAVORE DEL BOICOTTAGGIO DI ISRAELE
OPINIONI POLARIZZATE SUL CONFLITTO E SUL RUOLO DELLE MOBILITAZIONI, IL 54,4% NON CREDE PIU’ NEANCHE A QUELLE PER IL LAVORO
Nel Paese delle opinioni spaccate, anche il conflitto israelo-palestinese si trasforma in un terreno di scontro interno. Le manifestazioni pro-Pal(estina), gli scioperi indetti in solidarietà con Gaza, le dichiarazioni del governo e le reazioni dei cittadini ci raccontano molto più dell’Italia che della geopolitica.
Secondo i dati di Only Numbers, il 43% degli italiani si è dichiarato favorevole a un boicottaggio economico contro Israele, mentre il 43,2% è contrario: una divisione quasi perfetta. Non dissimile la lettura delle piazze: per il 44,4% servono solo a contestare il governo Meloni, mentre il 42,7% le interpreta come un grido di pace.
Ancora una volta, la sostanza è oscurata dalla percezione, e la percezione è deformata dalla politica. Lo dimostrano anche i giudizi sulle frasi pronunciate dalla presidente del Consiglio.
Quando Giorgia Meloni, riferendosi allo sciopero per Gaza della scorsa settimana, ha detto: «Non porterà beneficio al popolo palestinese, ma disagi a quello italiano» – è stata giudicata “equilibrata” dal 48,8% degli intervistati, mentre il 40,9% non l’ha condivisa. Al di là delle cifre, emerge una costante: la forma
prevale sul contenuto. Non si discute più se uno sciopero o una protesta siano giusti, opportuni, fondati o meno, ma se siano “fastidiosi”, “strumentali”, “di sinistra” o “di destra”.
La politica si riduce a giudizio morale, dove il dissenso non è una risorsa democratica, ma un comportamento da stigmatizzare. In questo clima, anche i temi del lavoro, storicamente centrali nella cultura politica italiana, sembrano perdere forza mobilitante. Solo un italiano su quattro (27,5%) pensa che uno sciopero per il lavoro potrebbe coinvolgere tante persone quanto la manifestazione per Gaza, mentre il 54,4% non ci crede.
Un dato che fa riflettere: le battaglie che ci riguardano direttamente non sembrano più capaci di accendere coscienze, forse per sfiducia nei risultati, forse per il tradimento delle promesse della politica o forse anche per assuefazione al disagio quotidiano. La forza mobilitante degli scioperi per le cause del lavoro oggi appare svuotata dello slancio originario, non per mancanza di ingiustizie o disuguaglianze – che anzi si moltiplicano -, ma perché il racconto collettivo del lavoro ha perso centralità nella narrazione pubblica.
I sindacati, spesso alla ricerca di visibilità, tendono a proiettarsi verso i grandi temi della politica internazionale, dove l’attenzione mediatica è più garantita, tuttavia così facendo rischiano di smarrire il legame con la quotidianità precaria di chi dovrebbero rappresentare.
Nel frattempo, una nuova generazione riempie le piazze, ma
diserta le urne: aderisce ai simboli, ma diffida delle istituzioni. E sono proprio gli striscioni delle manifestazioni – con i loro slogan radicali, disillusi e a tratti violenti – a dichiararlo apertamente. È il paradosso di un’attivazione politica che non trova canali di rappresentanza credibili, dove la protesta non si traduce in proposta e la piazza resta scollegata dal processo democratico. Forse è proprio da questa frattura che occorre ripartire per ricostruire un linguaggio del lavoro che sia in grado non solo di indignare, ma di mobilitare davvero. Che le piazze si siano mosse in modo così massiccio dopo la partenza della Global Sumud Flotilla non è un dettaglio secondario: è il segno di un’attivazione che segue l’onda emotiva degli eventi, ma raramente la precede.
Oggi è la geopolitica, non il lavoro, a toccare corde profonde. Emblematico, in questo senso, quanto accaduto il 7 ottobre, quando in alcune città come Torino e Bologna, manifestanti pro Palestina sono scesi in piazza con slogan come “Viva il 7 ottobre, viva la resistenza palestinese”, nonostante i divieti e le forti perplessità espresse dalle prefetture. Se le piazze moderne sono luoghi di memoria e di rivendicazione insieme, allora la sfida che ci troviamo di fronte non è solo interpretare il presente, ma riaprire lo spazio per un dissenso che non sia consumato nel confronto morale – violento a tratti maleducato -, ma che si dimostri capace di parlare di giustizia, non solo di indignazione.
Dalla geopolitica alla politica interna
Eppure, mentre la politica si affretta nel dibattito sulla strumentalizzazione della protesta, crescono i segnali di disagio profondo sul fronte interno. L’Italia non è un Paese apatico, ma è un Paese spaccato, frammentato in bolle ideologiche e mediatiche dove ogni fatto diventa pretesto per confermare le proprie convinzioni, anziché tentare di comprenderlo. Il rischio più grande non è il dissenso, ma la sua delegittimazione sistematica. In questo scenario polarizzato, il dato forse più inquietante resta quello che non fa rumore: l’astensione.
Il tema dell’astensionismo
Oggi quasi un italiano su due sceglie di non votare. Dai dati emerge che non sia a causa del disinteresse, ma piuttosto per disillusione. La disaffezione alla politica cresce di pari passo con la percezione che ogni confronto sia sterile, che ogni protesta venga ridotta a tifoseria, che ogni opinione serva più a schierarsi che a capire. È qui che il vero dissenso rischia di spegnersi: non nelle piazze, ma nel silenzio di chi smette di credere che partecipare possa servire ancora a qualcosa. La situazione israelo-palestinese è tragicamente reale, tuttavia in Italia è diventato anche un test culturale e politico: ci dice chi siamo, come leggiamo il mondo, quanto spazio lasciamo alle nostre convinzioni, quanto ancora crediamo nel valore della piazza, della parola, del dialogo e del dissenso, e la risposta oggi appare tutt’altro che rassicurante.
Alessandra Ghisleri
per lastampa.it
Leave a Reply