IN ITALIA CHI PRENDE UN SUSSIDIO NON CERCA PIU’ UN LAVORO
UNA SPERIMENTAZIONE PER AIUTARE 28.000 DISOCCUPATI A TROVARE UN NUOVO IMPIEGO HA OTTENUTO SOLO IL 10% DI ADESIONI
Incassa il sussidio e nasconditi.
L’italiano, quando perde il posto e accede agli ammortizzatori sociali, si guarda bene dal cercare un nuovo lavoro.
È una questione culturale, è l’abitudine alle politiche passive del lavoro che rende complicato attivare in Italia sistemi di sostegno al reddito a pioggia, come potrebbe essere il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle.
La conferma viene da una sperimentazione lanciata da Anpal, Agenzia nazionale per le politiche attive del Lavoro, creata a inizio 2017 e diretta da Maurizio Del Conte, professore di Diritto del Lavoro alla Bocconi di Milano.
L’Anpal nasce non solo per rilanciare il sistema nazionale dei centri per l’impiego, ma anche per disegnare nuove strategie di sostegno alla ricerca di nuove opportunità professionali.
L’ente ha avviato lo scorso anno una sperimentazione, coinvolgendo 28 mila disoccupati su una platea di circa 125 mila percettori di Naspi, l’indennità di disoccupazione introdotta dal Jobs Act.
Ai soggetti selezionati – scelti con un sistema randomizzato e quindi estratti a caso su tutto il territorio nazionale – sono state inviate delle lettere per partecipare a un percorso di attivazione su misura con colloqui, corsi di formazione e un sistema di ricollocamento che prevedeva un premio compreso tra i 250 e i 5 mila euro euro per la società o il centro per l’impiego che fossero riuscite a trovare un lavoro alla persona.
Il risultato? Solo 2.800 persone si sono presentate ai centri per l’impiego, vale a dire il 10 per cento degli aventi diritto.
Un esito piuttosto magro, che Maurizio Del Conte prova a spiegare così: «Il dato più negativo di questa sperimentazione è stata sicuramente la bassa partecipazione al piano di attivazione al lavoro. Tendenzialmente abbiamo notato che la reazione delle persone coinvolte è stata quella di nascondersi, di non dare alcun seguito alla proposta offerta».
In parte succede perchè i percettori di disoccupazione sono lavoratori stagionali con contratto a termine e quindi non necessitano di un altro lavoro, ma attendono la ripartenza della stagione, facendo fronte ai periodi di inattività con i sussidi pubblici. Ma in generale «c’è un’assoluta impreparazione e una mancanza di tradizione all’idea che, quando si percepisce indennità , si possa e si debba ricercare attivamente un lavoro», spiega Del Conte, «abbiamo notato che le domande si sono concentrate verso la fine del periodo di copertura economica dell’assegno Naspi. Significa che, solo quando il sussidio economico sta per finire, allora alcune persone si attivano per valutare l’opportunità offerta dai centri per l’impiego. Questo non è buono, perchè tutti gli studi concordano nel dire che più ci si allontana dal periodo di occupazione precedente, più è difficile trovare un nuovo lavoro».
Il professore, più che puntare a un sussidio a pioggia – come quello ipotizzato dal Movimento 5 Stelle, che vorrebbe lanciare un sistema di sostegno al reddito a 360 gradi con il reddito di cittadinanza – avanza l’urgenza di lanciare un piano massivo di formazione culturale, perchè vengano scardinate le cattive abitudini e si punti piuttosto a una immediata ricerca di lavoro, già dal giorno seguente della perdita del posto di lavoro.
Il piano è già cominciato: infatti dal 3 aprile di quest’anno l’assegno di ricollocazione, cioè la sperimentazione descritta sopra, è stata esteso a tutte le persone disoccupate che percepiscono la Naspi da almeno quattro mesi, vale a dire a una platea di un milione di italiani.
Fra qualche mese sarà possibile capire l’attitudine dei percettori di assegno di disoccupazione alla ricerca di un nuovo lavoro.
«Estendendo il progetto, speriamo di raccogliere risultati molto diversi. Infatti nella sperimentazione alcuni lavoratori non si sono presentati perchè non erano stati coinvolti i colleghi di lavoro, poichè non avevano ricevuto la lettera. L’effetto gruppo, invece, potrebbe invogliare molti a partecipare».
Nella fase di sperimentazione, si è aggiunta la preoccupazione che, partecipando all’evento, si mettesse a rischio l’indennità di disoccupazione percepita: «Ma si tratta di una paura ingiustificata, perchè il percorso di formazione e ricollocamento è un’opportunità in più e non toglie nulla», spiega Del Conte.
L’assegno di ricollocazione, infatti, che varia dai 250 ai 5 mila euro a seconda della probabilità di occupabilità del disoccupato e della tipologia di contrato, viene versato all’ente che eroga il servizio di ricollocazione solo se riesce a trovare un posto al disoccupato.
Il progetto, grazie a una nuova disposizione contenuta nella legge di bilancio, si potrà estendere anche ai lavoratori in cassa integrazione straordinaria. In questo caso sono state fatte altre sperimentazioni, concedendo ai percettori di cassa integrazione di mantenere parte dell’ammortizzatore sociale anche quando ha trovato una nuova opportunità di lavoro: qui l’86 per cento dei lavoratori ha aderito all’iniziativa.
«Con Anpal abbiamo iniziato un’inversione di rotta dal punto di vista del messaggio da comunicare ai disoccupati e delle regole di ingaggio. C’è bisogno di far capire alle persone che il sussidio economico non è fine a se stesso, ma deve essere solo finalizzato alla ricerca di un nuovo lavoro. Il rischio, introducendo e ventilando l’ipotesi di un reddito di cittadinanza come lo vorrebbe il Movimento 5 Stelle è tornare a una logica assistenzialista, di dispensare denaro senza avere la possibilità di inserire queste persone nel mondo del lavoro. Perchè oggi i centri per l’impiego non sarebbero in grado di far fronte ai volumi che potrebbero riversarsi lì».
La fase due del jobs act, che doveva concentrarsi sullo sviluppo delle politiche attive, si è bloccata soprattutto a causa della vittoria del No al Referendum del 4 dicembre 2016, che non ha permesso ai centri per l’impiego territoriali di essere unificati sotto un unico ente nazionale.
Al contrario restano vincolati alle specifiche leggi regionali, frammentando parecchio il sistema e rendendo complicato realizzare un unico database con le opportunità occupazionali del paese.
Attualmente le persone che lavorano nei 550 centri per l’impiego nazionali sono 7.500, più 1.500 collaboratori.
Poca cosa se confrontati con i 110 mila addetti alle politiche attive della Germania, i 70 mila del Regno Unito i 60 mila della Francia.
«Nel panorama europeo siamo il paese meno avvezzo alle politiche attive. La nostra tradizione si basa solo sui sussidi di cassa integrazione, un modello oggi non più è sostenibile. Bisogna innanzitutto ripartire dai servizi di ricollocamento non solo potenziandoli, ma assumendo persone con professionalità e competenze».
C’è ancora da affrontare il tema della condizionalità del sussidio: infatti nel Jobs Act esiste l’obbligo per il lavoratore di accettare l’offerta occupazione presentata dal centro per l’impiego, sempre che sia rispondente alla formazione e agli skill professionali della persone, pena il taglio del sussidio economico.
«Il fatto che l’erogazione dell’assegno mensile sia condizionato all’accettazione del percorso lavorativo è una regola esistente già da molti anni. Tuttavia i casi di revoca del sussidio per mancata attivazione a causa del rifiuto del lavoratore sono rarissimi. Siccome il contributo proviene direttamente dallo Stato, non c’è nessuna pressione sul funzionario del centro per l’impiego a segnalare i casi di rifiuto all’Inps, che a sua volta dovrebbe adottare il provvedimento di revoca del sostegno economico stanziato. Questo sistema molto complesso ha reso pura teoria il principio di condizionalità . A tal proposito andrebbe ricostruito tutto il sistema decisionale della condizionalità , in modo da rendere automatico il taglio del sostegno economico in caso di rifiuto».
(da “L’Espresso”)
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