IL DANNO AMERICANO
E’ CROLLATA LA RESIDUA CREDIBILITA’ DEGLI STATI UNITI NEL MONDO
Con l’attacco all’Iran Donald Trump avrà forse inflitto gravi danni ai siti atomici persiani ma ha certamente danneggiato la residua credibilità degli Stati Uniti nel mondo. Insieme, ha innescato una crisi nella sua opinione pubblica, da cui è stato votato perché si occupasse del suo paese invece di dedicarsi ad abbattere mostri lontani. E ha palesato le faglie nella sua stessa amministrazione e negli apparati dello Stato, non proprio unanimi nel plaudire alla sua scelta e nel valutarne le conseguenze. Infine, ciò che lui stesso spaccia in privato come “poker strategico”, ovvero l’alone di permanente incertezza creato intorno alle sue intenzioni e che pare molto divertirlo, si sta rovesciando contro il suo brillante ideatore e il paese che deve governare.
Il bluff vale se raro.
Amici e nemici hanno preso nota che il presidente degli Stati Uniti può decretare due settimane di riflessione sul da farsi, riaprire a un
negoziato con l’Iran, salvo lanciare due giorni dopo portentosi missili sul bersaglio grosso, con esiti che il suo stesso Stato maggiore non è in grado di stabilire. Chi volesse stipulare un qualsiasi accordo con questa amministrazione sa che un momento dopo la firma quell’inchiostro potrebbe svelarsi simpatico.
L’impressione diffusa è che Trump sia stato agilmente usato da Netanyahu. Il gregario guida il capo? Quale autorevolezza può esibire il numero uno mondiale se si fa dirigere da una potenza regionale? O anche se solo dà l’impressione di esserlo? Della Cina, che per questa America è ossessione strategica, a Israele interessa poco. Resta da capire perché l’Iran sia considerato a Washington degno di dirottare risorse e attenzione dalla sfida con Pechino.
Certo, l’intimità della relazione israelo-americana è senza pari. Di qui a stabilire che siano lo stesso Stato, la stessa cosa, con i medesimi interessi, moltissimo ne corre. Né in passato sono mancati gli scontri non solo diplomatici fra Washington e Gerusalemme — indimenticato l’attacco israeliano alla USS Liberty l’8 giugno 1967, che provocò 34 vittime. Preistoria per il pubblico, non per apparati dalla memoria elefantina.
Oggi Bibi pare prendere l’amico americano per mano, a indicargli il cammino da percorrere insieme. Nel legittimo interesse del suo paese. Ma qual è l’interesse degli Stati Uniti a invischiarsi nell’ennesima partita mediorientale, quasi le lezioni di Afghanistan e Iraq non fossero sufficienti? Peraltro, contro un avversario di ben altra dimensione.
Teheran è chiamata a scegliere fra due opzioni. La prima è rilanciare con tutte le risorse che restano. In vista di una lunga guerra di logoramento, contando sull’indisponibilità americana a impantanarsi
nella regione e sull’impossibilità per Israele di combattere a tempo indeterminato sui fronti che ha deciso di aprire. Scelta molto rischiosa, non impossibile. La seconda è limitare la rappresaglia per riaprire al negoziato, sia pure da basi sicuramente più fragili. Logica. Troppo logica? Ma è su questo esito che Trump scommette.
E se invece il regime crollasse? Possibile, anche se l’offensiva israelo-americana sembra rinsaldare l’unità nazionale. Riflesso patriottico. Ma soprattutto, chi potrebbe installarsi sul trono che fu dello scià? E che legittimità avrebbe se la sua ascesa derivasse dalla vittoria di chi ha aggredito il suo paese?
Mentre ci interroghiamo sul famoso regime change che tanti danni addusse agli americani e ad altri occidentali — tra cui noi — in precedenti tentativi di imporlo, dobbiamo prendere atto che il cambio di regime sta finora investendo chi vorrebbe promuoverlo
altrove. Lo sconvolgimento che sta minando i regimi di Stati Uniti e Israele è sotto i nostri occhi. Con tutto il rispetto per i persiani, queste derive ci riguardano molto più da vicino.
O dovrebbero riguardarci, se non fossimo affogati nel nostro provincialismo, coraggiosamente denunciato dal ministro Crosetto nel recente discorso di Padova, raro caso di adesione al principio di realtà oggi sommerso dalle propagande. Prima usciremo dall’illusione di essere immuni dalla rivoluzione mondiale in corso, meglio sarà per noi e i nostri discendenti. Se non è già troppo tardi.
(da La Repubblica)
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