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IL CARO-VITA HA TAGLIATO GLI STIPENDI GIA’ DEL 7,6%

CONTRATTI SCADUTI PER 6 MILIONI, RINNOVI BASSI PER GLI ALTRI

I posti di lavoro sono cresciuti di poco; gli stipendi invece non sono cresciuti per niente. Anzi, a causa dell’aumento del costo della vita, innescato anche dalle ben note sanzioni antirusse, nel 2022 gli occupati italiani hanno subìto una pesante perdita di potere d’acquisto.
Come la Gianna, di cui cantava Rino Gaetano nel 1978, hanno provato a difendere “il salario dall’inflazione”, ma non ci sono riusciti. L’anno appena trascorso segna infatti un record negativo: la differenza tra l’incremento dei prezzi al consumo e quello delle retribuzioni è arrivato a quota 7,6 punti, mai così alto dal 2001, che è anche il primo anno da cui si calcola questo dato. Per capirci, il record precedente fu stabilito nel 2012: 1,8 punti. Tradotto: il mercato del lavoro ha mostrato dei miglioramenti, se non altro perché è stato un po’ meno precario del 2021, ma le tasche dei lavoratori piangono.
C’è poco da rallegrarsi, insomma, per il record del tasso di occupazione raggiunto a dicembre (60,5% anche grazie al calo della popolazione residente) e per l’aumento dei posti a tempo indeterminato (270 mila in più su base annua). La crisi sociale è determinata anche, forse soprattutto, dai guadagni di chi lavora. In primo luogo la lentezza e la debolezza dei rinnovi dei contratti nazionali: sono ancora 6,2 milioni i dipendenti nel nostro Paese con l’accordo di categoria scaduto, quasi la metà del totale. Il tempo medio di attesa è sceso, ma resta superiore ai due anni. L’inesistenza di un salario minimo legale e l’alta concentrazione di addetti in settori a basso valore aggiunto, spesso part time, fanno il resto.
La corsa dei prezzi, quindi, continua a essere irraggiungibile, troppo veloce per i nostri meccanismi di adeguamento delle buste paga. Nella media del 2022, dice Istat, l’indice delle retribuzioni è salito dell’1,1% rispetto all’anno precedente. Gli ultimi contratti a essere recepiti sono tre nel privato (lapidei e materiale estrattivo, gas e acqua, assicurazioni) e quattro per il pubblico, vale a dire la Presidenza del Consiglio, Regioni e autonomie locali, Scuola e Sanità. Rispetto a un anno fa, gli aumenti più elevati sono per i Vigili del fuoco (+11,7%), i dipendenti dei ministeri (9,3%) e nel servizio sanitario (6,1%). Completamente fermi gli stipendi per il commercio, le farmacie private, i pubblici esercizi e gli alberghi.
Tra le partite più spinose resta predominante quella della vigilanza privata e dei servizi fiduciari. Non tanto per il numero di addetti coinvolti – 100 mila in totale – ma perché si tratta di un accordo scaduto nel 2015 e che – malgrado sia firmato da Cgil, Cisl e Uil – riporta cifre incredibilmente basse al fondo della piramide, circa 4,60 euro l’ora. Le trattative restano bloccate, nulla di fatto negli incontri degli ultimi giorni: le associazioni che rappresentano le imprese del settore non fanno offerte migliorative. I confederali devono risolvere il pasticcio commesso nel 2013, quando sono stati accettati quei minimi pur di dare un riconoscimento ai vigilanti non armati, ma ora non possono permettersi di dire sì a somme che, pur superiori a quelle attuali, restino non dignitose. Ecco perché la partita resta molto complicata.
In generale, però, la questione salariale in Italia non inizia certo oggi: com’è noto, siamo l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni reali sono scese nell’ultimo trentennio, ma in questi mesi viviamo un’ulteriore emergenza data dall’inflazione. Il governo però non pare viverla con l’urgenza necessaria: nella legge di Bilancio si è limitato a un piccolo taglio dei contributi, appena un punto in più di quello approvato un anno fa da Mario Draghi (una decina di euro), ma ad esempio si rifiuta di prendere in considerazione la fissazione di un salario minimo. Le esperienze degli altri Paesi europei mostrano che il salario minimo legale è però uno strumento efficace anche quando i lavoratori perdono potere d’acquisto: se sindacati e imprese faticano ad accordarsi sugli aumenti in busta paga, i governi possono dare una spinta nella giusta direzione con meccanismi di aggiustamento della soglia legale più o meno automatici.
In questi mesi l’inflazione non ha colpito certo solo l’Italia, ma gli altri Stati avevano armi in più per mitigarne gli effetti. Prendiamo il caso della Francia: ad agosto 2022 il salario minimo è stato alzato automaticamente. “Nel terzo trimestre 2022 – dice l’Insee, istituto nazionale di statistica e studi economici – le buste paga sono aumentate fortemente in un contesto di elevata inflazione, che ha incoraggiato le trattative salariali e ha portato a una nuova rivalutazione automatica del salario minimo del 2,01%”. Rispetto al terzo trimestre 2021, in Francia i salari sono saliti del 3,8%. In Germania, nel terzo trimestre 2022, i guadagni nominali sono aumentati del 2,3% (ma quelli reali sono scesi del 5,7% a causa dell’inflazione): a ottobre Berlino ha portato il salario minimo a 12 euro, dopo un precedente aumento a 10,45 euro. La Spagna si è mossa molto prima, portando già a inizio 2022 il minimo a mille euro per 14 mensilità. Inoltre Madrid ha raggiunto un accordo per far salire del 9,5% in tre anni le retribuzioni degli statali. E ancora: come ha fatto notare la Uil, in Olanda i lavoratori dell’industria hanno ricevuto un aumento del 9% più un bonus una tantum di mille euro.
C’è poi un altro aspetto da notare nel confronto con l’Europa. A differenza dell’Italia, gli altri Stati stanno rinforzando le reti di protezione sociale. La Germania ha riformato il reddito minimo riducendo le sanzioni per chi non accetta lavori. La Spagna è intervenuta sia con una stretta contro il precariato sia con norme per contrastare il dumping salariale nelle catene degli appalti. In Italia, invece, a luglio sarà sottratto il Reddito di cittadinanza a 400 mila famiglie e a breve saranno allentati i vincoli sui contratti a tempo determinato. Questo indebolimento delle tutele rischia di riversarsi sui salari, poiché fa crescere il potere negoziale delle imprese. Peraltro, essendo tolto agli “occupabili”, il Rdc non potrà più svolgere un’altra funzione svolta finora: quella di integrare le buste paga più basse. A giugno 2022, infatti, si contavano 173 mila persone che, pur avendo un contratto di lavoro attivo mantenevano i requisiti per il Reddito di cittadinanza, a causa dei loro guadagni irrisori. In tutta Europa i sostegni al reddito funzionano anche come in-work benefit, in Italia non sarà più possibile.
(da Il Fatto Quotidiano)

This entry was posted on mercoledì, Febbraio 1st, 2023 at 21:18 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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