LA “DOTTRINA BERLUSCONI” DOPO 20 ANNI SI FA LARGO A SINISTRA
DALLA MANCANZA DI POTERI DEL PREMIER AL SUPERAMENTO DELL’ART.18 PASSANDO PER LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA: SONO DIVENTATI I TEMI DEL GOVERNO
Pochi giorni fa Silvio Berlusconi, con non scontata lucidità , ha definito sè una bandiera a mezz’asta.
E però, per paradosso, proprio oggi sventolano in sommità del pennone le battaglie di un ventennio, combattute e mai vinte per colpe varie, del centrodestra e non soltanto. In queste settimane si racconta del milione abbondante di manifestanti radunati al Circo Massimo dalla Cgil di Sergio Cofferati nel marzo del 2002 in difesa dell’articolo 18, ma non sarà inutile ricordare una direzione nazionale dei Democratici di sinistra (4 dicembre 2001, segretario Piero Fassino) che produsse un ordine del giorno per emettere condanna contro «l’attacco condotto dal governo Berlusconi all’articolo 18», e cioè «uno degli architravi del nostro diritto del lavoro e delle moderne relazioni industriali»; evviva, dunque, alla «ritrovata unità dei sindacati confederali». Massimo D’Alema – ora dipinto come un anticipatore della riforma proposta da Matteo Renzi – scrisse una lettera al Corriere della Sera e puntualizzò il suo pensiero: «Proposte confuse, inique, controproducenti». Lui comunque l’articolo 18 non aveva mai inteso sfiorarlo.
Se Berlusconi non la spuntò dipese dai tremori della sua maggioranza, dall’opposizione sdegnata della sinistra, soprattutto dalla forza ora annacquata della Cgil
Eppure Berlusconi non ebbe mai gli atteggiamenti sprezzanti riservati da Renzi ai sindacati: lui li incontrava, talvolta sosteneva la necessità di «un dialogo serrato», magari li accusava di essere «campioni del conservatorismo», esprimeva aperto fastidio per il rito superato e al ribasso della concertazione.
Non è che ora si parli d’altro.
E però Renzi combatte contro un avversario indebolito dalla storia e spiazzato da ceffoni che arrivano da sinistra: il premier si fa riprendere dallo smartphone e replica a Susanna Camusso che lui non ha un bel niente da concertare con chi invece di difendere i lavoratori ha difeso ideologie del secolo passato.
Insomma, siamo ancora lì. Siamo al tema centralissimo e ripetuto a noia da un sempre più prolisso Berlusconi sull’impossibilità di governare: si metteva davanti a pubblico e telespettatori e si prendeva delle mezzore per descrivere l’iter infinito di una legge, fra commissioni, doppia lettura (Camera e Senato), dominio del parlamentarismo, controlli costituzionali: tutte cose eccellenti in tempi in cui la rapidità non era richiesta.
Berlusconi disse nei suoi modi sempre un po’ dozzinali che per guadagnare tempo sarebbe stato utile far votare soltanto i capigruppo (ma aggiunse: «Chi non è d’accordo può votare contro o astenersi»); in confronto quello del Movimento cinque stelle è un capolavoro: si chiama «traditore» chi vota in dissenso e lo si caccia, e il vicesegretario del Pd, Debora Serracchiani, teorizza il dibattito ma poi non sono ammesse defezioni (intanto che Renzi studia il modo di rafforzare i poteri dell’esecutivo, e nel frattempo pure lui comanda tramite i decreti d’urgenza, per i quali l’urgenza non è evidentemente più un requisito).
Quelli di destra, si diceva, avevano la solita tentazione totalitaria, e qualcosa del genere lo si attribuisce a Renzi, ma fra i partiti è poca roba, il più viene da fuori il Parlamento, da giornali, da intellettuali.
Chissà allora se è proprio un paradosso, o se invece è la logica conseguenza che, declinante Berlusconi, dilaghi la sua dottrina, specie a sinistra.
Il nuovo Pd non soltanto abbandona la complicata teoria di Padoa Schioppa sulla bellezza delle tasse, ma le abbassa (gli 80 euro) e promette di abbassarle ulteriormente.
Contrasta tremontianamente il rigore europeista, punta verdinianamente a una legge elettorale che premi il partito e non la coalizione, sfida brunettianamente il tempio della pubblica amministrazione, e si intravede semmai il pericolo che tutte queste riforme berlusconianamente non vengano approvate.
Sarà interessante soprattutto vedere che sarà di quella della giustizia: il concetto di inchieste a orologeria, spuntato di colpo fuori da Forza Italia, e le geremiadi di Luigi De Magistris (prima erano corrotti i politici, ora i giudici), hanno reso evidente – se ce n’era bisogno – che i rapporti fra politica e magistratura sono da ridefinire, dopo un ventennio di parziale e colpevole cessione di sovranità alle procure.
Mattia Feltri
(da “La Stampa”)
Leave a Reply