INTERVISTA AL FOTOREPORTER DI RASHIDEEN: “NON MI SENTO UN EROE, A VOLTE BISOGNA AIUTARE INVECE DI FARE FOTO”
LE SUE IMMAGINI MENTRE SOCCORRE I BAMBINI FERITI NELL’ATTENTATO HANNO FATTO IL GIRO DEL MONDO
“Si, ero disperato, piangevo senza sosta mentre provavo a salvare quel povero bambino e correvo il più veloce possibile verso l’ambulanza. Respirava a fatica. Mentre scappavo e piangevo sempre più forte, ho pensato al gas sarin che ha soffocato i poveri bambini di Khan Shaykun lo scorso 4 aprile. Quel giorno ho visto tanti piccoli morti, ma sono arrivato tardi e non ho potuto salvare nessuno. Stavolta invece una vita l’ho salvata, il destino ha voluto che io fossi lì”.
Abd Alkader Habak ha 23 anni, è un giornalista siriano e sabato scorso era anche lui nei pressi di Aleppo, per documentare l’arrivo di civili in fuga da Foua e Kefraya, due villaggi siriani circondati dai miliziani anti Assad.
Era un accordo mediato da Iran e Qatar: i cittadini (e combattenti) sciiti assediati nelle enclave sunnite in cambio di sunniti e ribelli intrappolati altrove.
Poi un’esplosione devastante ha squarciato l’ennesima esile tregua della Siria: un kamikaze su un’auto che apparentemente portava aiuti si è lanciata contro gli autobus di civili in attesa di arrivare ad Aleppo: 126 morti. Tra questi 68 bambini. Un’ecatombe.
Habak salva una vita e poi scoppia a piangere sul prato insanguinato, in una foto drammatica che fa il giro del mondo.
Habak risponde a Repubblica via WhatsApp: è sunnita e anche sui social network non fa mistero di essere un fermo oppositore di Assad.
Ma questo non le ha impedito di salvare un bambino forse sciita.
“Ne ho viste tante, troppe di tragedie simili negli ultimi sei anni, soprattutto ad Aleppo durante l’assedio delle forze governative: centinaia di bambini morti tra le braccia delle loro madri. Non potrò mai dimenticare quelle scene. Ogni tanto, quando mi siedo, l’unica cosa che riesco a fare è piangere”.
E davanti a una scena simile non ha potuto rimanere inerte.
“Nonostante sei anni di guerra indicibile, ho ancora dentro umanità . E quando c’è da salvare la vita di un bambino non faccio certo distinzioni. Chissà , magari un giorno il bambino che ho salvato crescerà e punterà un’arma contro mio fratello o forse mio figlio, ma io rispondo alla mia coscienza e umanità : è l’unica cosa che provo a custodire qui in Siria. Il governo dice che i ribelli o gli oppositori come me sono tutti mostri. Non è così”.
Ci spiega bene cosa è successo?
“Ero sul luogo della strage da un paio di giorni con altri colleghi e amici per documentare l’evacuazione dei civili in fuga. Abbiamo dormito in strada. L’atmosfera anche con i combattenti ribelli non sembrava tesa. Sabato pomeriggio la Mezzaluna Rossa stava distribuendo cibo agli sfollati mentre altre organizzazioni umanitarie avevano richiamato i bambini per dare loro biscotti. Ho notato un’altra auto arrivare, poi l’esplosione”.
Dove si trovava?
“Stavo filmando i bambini dall’altra parte della strada. La deflagrazione mi ha spinto e gettato a terra. Nel rialzarmi mi sono reso conto di non avere più con me la fotocamera, mi sono guardato intorno per capire dove fosse. Era accanto a un bambino ferito. L’ho preso in braccio e mi sono messo a correre verso un’ambulanza”.
È riuscito a salvare altre vite?
“Insieme ad altri colleghi abbiamo aiutato circa quaranta persone, soprattutto donne e bambini. Non so quante abbiano perso la vita”.
Per molti lei è un eroe.
“Non mi sento affatto un eroe. Faccio semplicemente il mio lavoro, il giornalista nel posto più pericoloso del mondo, ad Aleppo mi hanno sparato, domani potrei essere morto. Ma io non mi fermo. Non smetto di raccontare la Siria”.
Dov’è il bambino che ha salvato?
“Non lo so. È stato soccorso dal personale sanitario ma non ho idea di dove si trovi adesso”.
Se dovesse reincontrarlo un giorno cosa gli direbbe?
“Resta umano, sempre”.
(da “La Repubblica”)
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