IL VOTO IN EMILIA: IL PARTITO DELL’ASTENSIONE AVVERSARIO UNICO DEL PD
CON TUTTI I PARTITI COINVOLTI NELLO SCANDALO RIMBORSI, ARRIVARE AL 50% DEI VOTANTI SARA’ GIA’ UN SUCCESSO
I primi due posti sul podio sembrano già prenotati.
Vincitore assoluto il partito stavoltanonvoto. Secondo, un governatore del Pd indebolito.
La vera gara, alle elezioni regionali di domenica in Emilia-Romagna, è semmai per il terzo classificato, in una sorta di test su quale sia il più promettente anti-renzismo prossimo venturo, con la Lega che mira alla sua prima riscossa nell’era post-bossiana.
Non è un caso che gli unici leader nazionali scesi finora in campo per questo mini-macro-test di medio mandato siano i due Mattei, il premier Renzi e il sempre più sfidante Salvini.
«Non basta vincere, bisogna vincere bene», ripete come un mantra nelle soste del suo pellegrinaggio in camper Stefano Bonaccini, quarantasettenne bersaniano- turnedrenziano, il «Bruce Willis di Campogalliano» (questa è di Renzi in persona), già candidato riluttante, sapendo di dover fare gli scongiuri per la prima speranza («ai comizi mi chiamano già presidente, ma non ho ancora vinto…») e di avere problemi con la seconda.
La prospettiva al momento più gettonata è un’affluenza che farà fatica a non scendere sotto la metà degli aventi diritto.
Un collasso democratico nella regione che da sempre primeggia per voglia di urne, 68% nel 2010 e 77% nel 2005.
Se anche il Pd riuscisse a replicare le sue tradizionali percentuali di consenso, un po’ sopra il 50%, per la prima volta governerà la “sua” regione con la metà dei voti della metà dei cittadini.
Oggi dunque arriva Renzi, il Pd punta a riempire d’orgoglio lo storico PalaDozza, la coscrizione dei militanti delle Feste dell’Unità è pressante e probabilmente sortirà il suo effetto.
Ma l’aiuto fraterno del Partito della Nazione rischia di servire poco a un Partito della Regione logorato, giunto ai seggi con un affanno mai visto.
Tutto è andato storto, da quando Vasco Errani ha dovuto lasciare le alte torri di Kenzo Tange per guai giudiziari, e il quindicennio della pax erraniana è andato in frantumi.
Primarie nel caos, candidature e scandidature, da far perdere la pazienza proprio a Renzi che venne su a settembre con un diavolo per capello: «avete fatto un gran casino!».
E dire che, con la sua bacchetta magica di grande narratore, il premier era quasi riuscito a sanare la ferita originaria, riabilitando Errani come eroe del buongoverno a furor di popolo della Festa dell’Unità ; ma poco ha potuto fare di fronte alla catastrofe dell’inchiesta sulle “spese pazze” dei consiglieri regionali, due milioni e passa di euro pubblici da giustificare, inclusi ostriche e sextoys .
L’unica fortuna per i candidati è che ci son finiti dentro praticamente tutti, grillini e leghisti compresi (su 50 consiglieri uscenti sono 41 gli indagati, dodici dei quali si erano intanto ricandidati in varie liste), e dunque la questione morale è miracolosamente evaporata dalla campagna elettorale, non la tira fuori quasi nessuno, tranne i giornali, e gli elettori disgustati. Certo, quei pastrocchi con le notule sono forse meno eclatanti che in altre regioni, ma come dice la politologa Nadia Urbinati, nella terra del buongoverno sono proprio le «piccinerie fastidiose» come il mezzo euro del wc della stazione messo a carico dei contribuenti «a dare l’idea di un uso abituale e privatistico dei soldi di tutti».
Ci mancavano solo i fuori-onda e sono arrivati: con un registratore nel taschino il consigliere exgrillino Defranceschi (espulso proprio perchè indagato anche lui) ha carpito le contumelie riservate dei suoi colleghi contro i giornalisti «servi della gleba», e i loro goffi tentativi di nascondere i panni sporchi, sicchè il capogruppo uscente del Pd Marco Monari, fra i più loquaci, ha dovuto sospendersi dal partito, con scuse, una settimana prima del voto, niente male come viatico.
E dunque tira un’aria che nessuno avrebbe mai detto.
In questa parte d’Italia dove si masticava la politica come a Bisanzio la teologia, la disaffezione si dà voce: assieme a clamorosi abbandoni (Francesco Guccini voterà un candidato di Sel, «scelgo la persona »), inviti ad acrobatici voti disgiunti, sfide da sinistra (una versione emiliana della lista Tsipras guidata dalla storica pasionaria parmense Cristina Quintavalla), serpeggiano sui social network pubbliche confessioni di non-voto, e non suona assurda la domanda del cronista a Romano Prodi (una sua nipote è candidata a Reggio Emilia), professore lei ci va a votare? Risposta, «Ci andrò senz’altro», ma allegata a una pessimista citazione manzoniana: «il buon senso restava nascosto per paura del senso comune».
Come su un altro campo di gioco, la Lega nazionale tenta la sua terza storica calata sotto il decaduto dio Po.
Matteo Salvini pare aver cambiato residenza, in un mese già sei giornate di incursioni, inclusa quella finita a mattonate sul lunotto dell’auto al campo nomadi di Bologna; tornerà ancora oggi e venerdì per concludere nel capoluogo, nel frattempo va in tivù con la scritta “Emilia” sulla felpa e pesta come un martello pneumatico sui temi della sua nuova destra xenofoba, omofoba ed eurofoba.
Il suo campione è il sindaco di Bondeno, il trentacinquenne Alan Fabbri, ma sui poster “vota Fabbri” c’è solo la faccia di Salvini; e dire che sembra anche un tipo simpatico, questo Fabbri, spendibile anche a sinistra, con quei capelli lunghi raccolti in un codino un po’ freak che ha resistito anche al diktat di Berlusconi: «Se lo tagli!».
Già , perchè qui, in quel che resta della destra d’Emilia, non è più l’uomo di Arcore che comanda.
Sfibrata, muta e senza uomini, Forza Italia s’è rassegnata ad attaccarsi al Carroccio pur di non scomparire, le resta solo il diritto al mugugno («Salvini nei campi rom? Solo uno spot»).
Ed è chiaro che se i voti all’alleanza arriveranno copiosi, sarà solo la Lega a intestarseli.
La speranza, non così folle: scavalcare, magari doppiare, addirittura umiliare i Cinquestelle, diretti rivali nell’imprenditoria della rabbia.
Che in Emilia ebbero la loro alba, dal Vaffa-Day di Bologna al trionfo di Parma, ma ora hanno solo tramonti, il sindaco Pizzarotti eretico in odor di scomunica, e presentano agli elettori il magro rendiconto di due consiglieri regionali eletti nel 2010 e poi entrambi cacciati dal partito (il dissidente Favia e l’indagato Defranceschi).
Forse per questo il grande capo di Genova da queste parti non si è ancora visto.
Lui, che due anni fa venne ben due volte in dieci giorni a Budrio, paesino di poche migliaia di anime, per sostenere il suo candidato sindaco, salvo possibili ripensamenti dell’ultimora lascerà sola la modenese Giulia Gibertoni, poco urlante trentacinquenne ricercatrice, diventata capolista con la bellezza di 266 voti dalle primarie online, nel compito di trattenere un impegnativo 20% di voti.
In fondo, non è che una nuova incarnazione del perpetuo laboratorio politico emiliano.
A sud del Po, in questi giorni irato con gli uomini, gonfio come una vena varicosa e tenuto a freno da decine di migliaia di sacchetti di sabbia, si sperimenta con quali sacchetti di rabbia sia più efficace costruire la prossima rampa d’assalto al governo Renzi.
Michele Smargiassi
(da “La Repubblica”)
Leave a Reply