IL SENSO (ORIGINALE) DELLE PRIMARIE
LE ANOMALIE DELLE PRIMARIE DEL CENTROSINISTRA… UNA BATTAGLIA CONSUMATA NON ALL’INTERNO DI UN PARTITO MA A UNA VASTA PLATEA…UNO SCONTRO APERTO NON DOPO UNA SCONFITTA, MA ALL’APPROSSIMARSI DI UNA VITTORIA
Si dice che nelle primarie si sono confrontate due concezioni diverse, e forse opposte, della sinistra. Verissimo.
Ma la novità principale non è questa. Nè in Italia, dove due idee diverse, e forse opposte, di sinistra – la prima, a grandi linee, socialdemocratica, la seconda, sempre a grandi linee, «democratica» – si confrontano con alterne sfortune (basta sfogliare gli annali dell’interminabile duello tra Massimo D’Alema e Walter Veltroni) da vent’anni e passa. Nè in Europa, dove le forze socialiste, socialdemocratiche e laburiste non sono affatto, e da un pezzo, quel Moloch operaista, statalista e spendaccione di cui si chiacchiera a sproposito da noi, ma sul nodo identitario si confrontano, e talvolta duramente si scontrano, senza per questo andare in pezzi: di questo già nei tardi anni Novanta ci aveva parlato, per fare l’esempio più classico, l’affermazione di Tony Blair, di questo, esaurito il blairismo, ha continuato a parlarci la vittoria per un pugno di voti di Ed Miliband sul fratello David, poco più di due anni fa, nella contesa per la guida del Labour Party.
A rendere originale il caso italiano, come si sarebbe detto una volta, sono soprattutto altri due fattori.
Il primo, e il più evidente, è che la battaglia non si è consumata in un congresso di partito (per la semplice ragione che da noi partiti propriamente detti non ce ne sono più, e il Pd non sfugge alla regola), ma ha avuto per platea elettorale tre milioni di persone.
Il secondo, su cui, a torto, si riflette meno, è che lo scontro non si è aperto, come vuole gran parte della tradizione della sinistra (non solo italiana) all’indomani di una sconfitta, o di una serie di sconfitte, ma alla vigilia di una vittoria elettorale unanimemente considerata assai probabile.
Anche perchè le elezioni politiche ormai incombono e un competitor, sull’altro, disastratissimo fronte, ancora non c’è: con tutti i rischi di vertigine da successo (Silvio Berlusconi 1994 docet) che un simile vuoto inesorabilmente comporta, visto che l’implosione della destra politica sembra sì inevitabile, ma i suoi elettori, per quanto intristiti e arrabbiati, sono vivi e vegeti.
Si è letto che le primarie sono state un concorso pubblico per l’incarico a candidato premier, svoltosi nella forma di una grande, e salutare, festa democratica.
Anche in questo caso, verissimo.
Ma forse, per i motivi sopra ricordati, sono state pure qualcosa di diverso e di meno facile da decifrare.
Una specie di simulazione di massa delle elezioni vere, resa più realistica dal fatto che, a torto o a ragione, agli occhi della grande maggioranza dell’opinione pubblica, non solo di sinistra, il clou della contesa per la futura premiership è, Mario Monti permettendo, tutto interno alla sinistra.
Questo aiuta a capire, tra l’altro, anche la quantità imbarazzante di endorsement piovuti dalla destra su Matteo Renzi, il più delle volte a modo loro sentiti e sinceri, specie quando a manifestarli non sono stati politici di professione: è il caso, di cui ha detto benissimo Massimo Mucchetti, del fior fiore dell’intellettualità liberista italiana, e della sua curiosa, ricorrente pretesa di chiedere alla sinistra di fare la destra.
Resi alle primarie, a chi le ha coraggiosamente volute e a chi le ha con fortissimo impegno combattute tutti i meriti democratici di questo mondo, resta per Pier Luigi Bersani, e seppure in diversa misura per Renzi, il problema delle secondarie, il problema di vincere cioè, quale che sia la legge elettorale, le elezioni politiche.
Mettendo in conto che a quel punto l’avversario oggi latitante probabilmente ci sarà , forse con le fattezze di Berlusconi, forse no.
Idee, programma, squadra (anzi, squadrone): tutto quello che il vincitore delle primarie promette di mettere in campo da oggi alle prossime settimane, sempre che si tratti di idee, di un programma e di una squadra convincenti, va benissimo. Ma non basta.
Nelle settimane scorse, battendo l’Italia con il suo camper, Renzi ha rilanciato, si intende a modo suo, la «vocazione maggioritaria» cara a Veltroni: l’idea cioè di una sinistra che, finalmente emancipata dai propri anziani e dal proprio passato, può farcela da sola. Bersani questa visione non l’ha mai condivisa, e non solo perchè con quel grumo di storia, valori e interessi che definiamo passato coltiva (come, si è visto, la maggioranza dell’elettorato attivo del Pd, di Sel e dei socialisti) un rapporto diciamo così più rispettoso. È convinto che la sinistra, qualsiasi sinistra, non è mai stata e ben difficilmente sarà maggioranza in questo Paese.
Non si traveste da moderato, ma sa che, per governare, non solo con le ragioni, gli interessi e, naturalmente, i voti dei moderati vanno fatti i conti, ma con una parte almeno del loro mondo bisognerà probabilmente allearsi.
Farlo dopo il voto sarebbe, forse, una soluzione realistica. Ma sarebbe anche una soluzione contraddittoria con la logica stessa delle primarie, e con la conclamata volontà di mettere anche stavolta gli italiani in condizione di sapere chi li governerà la sera stessa delle elezioni.
Fossimo in Bersani, un incontro formale al suo amico Pier Ferdinando Casini, per chiedergli amichevolmente che cosa vuol fare e con chi vuole stare da grande, cominceremmo a chiederlo già adesso.
Paolo Franchi
(da “il Corriere della Sera“)
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