IN TRINCEA A BAKHMUT, LA STALINGRADO UCRAINA OSSESSIONE DI PUTIN
CON IL SOLDATO SEMPLICE OLEKSIY CHE DIFENDE LA CITTA’ DOVE PUTIN “DEVE” VINCERE
La chiamano la Stalingrado ucraina. Pur con le debite proporzioni, dopo cinque mesi di bombe e migliaia di cadaveri nel fango, accostare Bakhmut alla battaglia più drammatica della Seconda guerra mondiale (2 milioni di perdite, tra morti, feriti e dispersi) suona sensato.
La guerra portata da Putin, qui, si è fatta d’attrito e di trincea. Si combatte in campagna, radure immense che illudono e deludono. Si combatte per strada. Si combatte persino tra bottiglie di champagne. È l’unico punto lungo i milletrecento chilometri del fronte dove si sentono le mitragliatrici sparare. E dove, certe notti, fanno diciotto gradi sotto zero.
Il soldato semplice Oleksiy Varchenko voleva fare il commercialista. Economia all’Università di Kiev, i libri, gli esami, le feste di laurea. Un’esperienza all’estero, forse. Ora mette tre paia di calzini e la polvere riscaldante negli stivali, nei guanti e sulle spalle. “Ho imparato che bisogna sempre avere i piedi asciutti e caldi”.
Autodidatta nel buio polare di Bakhmut. “Quando però il buco si riempie d’acqua e affondo fino alle ginocchia, sento i coltelli nella carne”. Il buco, la trincea: da venti giorni il suo immobile posto di lavoro. Ci mette diciotto minuti a raggiungerlo. Avanza a quattro zampe lungo i graffi scavati con la pala, profondi un metro e mezzo. Arriva a ottanta metri dal nemico, a tiro di fucile.
Come Stalingrado, anche Bakhmut all’inizio era solo un nome sulla mappa. Ad agosto, quando i primi missili russi sono piovuti sui palazzi e i 77mila abitanti hanno capito quanto fosse opportuno cambiare aria, era la tappa facile di un’avanzata che pareva inarrestabile.
“Il Donbass è nostro, Bakhmut sarà schiacciata presto”, promettevano i generali di Putin. Il piano era annichilirla e farne la base l’assalto a ciò che resta di libero nel Donetsk: le città di Kramatorsk e Sloviansk. Le cose sono andate diversamente. Il fronte si è inceppato a Bakhmut. E l’autocrate del Cremlino non lo accetta.
È diventata una questione di principio, un duello personale con Zelensky. Putin vuole Bakhmut, ne ha bisogno. Secondo l’intelligence britannica, è il regalo di Natale che intende portare alla Russia per dimostrare che no, non la sta perdendo questa guerra. Che non sono poi così importanti le ritirate strategiche cui è stato costretto dopo 302 giorni di “operazione speciale”.
Lo ha detto chiaramente a quei generali dalle promesse frettolose. Prima di rivolgersi alla nazione per la fine dell’anno, vuole un trofeo, almeno uno, da brandire verso chi dubita. Incurante del fatto che l’attimo favorevole è passato, perché gli ucraini hanno fortificato le seconde e le terze linee sulla via che porta a Kramatorsk. A Putin, questo, non interessa. Ha concentrato qui le sue divisioni migliori, l’artiglieria più letale, i mercenari più feroci che puntano il kalashnikov contro i commilitoni che tremano. Lo fece anche Hitler nell’inverno del 1942: spostò a Stalingrado il grosso della Wehrmacht, indebolendo il fronte orientale. Un errore fatale.
Il soldato semplice Oleksiy non ha letto il libro di Grossman. Ignora che il giornalista di Zytomyr già settant’anni fa metteva in parole la sua odierna vita di trincea. “Com’era pesante, la terra! Cavare gli stivali dal fango, sollevare il piede, fare un passo e poi ricominciare da capo costava una fatica enorme…”, scriveva in Stalingrado. È Oleksiy che arranca a quattro zampe, imprecando e sbuffando, il fango gli penetra nei guanti e annulla il tepore della polvere riscaldante.
Niente sa questo 21enne timido che voleva fare il commercialista, del grande fiume Volga, dell’abisso che inghiottì Stalingrado in sei mesi di battaglia, delle donne che per prime provarono a difendere la città usando cannoni che sapevano a malapena adoperare.
Dell’ordine numero 227, il “non un passo indietro”, che terrorizzò l’Armata Rossa: i sovietici, stremati, imploravano i comandi di arretrare, i comandi mandarono le unità Smersh con l’ordine di ammazzare gli esitanti. Eppure anche Oleksiy chiama Bakhmut “la nostra Stalingrado”, influenzato dai racconti di suo padre Ivan e di suo fratello maggiore Dmytro. I tre uomini della famiglia Varchenko: uniti dal sangue, dal ruolo che la Storia gli ha assegnato, dal braccialetto rosso e verde che indossano dal primo giorno in cui sono andati, insieme, alla guerra. Sono nella stessa unità e nella stessa zona di Bakhmut: il quartiere meridionale di Opytne.
Oleksiy crede solo a ciò che vede dalla trincea. Sbirciando oltre l’orlo del terreno, appare uno spettacolo ipnotico e terrificante. Appare Stalingrado. “Colonne di fumo si alzano a pochi metri da me, pezzi di razzo rotolano fin dentro al buco. Ci sparano addosso, anche duemila mortai al giorno. La terra trema, o forse sono io che tremo e non me ne accorgo. Il mio turno dura 24 ore. Sto lì, mi riscaldo con una candela, prego che non mi colpiscano”. Negli ultimi quindici giorni non si è mosso: il comandante gli ha ordinato di tenere la posizione e lui obbedisce. I suoi nemici sono al di là del fiume Bakhmutovka, il Volga di Bakhmut.
“Non so come fare a descrivere una cosa successa una settimana fa… non sono mica quello scrittore, Grossman…”. Provaci, Oleksiy. “Un giorno nebbioso, mi pare un mercoledì. Non si vedeva niente. All’improvviso i russi sono saltati fuori dalle trincee e si sono messi a correre verso di noi. Allo scoperto, senza un motivo. Sono stati falciati a decine dalla mitragliatrice. Altri russi uscivano dalla terra e si facevano ammazzare. Non ho mai visto una cosa del genere. Erano zombie, non finivano mai. Correvano incontro alla morte. È durata dalle due del pomeriggio alle tre di notte. Un cadavere aveva lo stemma della Wagner”. La Brigata dei mercenari di Putin, che arruola galeotti e li usa, sotto minaccia, come carne da cannone.
I droni si alzano in volo per correggere i tiri dell’artiglieria e riprendono più di quanto Oleksiy possa immaginare. Il ponte sul fiume è saltato. A sud e a est il tessuto urbano di Bakhmut è mangiato: mozziconi di case in fiamme, condomini sbriciolati, fumo, i carri armati che avanzano incerti nelle vie, i lampi dei proiettili di fucile all’interno dello stesso isolato, all’interno della stesso condominio. Il pensiero che torna di nuovo a Stalingrado: si sparavano dalle crepe degli appartamenti e i nazisti la chiamarono “la guerra dei topi”, perché, dicevano, “conquistiamo una cucina mentre combattiamo ancora in salotto”. A Bakhmut, si va oltre. Si lotta tra le bottiglie di champagne.
La Artwinery, la più grande ditta che produce vino spumante in tutta l’ex Unione Sovietica, si trova nel quartiere a est, oltre il fiume. Produceva 25 milioni di bottiglie. È uno scherzo della Storia perché da queste parti non ci sono vigne, l’uva arriva da Odessa. La volle Stalin quando scoprì per caso che il vino di pregio inviato dai Paesi sconfitti come riparazione postbellica si conservava bene nei 29 ettari di sotterranei delle miniere di gesso di Bakhmut. I tunnel oggi sono i migliori rifugi. Là sotto ci sono anche i militari del Battaglione Skala, che hanno ripreso l’enorme fabbrica devastata strappandola agli invasori, dopo scontri brutali tra botti e diraspatrici.Il numero dei morti è segreto militare. Le stime dicono non meno di 60-80 ucraini al giorno e un centinaio di russi.
“Non rinunceremo alla nostra terra, so che è in corso la battaglia più difficile e vi ringrazio”, ha detto Zelensky martedì mattina, incontrando in un impianto industriale i difensori di Bakhmut. I militari gli hanno messo nelle mani la bandiera dell’Ucraina, con le loro firme, per consegnarla al Congresso.
Sul panno blu e giallo, idealmente, c’è anche il nome di Oleksiy, che voleva fare il commercialista. E che non arretra di un metro. Perché, anche senza aver letto le pagine di Grossman, ne conosce il senso. Dalla guerra non si scappa, ti segue come un’ombra nera. E chi arretra se la tira comunque dietro, la guerra.
(da La Repubblica)
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