I CANI E PORCI DI SALVINI E IL NAUFRAGIO ALBANESE
I SEMINATORI DI ODIO CHE DISPREZZANO GLI ESSERI UMANI
Dunque, i migranti sono cani e porci. Dunque, non esiste un limite all’umiliazione e al disprezzo degli esseri umani. Dunque, vale tutto. I dibattiti, anche quelli più seri, decisivi e delicati, sono ridotti a grugniti etilici da osteria. Si apre la bocca e si dice la prima cosa che passa per la mente. Anzi, non la prima, la peggiore, la più volgare. Meglio se feroce, così il successo è assicurato.
Deve essere per questo che il vicepresidente del Consiglio italiano, Matteo Salvini, aggiunge alla personale collana degli orrori verbali una nuova perla: «I confini sono sacri. Non si capisce perché, secondo qualche giudice, qui in Italia possono arrivare cani e porci».
Forse pensa a Viktor Orban che lo chiama «eroe» mentre si bea della sua schietta aggressività medievale, o magari ai suoi amici ultrà della curva del Milan, che loro sì saprebbero come risolvere questo irritante fastidio delle migrazioni mondiali. Loro cani e ai porci saprebbero come fermarli. A cazzotti e pistolettate.
Ma chi riporta alla civiltà i furori tracimanti del Vicepresidente del Consiglio, un uomo che ormai ispira solo timori e idee lugubri?
E chissà quanti di quei cani e di quei porci lavorano nelle nostre case come badanti, nei nostri ospedali come infermieri, ci rifanno le facciate delle case o ci portano il cibo a domicilio, magari anche a Lui. Cani e porci. Non esseri umani. Animali. E sai che liberazione dirlo con voce stentorea a favore di telecamere e della curva degli abbrutiti. Sai come salgono i like e il sogno ridicolo di allargare un bacino elettorale sempre più annoiato dal gran vociare del Capitano indifferente al declinante fascino dei populismi da cortile. Davvero non riesce a fare meglio di così? Davvero la Lega è diventata unicamente stereotipi e cinismo demolitorio? Davvero è capace soltanto di incendiare il confronto istituzionale con i giudici e di invocare la radiazione dal consesso umano di chi è in fuga da guerra e povertà?
Ma nello sconfortante universo zoologico di queste ore, il ministro delle Infrastrutture abbandonate purtroppo non è solo. Uscito ridimensionato dalla mancata Capitol Hill di Palermo (cit. Flavia Perina) – una passerella imbarazzante per delegittimare il tribunale che lo giudica nel caso Open Arms – il leader leghista è stato oscurato, forse non a caso, dal pasticciaccio brutto dei Cpr d’oltremare, un capolavoro di superficialità gestito – resto alle metafore faunistiche – da furbastri o da somari.
Provo a mettere le cose in ordine anche se, confesso, è un esercizio acrobatico di un certo livello. L’Italia manda in Albania sedici migranti che vengono dal Bangladesh e dall’Egitto, dando attuazione concreta, per la prima volta, al costosissimo (ma molto ammirato a Bruxelles) accordo tra Edy Rama e Giorgia Meloni. Esternalizzazione dei disperati, affinché il messaggio arrivi forte e chiaro: se provate a venire da noi finisce male. Deterrenza spiccia. Mezza Europa applaude – stai a vedere che si può fare davvero – l’altra metà osserva indispettita. I giudici italiani applicano una norma europea piuttosto facile da capire. Esiste una lista di Paesi considerati insicuri. Chi arriva da quei confini deve essere protetto. Egitto e Bangladesh sono in quell’elenco. Non esiste alcuna ambiguità, persino in Italia dove ogni parola è ambigua interpretabile e scivolosa. Morale: i sedici disperati tornano da noi con tanto di sentenza di accompagnamento e grandinata di polemiche. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, cresciuto nei tribunali, dice: «Se la magistratura esonda dobbiamo intervenire». Allarme, allarme, allarme. Rilanciato da Salvini, da Meloni («È difficile dare risposte al Paese quando si ha contro anche parte delle istituzioni») e persino dal moderato Tajani. L’intero governo si schiera contro le Toghe. Poteri dello Stato l’un contro l’altro armati. La pubblica opinione – noi – guarda sbadigliando perché allo spettacolino indegno è abituata da quarant’anni. Ma se volessimo prendere sul serio le parole di chi ci guida dovremmo pensare di essere sull’orlo di una guerra civile.
Non è così, ma alzare una spessa cortina fumogena attorno al “processo-Salvini” e sotterrare il dibattito su una manovra che non abbassa le tasse, anzi le incrementa un po’, riduce i fondi alla sanità, non tocca gli stanziamenti alla difesa e si dimentica di mettere nero su bianco i numeri reali degli interventi, è un risultato concreto che Palazzo Chigi incassa in tempo reale.
Parlare dei migranti, fingersi spietati, intransigenti, duri contro i minacciosi invasori, è più facile che spiegare come ridare peso ai salari, spingere la crescita, realizzare un’Autonomia equa e costruire il presidenzialismo.
Eppure, apparentemente, esisterebbe un crinale dove una prova di potenza e determinazione si trasforma in una dimostrazione di impotenza: l’applicazione pratica.
In Albania si è rivelata fallimentare. Paga un prezzo la premier? Nessuno, le basta annunciare un Consiglio dei ministri per domani in cui metterà a posto le cose. Del resto se l’operazione fosse andata a buon fine avrebbe riscosso gloria e onori internazionali. Ora che non funziona ha buon gioco a dire: il governo vi vuole difendere, ma la magistratura ce lo impedisce, le toghe cattive si mettono di traverso.
Una fesseria che funziona sempre. Secondo un sondaggio Ghisleri che pubblichiamo domani, prima dello scontro sui centri albanesi, il tema migranti era al ventesimo posto tra le preoccupazioni degli italiani, sostanzialmente inesistente, oggi balla tra il quinto e l’ottavo posto, agganciandosi alla questione sicurezza.
Meglio alimentare odio, paure e ossessioni complottarde, che discutere di ospedali e pensioni. Meglio rilanciare l’ostilità ideologica nei confronti dei magistrati e chiamare a raccolta fedeli nel fortino, piuttosto che trovare tavoli di confronto. Verrebbe da liquidare tutto con un aggettivo usato da Marco Revelli due giorni fa, qui a Torino: disgustoso.
Ci siamo visti, in via Sacchi 66, a casa di Norberto Bobbio, dove il Comune ha fatto mettere una targa ricordo a vent’anni dalla scomparsa. C’era un sacco di gente. A cominciare da suo figlio Marco. Tutti ipnotizzati dalla frase incisa sulla placca dorata. “Ho imparato a rispettare le idee altrui, ad arrestarmi davanti al segreto di ogni coscienza, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare”. Quanto ci manca Bobbio. Quanto è siderale la distanza tra quella visione e lo sgangherato e confuso situazionismo dell’oggi. Revelli ha preso il microfono. Ha detto: «Via Sacchi 66 non è solo un indirizzo. È un luogo dal quale sono passati la cultura e molta Storia». Lì intorno, in un raggio di poche centinaia di metri, hanno vissuto, assieme, Bobbio e Vittorio Foa, Franco Antonicelli e Massimo Mila, Cesare Pavese e la famiglia Einaudi. Erano gli anni che precedevano la guerra. Gli anni di Mussolini. Delle retate dell’Ovra (Opera Vigilanza Repressione Antifascismo). «Era un nido di antifascisti questo quartiere», dice Revelli. E nel Sancta Sanctorum di Bobbio, finito il disastro mondiale, sarebbero passati intellettuali e capi di Stato, economisti e studenti, industriali e gente comune, comunisti e liberali. Ognuno con le proprie domande. Ognuno certo di trovare risposte chiare. «Questo era Bobbio, un cultore della chiarezza. Della tolleranza. Della pace. Del rispetto dei diritti umani». La chiarezza contro le cortine fumogene dei somari. Pensa che meraviglia! C’è stato un applauso infinito. Poi qualcuno ha detto: «Prendiamo i libri di Bobbio e lasciamoli davanti ai Palazzi romani. Magari imparano qualcosa». Ne è seguita una grande risata. Ma era solo amarezza. Il metro della distanza tra le esigenze della gente comune e il balletto scomposto di poteri che si delegittimano a vicenda, minando alle fondamenta l’architrave su cui si regge qualunque organizzazione civile: la fiducia. Che non si consolida con gli insulti. Ma col pensiero critico. Dal quale – mi appoggio liberamente a Gustavo Zagrebelsky – nasce la scintilla di ogni insubordinazione sana, sale delle democrazie e nemico giurato di ogni autoritarismo.
(da La Stampa)
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