MOSE, UN DISASTRO CONTINUO DA 8 MILIARDI
IL COMMISSARIO MAGISTRO, DOPO LE DIMISSIONI, SVELA IL SISTEMA: COSTI AGGIUNTIVI E FINANZIAMENTI IN RITARDO
Luigi Magistro, commissario governativo uscente del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), ha tre costole rotte per una brutta caduta. Non c’è molto da fare. Si aggiustano da sole. Nel frattempo, sono dolori.
C’è un parallelismo parziale con quello che è stato il lavoro di Magistro negli ultimi due anni e quattro mesi. Anche il Mose presenta guasti e procura dolori. Ma non si aggiusta da solo. Ci vogliono interventi, saldature, sostituzioni. È chirurgia infrastrutturale di precisione e costa soldi. Chi li metterà ?
Le imprese socie del Cvn, il Golem privato creato dai soldi pubblici che sta costruendo le dighe mobili a salvaguardia della laguna, non intendono provvedere di tasca propria.
Lo Stato latita, paralizzato da due imperativi categorici opposti. Il primo dice: basta emorragie finanziarie in laguna. Il secondo, per dirla con Luciano Spalletti, è: famo ‘sto Mose.
Mentre a Roma sfogliano la margherita, Magistro si è dimesso a fine marzo, come ha anticipato la Nuova Venezia.
Nelle motivazioni ufficiali date dal commissario c’è scritto «motivi personali», una causale che copre parecchio terreno.
Fatto sta che l’ex protagonista di Mani Pulite, colonnello della Finanza, direttore dei Monopoli di Stato e dell’Agenzia delle Entrate, 57 anni, ha quasi finito di lasciare le consegne agli altri due commissari straordinari del Consorzio: Francesco Ossola, docente al Politecnico di Torino, e Giuseppe Fiengo, avvocato dello Stato.
A quanto trapela da ambienti dell’Anticorruzione, guidata da Raffaele Cantone, Magistro non sarà sostituito.
Accetta di parlare con L’Espresso a una condizione. «Non vorrei che ci fosse una lettura negativa della mia uscita», dice. «I miei due colleghi sono persone molto capaci e ho lavorato benissimo con loro».
Ma se Magistro ha lavorato bene, come ha fatto, è difficile dare una lettura positiva.
Nella triade dei commissari era soprattutto lui quello che, per formazione e storia, doveva fermare la corsa dei costi provocata da anni di corruzione.
Era il gatto che doveva impedire ai topi di ballare. La controprova è arrivata poche ore dopo le sue dimissioni quando le imprese del Cvn, composto dalla padovana Mantovani, dai romani del gruppo Mazzi e di Condotte e da piccole aziende locali, hanno chiesto allo Stato 366 milioni di costi aggiuntivi. Il motivo? Ritardi nei finanziamenti pubblici.
Non è l’unico contenzioso, tutt’altro.
Le stesse imprese che, manager più manager meno, sono responsabili del disastro hanno avviato una decina di liti contro lo Stato e contro i rappresentanti del governo. E viceversa.
Soltanto nell’ultimo bilancio, Magistro, Fiengo e Ossola hanno chiesto agli azionisti del Cvn oltre 100 milioni di danni per un lungo elenco di malversazioni, dalle fatture false utilizzate a scopi corruttivi ai 61 milioni di euro per i leggendari massi importati dall’Istria e pagati come pepite d’oro.
«Non so nemmeno io quante cause abbiamo in piedi», dice Magistro. « So che da quando sono commissario i soci del Cvn mi hanno impugnato tre bilanci su tre: 2014, 2015 e 2016. Con i tempi della giustizia italiana ci vorranno dieci anni per sapere se ho ragione io oppure loro. Bisogna chiedersi se questo tipo di intervento dello Stato, in un contesto in cui la funzione pubblica non ha una grande forza, sia efficiente. Una cosa è il commissariamento della Maltauro per l’Expo 2015, con un appalto da 42 milioni di euro che andava portato a termine in tempi rapidi per una manifestazione limitata nel tempo. Altra cosa è il Mose, un sistema enorme, con moltissime imprese e con una prospettiva di gestione a lungo termine».
Una squadra che si vendeva le partite
Cantone ha spiegato con efficacia la posizione del governo sulla vicenda delle dighe mobili a margine di un incontro tenuto a Vicenza che aveva come tema principale il lancio della Pedemontana veneta, un’autostrada da 3,1 miliardi di euro.
Il numero uno dell’Anac, negando che ci siano stati contrasti dietro l’uscita di Magistro, ha sottolineato che la priorità è «fare ripartire il sistema» e «siglare un nuovo patto con le imprese». Non sarà semplice.
Magistro è entrato in carica a dicembre del 2014 dopo il commissariamento del Cvn voluto dal governo Renzi sull’onda dei 35 arresti di sei mesi prima e firmato dall’allora prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro.
Per avere un’idea di quello che è stato il suo lavoro e il suo ruolo bisogna immaginare un allenatore mandato a guidare una squadra di calcio che si vendeva le partite e che deve concludere a tutti i costi il campionato senza possibilità di cambiare formazione, mentre i giocatori fanno causa sia al mister sia a quello che ha messo i soldi: il contribuente, in questo caso.
Non pochi soldi, bisogna aggiungere. Il prezzo delle dighe mobili è arrivato a 5,493 miliardi di euro ma l’insieme delle opere deliberate per la salvaguardia della laguna veneta raggiunge quota 8 miliardi.
Di questa somma, restano da investire ancora 500-600 milioni.
Il sistema delle dighe mobili è stato lanciato a fine anni Ottanta, durante la Prima Repubblica. Ma i soldi veri sono arrivati a partire dall’inizio del secolo, con la legge obiettivo del governo Berlusconi e una previsione di completamento nel 2011.
Due anni dopo, nel 2013, quando il Mose aveva già sforato la consegna, la magistratura ha incominciato a colpire i protagonisti del sistema, a partire dal manager di Mantovani, Piergiorgio Baita.
La seconda ondata di arresti nel 2014, con il coinvolgimento del presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, dei politici locali e nazionali e dei controllori del Magistrato alle acque, non hanno certo accelerato i tempi.
Fino allo scorso mese di marzo, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio aveva fissato al 30 giugno il termine delle opere alle quattro bocche di porto. Niente da fare anche stavolta.
Pochi giorni fa è stato pubblicato il nuovo cronoprogramma ufficiale, con un annuncio congiunto firmato dai commissari e dal Provveditorato per le opere pubbliche del Veneto (nuovo nome dato dalla coppia Renzi-Delrio allo storico Magistrato alle acque).
Il termine dei lavori alle bocche di porto è stato spostato in avanti di sei mesi (31 dicembre 2018). La realizzazione degli impianti definitivi passa al giugno 2020 e la consegna delle opere è fissata al 31 dicembre 2021. L’inizio della gestione, che costerà almeno 80 milioni di euro all’anno rispetto ai 20 previsti, parte quindi dal Capodanno 2022.
Sono date attendibili? No, perchè al momento mancano 221 milioni sui 5.493 di prezzo chiuso fissato dopo anni di revisioni che hanno più che raddoppiato i preventivi di spesa dai 2,4 miliardi originali.
La somma non è stata stanziata nemmeno nell’ultima Legge di bilancio e, se il finanziamento non esiste, le date sono virtuali. In questo modo, lo Stato presta il fianco alle rivendicazioni delle imprese private che possono accollare la colpa dei ritardi alla parte pubblica.
Inoltre, in assenza di una linea di finanziamento per la manutenzione, tutto il sistema rischia di pagare pesantemente in termini di costi aggiuntivi.
Un esempio? Le dighe di Treporti sono già in acqua da tre anni e mezzo con una manutenzione prevista ogni cinque anni. È molto probabile che debbano essere revisionate prima che il sistema entri in funzione. Se entrerà in funzione.
Il nuovo rinvio nel completamento del Mose è stato rivelato all’opinione pubblica in poche righe di comunicato che solo i media locali hanno riportato. Ma perchè il Mose è in ritardo? Di chi è la colpa e chi dovrà pagare il conto di questo ennesimo rinvio?
Il Mose ad alto rischio può affondare Venezia
Le dighe mobili per la difesa della città lagunare somigliano sempre di più a un rottame: l’Espresso anticipa la perizia commissionata dal Ministero delle Infrastrutture. Il documento rivela il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l’uso di acciaio diverso da quelli dei test
L’attenzione del governo, dal Mit all’Anac, nei confronti del Mose è parsa in calo di recente e questo ha forse influito sulla scelta di Magistro, anche se lui non conferma. Delrio, oberato dalla crisi Alitalia, ha delegato il grosso dei controlli al nuovo Provveditore, Roberto Linetti, nominato alla fine di novembre del 2016. Cantone si è concentrato sullo scandalo degli appalti Consip
Intanto Magistro e i suoi due colleghi hanno dovuto affrontare la maggiore crisi tecnica da quando si parla di Mose quando
L’Espresso ha anticipato la perizia metallurgica firmata dall’ex docente padovano Gian Mario Paolucci per conto del Provveditorato. In nove pagine Paolucci ha esposto i rischi, molto elevati, che le cerniere, lo snodo dove si inseriscono le paratoie applicate ai cassoni, siano danneggiate dal lavoro micidiale dell’ambiente marino.
Magistro, Ossola e Fiengo hanno ordinato una serie di perizie e ispezioni che hanno ridimensionato il problema. In parallelo, è partita una campagna strisciante per dire che la perizia Paolucci è destituita di fondamento, che difetta di informazioni e che, qui si dice e qui si nega, Paolucci ci ha capito poco.
Mose, il gioco trentennale delle perizie
Dopo che l’Espresso ha pubblicato il documento choc che indicava le cerniere delle dighe lagunari a rischio corrosione, i responsabili della grande opera sono corsi ai ripari con una controperizia in tempi record. Una pratica ricorrente nella storia dell’infrastruttura
Il perito metallurgico ferito nell’onore ha incassato con signorilità . Il punto è che, se il perito ha ragione sulle cerniere, è «la catastrofe nucleare», come dice una persona molto vicina al progetto. Non oggi, non domani, forse fra qualche anno, ma il Mose è da buttare.
Politicamente in questo momento nessuno, a destra o a sinistra, si può permettere un disastro che porta la firma congiunta di tutti i partiti esistenti tranne i grillini, troppo giovani per avere partecipato al grande happening lagunare.
Come la stessa perizia Paolucci si augurava, «l’unica cosa da fare è sperare che i danni che certamente si saranno verificati sui connettori femmina di Lido, San Nicolò, Malamocco, Chioggia, siano contenuti».
Senza mettere in discussione le controperizie, la cronaca non lascia ben sperare. Finora tutto quello che si poteva guastare nel sistema Mose si è guastato.
Il catalogo è questo. I tensionatori si sono già arrugginiti anche se dovevano durare 50 anni e anche se, secondo il professor Ossola, materiali che durano 50 anni non ci sono nemmeno su Marte. Cambiarli tutti costerà 20 milioni. Per sistemare i danni alla porta della conca di navigazione di Malamocco ci vorranno 10-12 milioni di euro. Altri 2 milioni se ne vanno per la lunata del Lido crollata alla prima mareggiata poco dopo il collaudo. Un cassone è esploso nel fondale di Chioggia. Problemi assortiti si sono avuti alle tubazioni e alle paratoie
Infine, la nave jack-up realizzata dal gruppo Mantovani per trasportare le paratoie in manutenzione dalla loro sede alle bocche di porto al rimessaggio in Arsenale ha ceduto al primo tentativo di sollevare una delle barriere e soltanto nelle prossime settimane potrà tornare in azione dopo mesi in officina. Il costo del jack-up è di 52,5 milioni di euro. Il Cvn ne aveva ordinati due (105 milioni in tutto). Il secondo è stato tagliato da Magistro e sarà rimpiazzato da un muletto che costerà intorno ai 10 milioni.
Collaudi e concorsi di colpa
Tutto quello che non ha funzionato era stato regolarmente collaudato dagli esperti convocati dal Ministero delle infrastrutture e pagati decine di milioni.
Sotto il profilo giuridico-amministrativo è un problema gigantesco. Anche se alla conca di navigazione stanno emergendo responsabilità dei progettisti, così come per i tensionatori, il lavoro delle imprese private è passato al vaglio della committenza statale, con esito favorevole
È vero che esistono le coperture assicurative. Ma chiunque abbia avuto un piccolo incidente stradale sa che significa trattare con una compagnia di assicurazioni.
Il vero match è, ancora una volta, fra i commissari del Cvn e i soci del Cvn che, nella peggiore delle ipotesi, puntano a un concorso di colpa. La battaglia sarà durissima e l’ipotesi di Magistro – scontare i costi aggiuntivi dei danni da altre commesse – non sarà di facile realizzazione.
Ma di facile l’allenatore mandato da Renzi, Delrio e Cantone non ha avuto nulla. La squadra gli ha giocato contro fin dall’inizio, chi più chi meno. Fra gli ostili c’è la Grandi Lavori Fincosit del gruppo Mazzi.
Con un capitale schermato da due fiduciarie (Istifid e Spafid), dopo l’arresto di Alessandro Mazzi la società si è affidata per qualche mese a un ex boiardo di Stato riconvertito al privato, l’ex Eni, Stet, Autostrade e F2i Vito Gamberale. A gennaio 2016 Gamberale è uscito per cedere il posto all’ex Poste Massimo Sarmi, revocato un mese dopo per incompatibilità con l’incarico alla Milano-Serravalle e sostituito dal manager interno, Salvatore Sarpero
Più sfumata è la posizione di Mantovani.
Il gruppo padovano guidato da Romeo Chiarotto, 87 anni, è stato l’ultimo a entrare nel Consorzio Venezia Nuova rilevando la quota di Impregilo per un prezzo che non è mai stato quantificato in modo esatto. Chiarotto parla di 70 milioni, Impregilo di 50 e nei bilanci della Mantovani se ne vedono 15. Da piccola società di engineering in declino qual era, grazie al Mose Mantovani è cresciuta da 25 miliardi di lire alla fine degli anni Novanta al record di 443 milioni di ricavi nel 2013, seguito dal crollo successivo al commissariamento (186 milioni nel 2015).
Baita, ex azionista di minoranza e manager operativo di Mantovani, è stato il primo a finire agli arresti (febbraio 2013) e il primo a parlare del sistema corruttivo del Mose. Formalmente, è fuori dai giochi intorno al Mose ma forse soltanto formalmente. Chiarotto gli aveva promesso una causa per danni di cui non si è più avuta notizia
Gestire il mostro
La gestione delle dighe mobili rappresenta un’altra delle difficoltà che la struttura commissariale ha dovuto affrontare senza trovare, al momento, soluzione.
Con Berlusconi al governo, Altero Matteoli al Mit e Galan in regione, il tandem Mazzacurati-Baita aveva predisposto le cose in modo che il business del dopo Mose restasse in house ossia, in parole povere, non uscisse dal perimetro ben presidiato dalle imprese del Consorzio.
Venduta come un affaruccio da poco (20 milioni di euro all’anno che saranno mai?) gestione e manutenzione sono state sottostimate ad arte perchè potessero essere affidate alla Comar, un altro consorzio con gli stessi azionisti del Cvn.
Mettere a gara, magari europea, la gestione? Figurarsi. Il principio era che solo i realizzatori delle opere potevano sapere dove mettere le mani alle quattro bocche di porto.
Uno dei primi provvedimenti di Magistro è stato commissariare anche la Comar che, in questo modo, è sostanzialmente uscita dal match.
Ma l’idea di conservare la gestione in zona laguna è stata semplicemente trasferita a un’altra società della galassia Cvn. È la Thetis. Controllata dalla Saipem (gruppo Eni) nella fase iniziale del progetto antecedente le privatizzazioni, quando era l’Iri l’azionista di Condotte e nel consorzio c’era ancora Impregilo e non Mantovani, Thetis ha rischiato la chiusura anche quando era pubblica.
Poi è stata rilevata dallo studio di ingegneria Mazzacurati e, in fiammante conflitto di interessi, ha prosperato con le commesse che Mazzacurati presidente del Cvn dava a se stesso come proprietario di Thetis.
Mentre Comar aveva pochissimo personale, la Thetis, con sede all’Arsenale, è cresciuta nell’organico fino a oltre 100 dipendenti. Fra questi, c’erano alcuni rampolli illustri come Flavia Cuccioletta, figlia del presidente del Mav Patrizio, che ha patteggiato la pena, o come Eleonora Mayerle, figlia di Giampietro, vice di Cuccioletta.
Magistro puntava a liquidare anche Thetis, dopo Comar. L’obiettivo non è stato raggiunto. Oltre ai figli di padre noto, Thetis ormai è una realtà occupazionale importante, con personale qualificato ed è l’unica società di ingegneria nel centro di Venezia cannibalizzato dal turismo di massa. A difenderla sono intervenuti i sindacati (Filcams-Cgil) e il democrat Nicola Pellicani.
Le mazzette
L’inchiesta penale ha faticato parecchio a districarsi nel sistema delle complicità politiche ad alto livello fra Venezia e Roma. I protagonisti in laguna non andranno neanche a processo.
Baita ha patteggiato e, secondo molti, continua a esercitare un ruolo discreto dietro le quinte dell’appalto. Mazzacurati, partito per la California, ha 83 anni ed è stato dichiarato dal medico legale incapace di partecipare al processo a causa di «gravissimi deficit delle funzioni mnesiche a cui cerca di sopperire con la confabulazione ossia inventando la risposta».
Finora fuori dal processo che marcia verso la prescrizione è anche Claudia Minutillo, promossa manager di Adria Infrastrutture dopo essere stata segretaria del governatore forzista ed ex ministro Giancarlo Galan, uno dei pochi condannati eccellenti.
Le cifre sono ancora più eloquenti. A parte gli sprechi e i costi gonfiati che sono ancora da definirsi in termini di danno erariale, il nocciolo finanziario del processo parla di 33 milioni di euro di fatture false utilizzate per tangenti pari a circa metà del valore delle fatture.
Su un investimento pubblico da 8 miliardi di euro, ci sarebbero quindi state mazzette per 15-16 milioni di euro. Più che un processo penale ci sarebbe da distribuire qualche onorificenza al merito di una gestione così onesta, per gli standard nazionali e internazionali. «Credo che queste cifre siano soltanto la punta dell’iceberg», dice Magistro.
Durante la gestione Mazzacurati, il Consorzio produceva costi per circa 40 milioni di euro all’anno scesi a circa un quarto durante la gestione commissariale, con grandi critiche da parte dei soci che hanno accusato i commissari di spendere troppo.
Il solo Mazzacurati, nei suoi anni di regno sul Cvn, ha incassato una somma complessiva di 54 milioni di euro fra emolumenti e una buonuscita da 7 milioni di euro che è anche questa oggetto di contenzioso incrociato fra l’ex presidente, in attesa di ricevere ancora più di 1 milione, e l’amministrazione straordinaria, che vuole farsi restituire tutta la cifra.
Questo elenco di guai senza fine è il motivo per cui gli uomini del governo hanno preferito mantenere le distanze dal Mose, con il risultato forse non voluto di isolare la gestione commissariale.
Certo, per l’esecutivo Venezia significa guai. Non a caso il porto offshore per le petroliere, un progetto da 2,2 miliardi di euro già passato per una prima approvazione del Cipe, è stato cancellato dai radar appena uscito di scena Paolo Costa, ex presidente dell’autorità portuale veneziana. «Per fortuna», commenta Magistro. «Il porto offshore non era nemmeno da pensare».
Il commissario uscente chiuderà l’esperienza nei prossimi giorni, subito dopo Pasqua, e si dedicherà a un periodo sabbatico.
Il suo commento finale merita di essere riportato. «Quello che ho visto a Venezia non l’avevo mai visto in vita mia. Una spudoratezza totale».
Se lo dice lui.
Gianfrancesco Turano
(da “L’Espresso”)
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