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IL TRAFFICO DI MIGRANTI? RENDE META’ DELLA RICCHEZZA DELLA LIBIA

IL 40% DELLA RICCHEZZA DERIVA DAL PASSAGGIO DI ESSERI UMANI IN FUGA… E IL GOVERNO ITALIANO CONTINUA A VERSARE MILIONI A FONDO PERSO

Era l’Agosto del 2008 e l’allora premier Berlusconi e il colonnello Gheddafi firmavano il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”. «Grazie a questo Trattato l’Italia potrà  vedere ridotto il numero dei clandestini che giungono sulle nostre coste e disporre anche di maggiori quantità  di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità »: questo il commento di Berlusconi, che sotto la tenda di Gheddafi aveva contemporaneamente siglato l’intesa che prevedeva che il nostro Paese risarcisse l’ex colonia con circa 5 miliardi di dollari diluiti in 20 anni.
Gli accordi prevedevano, tra gli altri, investimenti per un’autostrada costiera che avrebbe dovuto attraversare tutta la Libia, dall’Egitto alla Tunisia, la costruzione di alloggi e borse di studio.
L’Italia si diceva certa della piena collaborazione da parte della Libia nel contrasto all’immigrazione clandestina.
Sono passati quasi 10 anni da allora, Gheddafi è morto, Berlusconi non è più al potere, le primavere arabe hanno percorso il Mediterraneo, vi è stata un escalation nei flussi migratori e, tuttavia, in Italia nulla pare essere cambiato, inclusi gli incessanti tentativi di compiacere la Libia e anzi, l’intenzione è di ripartire da dove eravamo rimasti.
E così l’8 luglio scorso si è svolto ad Agrigento il “primo” Forum Economico Italia-Libia organizzato dal ministro degli Affari Esteri Angelino Alfano,e dal vice primo ministro libico Ahmed Maiteeg.
Ha commentato Alfano: «vogliamo consolidare ulteriormente il partenariato bilaterale, fondato sulla cooperazione economica, infrastrutturale ed energetica e promuovere in entrambi gli Stati ulteriori attività  di cooperazione economica e commerciale» inclusa, pare, la ripresa delle attività  da parte di Anas International Enterprise (Aie) per la realizzazione dell’autostrada Ras Ejdyer-Emsaad (quella prevista dal Trattato di amicizia del 2008) per un valore di 125,5 milioni di euro.
E così, sempre a seguito degli accordi siglati nel 2008, in questi anni sono state cedute gratuitamente sei motovedette a Tripoli per il pattugliamento delle acque e per contrastare le partenze di migranti.
Peccato però che a distanza di pochi anni, due delle sei unità  navali cedute siano state affondate, mentre le altre 4 abbiano dovuto essere riportate in Italia per essere riparate: 3,6 milioni di euro dal governo italiano per garantire la manutenzione dei mezzi.
Nel corso degli anni in Libia hanno operato inoltre molte missioni militari, supportate dall’Unione Europea e strenuamente volute dall’Italia.
Si pensi a “Eufor Libya” (Csdp) un’operazione militare (poi fallita) costata 7milioni e 900 mila euro a sostegno dell’assistenza umanitaria nella regione, con comando operativo a Roma; dopo il semi-fallimento di “Eubam Libya” “Missione UE per il controllo dei confini in Libia”, costata 56,5 milioni di Euro, che avrebbe dovuto durare due anni a partire dal maggio 2013 e che nonostante le difficoltà  a realizzarla e l’evidente inefficacia (dal 2013 al 2014 gli sbarchi dalle coste libiche verso l’Italia sono aumentati del 6.000% ) è stata protratta fino a febbraio 2016.
Missione fortemente sostenuta dall’Italia che la considerava come un’azione all’interno di un potenzialmente rinnovato dialogo Ue—Libia; il Consiglio Affari Esteri dell’Ue ci hai poi riprovato, avviando Euformed e, nel giugno 2015, “Eunavfor Med operazione Sophia”, il cui costo è pari a quasi 43 milioni di euro, comando operativo a Roma e durata fino a Dicembre 2018.
E, tuttavia, a oggi quasi il 40% dell’attuale Pil della Libia deriva — di fatto – dal traffico di migranti, secondo quanto affermato da Eunavfor Med.
Il 2017 ha in particolare visto un’escalation da parte dell’Italia in termini di aiuti, accordi e finanziamenti a favore della Libia.
Un vigoroso aumento delle spese per le missioni militari italiane in Libia nel 2017, di fatto quasi triplicato rispetto all’anno scorso: da 17 a 48 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti quelli per il pattugliamento del Mar Libico (l’operazione denominata Mare Sicuro ha un costo di 84 milioni di euro).
A ciò si aggiungano i fondi richiesti dall’Italia e oramai praticamente concessi dalla missione Triton per la cooperazione fra Italia e Libia: 46 milioni di euro per il coordinamento navale alla Libia e altri 35 milioni destinati all’Italia per lo stesso motivo.
Ed è di questi giorni la decisione del Consiglio dei ministri di dare il via alla missione della Marina militare italiana in acque libiche allo scopo di contrastare il traffico illegale di migranti e comunque di contenerne il flusso e di addestrare la guardia costiera libica.
Per fermare l’arrivo di migranti in Europa, l’Italia sta investendo anche sul controllo della frontiera meridionale libica, un’area di confine in mezzo al deserto, da secoli attraversata dalle rotte migratorie e controllata dai trafficanti.
Il 31 marzo a Roma il governo italiano si è fatto garante di un accordo di pace firmato da una sessantina di gruppi tribali che vivono nel sud del paese e che dall’inizio della guerra civile se ne contendono il controllo.
Dopo la firma dell’accordo di pace, il ministro Minniti ha precisato che «una guardia di frontiera libica pattuglierà  i cinquemila chilometri della frontiera meridionale del paese».
Dall’Italia 50 milioni al Niger per rinforzare le sue frontiere in chiave anti migranti.
Si tratta di una zona isolata, dove non ci sono infrastrutture, reti di comunicazione, strutture sanitarie.
In quella regione, inoltre, sono in gioco importanti interessi economici internazionali: passano i principali traffici illeciti diretti in Europa e in Nordafrica (commercio di droga e di armi) e ci sono pozzi petroliferi.
A questo punto il dubbio sorge spontaneo: non è che tutto questo affanno dell’Italia nel tentare di ristabilire i rapporti con la Libia abbia una chiave di lettura diversa e collegata al business del gas e del petrolio?
Questo potrebbe forse spiegare perchè dopo Gentiloni e Minniti, il terzo uomo ad incontrare al-Serraj il 31 luglio scorso a Tripoli , è stato l’Ad dell’Eni, Descalzi. L’incontro è stato l’occasione «per fare il punto sullo sviluppo economico e politico della Libia, alla luce delle recenti evoluzioni che hanno interessato il paese».
Nello stesso giorno, Descalzi ha incontrato il presidente della Noc, la società  nazionale libica alla quale le multinazionali versano una parte dei proventi.
Rispetto al passato, la Noc versa oggi le quote della rendita petrolifera sia al governo di Tobruk sia a quello di Tripoli.
Al centro dei colloqui i possibili futuri sviluppi di affari Italia- Libia. Eni è il principale fornitore di gas del Paese, nonchè il maggiore produttore di idrocarburi straniero in tutte le regioni della Libia che rappresenta per l’Italia uno dei principali fornitori di petrolio e gas.
Fra le attività , il completamento di 10 pozzi offshore, di cui 9 già  perforati nel 2016 e per cui Eni si è aggiudicata il contratto di fornitura e installazione delle strutture. Il primo gas è previsto per il 2018.
Tutte scadenza molto importanti per Eni, ma anche per i libici, che godono di un esenzione dalle quote di produzione Opec. Non dimentichiamo che Eni è presente in Libia dal 1959, dove attualmente produce oltre 350.000 barili al giorno di olio equivalente.
Non vanno inoltre dimenticati i pagamenti dell’Eni verso la Libia che nel 2016 sono stati pari a 1,42 miliardi, di cui quasi 1,3 di imposte e poco più di 155 milioni in forma di royalty.
Forse la parola chiave per comprendere i rapporti Italia-Libia è “petrolio dintorni”

(da “L’Espresso”)

This entry was posted on mercoledì, Agosto 9th, 2017 at 21:52 and is filed under denuncia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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